L’operosità creativa e finalizzata: caratteristica dei figli di Dio (Proverbi 6:6-11)

Domenica 19 Gennaio 2024 – Seconda domenica di Epifania

[Servizio di culto con predicazione, 57′]

[Solo predicazione, 32′]

Operosità e pigrizia                                

I vangeli riportano come gli esponenti più rigorosi della Legge morale che Dio aveva dato al popolo ebraico per esserne custode avessero accusato Gesù di infrangere le regole che riguardano il giorno di riposo settimanale del Sabato. La questione del Sabato la ritenevano, infatti, di fondamentale importanza, ma lo avevano tanto radicalizzato da farlo diventare cosa assurda e disumana che precludeva persino atti di misericordia. Il riposo, infatti, per quanto importante principio salutare da preservare per chiunque lavori, doveva essere interpretato in modo ragionevole e Gesù certo non si ritraeva, in quel giorno, dal fare del bene e ciò che era necessario. 

Ad un certo punto Gesù giustifica le sue presunte “trasgressioni” dicendo: “Il Padre mio opera fino ad ora, e anch’io opero” (Giovanni 5:17). Così dicendo, Gesù metteva in evidenza come Dio operi costantemente per il mantenimento del creato e per il bene delle Sue creature. Se Dio cessasse di operare, tutto si dissolverebbe [1]. “Ecco, colui che protegge Israele non sonnecchierà né dormirà” (Salmo 121:4). E nemmeno Dio “va in vacanza”!

Ora, indipendentemente dalla questione della necessità del riposo settimanale, quella dell’operosità creativa, la qualità, cioè, di chi s’impegna intensamente nel suo lavoro e nel produrre, così com’è contrapposta alla pigrizia, alla passività ed all’indolenza, è un valore molto importante nella concezione biblica del mondo e della vita. L’operosità, una delle caratteristiche di Dio, contraddistingue, infatti, anche “il figlio di Dio”, vale a dire chi gli somiglia moralmente e spiritualmente. C’è, però, chi è svogliato, pigro, passivo, indolente, “menefreghista”, che “se la prende comoda”, che preferisce ciò che è facile e comodo, lo “scansafatiche” che fa lavorare gli altri sfruttandoli a suo vantaggio, che si fa servire, che non tira su ciò che è caduto, che non chiude le porte e non spegne la luce quando esce, che è disordinato perché mettere in ordine “costa fatica”, che non si impegna in nulla e delega agli altri, che lascia a metà ciò che ha iniziato, che è inefficiente… Gli esempi di quelli che potremmo chiamare “pigrizia congenita” a questo riguardo si potrebbero moltiplicare. La passività non produce nulla di buono e costruttivo. Sono io così? Siete voi così? Se sì “non siete figli di Dio” o, se solo per quello, neanche “figli dell’uomo”, così come Dio lo aveva creato! Gesù disse di Sé, infatti: Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Marco 10:45).

La Parola di Dio, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, dà molto valore all’operosità e condanna ciò che, con un termine generale, chiamiamo pigrizia. Fra i molti testi biblici a questo riguardo ne esamineremo oggi due fra i più rappresentativi considerandone le implicazioni.

L’operosa formica

Il primo testo lo troviamo nel libro di Proverbi al capitolo 6:

“Va’, pigro, alla formica; considera il suo fare e diventa saggio! Essa non ha né capo, né sorvegliante, né padrone; prepara il suo cibo nell’estate e accumula il suo mangiare durante la raccolta. Fino a quando, o pigro, riposerai? quando ti sveglierai dal tuo sonno? Dormire un po’, sonnecchiare un po’, incrociare un po’ le mani per riposare… e la tua povertà verrà come un ladro, e la tua miseria, come un uomo armato” (Proverbi 6:6-11).

Nei Proverbi, il pigro (spesso descritto come “lo scansafatiche”) è colui che evita la responsabilità e vive nell’inattività, portandosi così ineluttabilmente verso la povertà materiale e spirituale. Paragonare l’operosità all’attività della formica additandolo come esempio di saggezza e operosità, è un’immagine comune anche in altre culture, come testimonia la favola di Esopo: “La cicala e la formica” [2]. Qui si contrappone la laboriosità della formica alla pigrizia irresponsabile, evidenziando come la formica lavori spontaneamente, senza bisogno di un capo o sorvegliante. Certo, per la formica, la cosa è geneticamente condizionata, ma è solo un’immagine. In ogni caso sa quali sono i suoi compiti e li svolge.

La pigrizia, qui intesa anche come inattività e quindi come ingiustizia, è condannata sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. L’apostolo Paolo, per esempio, ammonisce i cristiani a lavorare diligentemente, ricordando che chi non vuole lavorare non dovrebbe neanche mangiare (2 Tessalonicesi 3:10-12), come dice pure: “Se uno non provvede ai suoi e principalmente a quelli di casa sua, egli ha rinnegato la fede ed è peggiore di un non credente” (1 Timoteo 5:8). Provvedere diligentemente per sé e per altri fa parte della vocazione cristiana. Questo approccio distingue tra chi non può lavorare e chi sceglie di non farlo sfruttando il lavoro altrui o l’assistenza pubblica.

La formica, che accumula provviste in estate per prepararsi all’inverno, simboleggia anche  la saggezza della pianificazione e della previdenza. Allo stesso modo, i cristiani sono soprattutto chiamati a lavorare non solo sotto supervisione ma come un servizio reso a Dio stesso  (Efesini 6:6-7). Questo principio si riflette, per esempio, anche nella storia del patriarca Giuseppe in Egitto, che salva la nazione e il suo popolo dalla carestia grazie alla sua saggia lungimiranza (Genesi 41).

Proverbi, in questo testo, critica l’eccesso di sonno e riposo come simbolo di pigrizia e irresponsabilità. Dormire troppo è rappresentato come qualcosa che ci porta via dai nostri compiti e lavoro, il che che porta inevitabilmente alla povertà e alla miseria. La Scrittura invita alla disciplina e alla vigilanza, sia sul piano fisico che spirituale: “questo tanto più dovete fare, conoscendo il tempo nel quale siamo: è ora ormai che vi svegliate dal sonno” (Romani 13:11). Infine, il testo avverte che la povertà colpisce il pigro in modo improvviso, come un ladro o un aggressore. Non dovrebbe “sorprenderlo” ma vederlo come inevitabile conseguenza. La mancanza di preparazione è il fulcro dell’accusa: mentre chi lavora può affrontare i momenti difficili, il pigro non ha margini di recupero. Tuttavia, la Bibbia distingue tra povertà dovuta a circostanze incolpevoli come la disabilità, povertà causata da una colpevole inerzia. Elogia così la carità verso chi è nel bisogno ma condanna chi rifiuta volontariamente di lavorare (Salmo 41:1, 2 Tessalonicesi 3:10). In questo insegnamento, la Bibbia non solo condanna la pigrizia ma propone l’operosità come virtù che glorifica Dio e sostiene la comunità, offrendo un modello di vita che combina responsabilità personale e compassione per il prossimo. 

La pigrizia può manifestarsi in molti modi: procrastinazione, mancanza di disciplina spirituale, o un atteggiamento passivo verso le opportunità che Dio ci dà. Ci sono aree della nostra vita (spirituale, familiare, lavorativa) dove siamo “pigri”?

Di buon animo come per il Signore

La prospettiva cristiana sull’operosità l’abbiamo già accennata, ma merita mettere in evidenza quanto l’Apostolo insegna in Colossesi 3:23-24. Dice:

“Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete per ricompensa l’eredità. Servite Cristo, il Signore!”.

Questo versetto continua fa parte, nel suo contesto, delle istruzioni di Paolo ai “servi” cristiani. Allora la condizione della schiavitù, benché non giustificabile, era una posizione sociale che includeva un gran numero di persone. Chi si trovava in quella condizione ed era diventato cristiano, come doveva comportarsi? Il concetto che presenta, tuttavia, è formulato in modo molto generale. Il principio trascende quella particolare condizione, storicamente determinata e si applica a tutti i credenti, a tutti coloro per cui lavoriamo. L’idea è servire, ma come se servissimo Dio stesso.  Questo è per una buona ragione. Le nostre ricompense finali sono con Dio, non con gli esseri umani che serviamo solo per un breve tempo. Paolo riecheggia il suo insegnamento da un versetto precedente, secondo cui la condotta cristiana dovrebbe estendersi a tutti gli aspetti della vita, non solo come un piccolo insieme di regole. Per quanto riguarda i servi, questo potrebbe includere lavare i piatti o servire i dignitari. “Qualunque cosa” include qualsiasi contesto.

I cristiani di tutti i tipi devono lavorare “di cuore”, cioè “dall’anima”. Ciò implica le idee di entusiasmo e passione. Dimostrare un buon atteggiamento in ogni lavoro che svolgiamo lavorativo fa un’enorme differenza nella propria vita personale e nella nostra influenza sugli altri. Ai tempi di Paolo, i servi non avevano diritto ad alcuna eredità da un membro benestante della famiglia. Da un punto di vista materiale, questi schiavi avevano poco da aspettarsi dalla vita. Eppure Paolo li incoraggia ricordando che questa vita mortale non è quella in cui riceveranno le loro vere ricompense. L’eredità di Dio, la nostra dimora eterna con Lui, supererà di gran lunga le prove e i limiti di questa vita. Paolo cerca ancora una volta di far concentrare i suoi lettori a realtà più elevate (Colossesi 3:1–2) piuttosto che sulle preoccupazioni quotidiane della vita. Paolo conclude questo insegnamento con un riferimento al vero padrone del servo: Gesù Cristo. Perfino lo schiavo più umile, quando accoglie la fede in Cristo, diventa un servitore della persona più grande dell’universo. Non esiste onore o privilegio più grande di questo. Con questa prospettiva, un servo maltrattato può vivere con gioia, conoscendo il suo vero Padrone e la gioia eterna che lo attende (1 Pietro 1:8–9).

In ogni caso, anche i due versetti successivi forniranno un equilibrio cruciale per questa prospettiva su servi e padroni. Il versetto 25 ricorda al lettore che Dio non mostrerà favoritismi: coloro che fanno il male ne subiranno le conseguenze, schiavi o padroni che siano. Colossesi 4:1 continuerà quel pensiero avvertendo i padroni di non essere ingiusti verso coloro che servono sotto di loro. Paolo esorta così i credenti a considerare ogni lavoro, anche quello ordinario, come un servizio reso a Cristo. Questo eleva il lavoro quotidiano ad un atto di culto. Lavoriamo non solo per i benefici terreni (salario, successo), ma con riconoscenza per la grazia che ci è stata accordata, “l’eredità” promessa da Dio. La motivazione del credente è radicata nella fede e nell’amore per Cristo.

L’operosità cristiana non riguarda solo il lavoro fisico o professionale, ma anche l’impegno nello studio della Parola di Dio, nella preghiera, nell’evangelizzazione, e nel servire gli altri. La domanda pratica è quindi: stiamo facendo del nostro meglio in ogni compito, riconoscendo che tutto ciò che facciamo è per il Signore?

Contrasto e integrazione 

L’operosità creativa è dunque caratteristica del figlio di Dio. Dobbiamo, però, fare qui una distinzione. Attivismo e operosità sono concetti correlati ma distinti. Non ogni attività è operosa, e non ogni operosità si esprime in una frenesia di attività. L’attività si riferisce al semplice fare, al movimento, al compiere azioni, mentre l’operosità è caratterizzata da un impegno intenzionale e fruttuoso. Ad esempio, una persona può essere molto impegnata in attività che però non producono nulla di significativo o che distraggono da obiettivi più importanti. La Bibbia avverte contro una vita dispersiva. Dice: “… poiché con la moltitudine delle occupazioni vengono i sogni, e con la moltitudine delle parole i ragionamenti insensati” (Ecclesiaste 5:3). Operosità, invece, implica lavorare con scopo, diligenza e un atteggiamento di servizio.

In una società che spesso glorifica il “fare”, molti si sentono costretti a essere costantemente occupati, come se l’attività in sé stessa fosse una virtù. Questo stile di vita può degenerare in superficialità o insoddisfazione, poiché non si costruisce nulla di duraturo. Gesù stesso critica un’attività eccessiva e ansiosa quando parla a Marta, dicendo: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno” (Luca 10:41-42). Qui, Gesù non condanna il lavoro in sé, ma evidenzia come una frenesia priva di priorità spirituali possa distrarre dall’essenziale.

La vera operosità, perciò, non è definita dalla quantità di cose fatte, ma dalla loro qualità e dall’intenzionalità. È il lavorare con saggezza e motivazione, come insegna Proverbi: “Va’, pigro, alla formica; considera il suo fare e diventa saggio!” (Proverbi 6:6). L’operosità richiede discernimento: lavorare in modo efficace, senza spreco di energie, perseguendo fini che glorificano Dio e beneficiano gli altri. Operosità non significa neppure ignorare il riposo; il riposo è una parte del ciclo operoso, come dimostrato dal comandamento del sabato (Esodo 20:8-10).

Il cristiano è chiamato a integrare attività e operosità in modo equilibrato. L’operosità vera non conduce allo stress, ma alla pace interiore, perché nasce dal fare la volontà di Dio. L’apostolo Paolo ne è un esempio: era un uomo di grande operosità, ma il suo lavoro era sempre motivato dall’amore per l’Evangelo. In 1 Corinzi 15:58, scrive: “Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, abbondanti sempre nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore” Questo ci invita a non lavorare per il semplice desiderio di ottenere approvazione o accumulare beni, ma per servire il prossimo e diffondere il Regno di Dio su questa terra.

Questa distinzione tra attività e operosità può essere una chiamata alla riflessione: stiamo vivendo per riempire la nostra agenda o per compiere la missione che Dio ci ha affidato secondo la nostra particolare vocazione e talenti?

Conclusione  

L’operosità creativa e finalizzata dei figli di Dio è dunque un valore molto importante nella concezione biblica del mondo e della vita. Proverbi 6 richiama a considerare i danni causati dalla pigrizia, mentre Colossesi 3 mostra la dignità del lavoro svolto con cuore devoto a Dio. Essa è attività spontanea, diligenza nel provvedere, saggezza nella pianificazione e nella previdenza, lungimiranza e servizio reso a Dio e agli altri. È fatta di disciplina e “essere svegli” e si estende ad ogni aspetto della vita. È attività fatta con entusiasmo e passione ed eleva anche i lavori più umili ad un atto di culto. Questa operosità è soprattutto impegno intenzionale e fruttuoso, mirato al servizio. Non è quantità di cose fatte ma impostate alla qualità ed intenzionalità. Non significa, infine, ignorare il riposo, ma lavorare in modo efficace senza spreco di energie. Non conduce, infatti, allo stress, ma alla pace interiore, perché nasce dal fare la volontà di Dio.

Potremmo davvero dire che passività, inoperosità e pigrizia siano mortifere e frutto del peccato che immobilizza e vanifica i nostri sforzi. Chi ci potrà dare allora, l’energia che ci manca per operare creativamente e in modo finalizzato ai propositi di Dio? Dio, il Signore stesso della vita, che dobbiamo invocare e che ci potrà “energizzare”, di cui è scritto: “O Eterno, tu sei nostro padre; noi siamo l’argilla e tu colui che ci formi; noi tutti siamo opera delle tue mani” (Isaia 64:8). L’Apostolo infatti scrive: “…poiché è Dio che opera in voi il volere e l’agire, per la sua benevolenza” (Filippesi 2:13).

Quali sono, così, le aree della nostra vita in cui dobbiamo, come cristiani, combattere la nostra mortifera pigrizia? Siamo chiamati a dedicarci con rinnovato impegno all’opera che Dio ci ha affidato, nel lavoro quotidiano, nella famiglia, nella comunità di fede, nella società, e questo come “figli di Dio”, cioè come persone che assomigliano moralmente e spiritualmente a Dio Padre, così come lo era compiutamente il Signore e Salvatore Gesù Cristo.

Paolo Castellina, 10 Gennaio 2025

Note 

[1] Il fatto che: “Il settimo giorno, Dio compì l’opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l’opera che aveva fatta” (Genesi 2:2) stabilisce un principio di valenza multiforme da applicarsi al lavoro umano, non che Dio avesse bisogno di riposare od avesse cessato di operare.

[2] “Durante l’estate, la cicala passava il tempo a cantare e a divertirsi, mentre la formica lavorava instancabilmente per raccogliere provviste per l’inverno. Quando arrivò il freddo, la cicala, affamata e senza nulla da mangiare, si recò dalla formica per chiedere aiuto. La formica, però, le rispose: “Durante l’estate, mentre io lavoravo, tu cantavi. Ora danza, se vuoi!”. La morale della favola insegna l’importanza della laboriosità e della previdenza, contrastandole con la leggerezza e l’imprevidenza.

Per approfondire 

Vedi: Intraprendenza calvinista, Etica calvinista del lavoro, Maledetto colui che compie l’opera dell’Eterno fiaccamente