La lotta per il rispetto dei diritti – di Dio (Luca 17:7-10)

Domenica 2 ottobre 2022 – Diciassettesima domenica dopo Pentecoste

(culto completo con predicazione, 60′)

(Solo predicazione, 60′)


Introduzione alle letture bibliche

Letture bibliche: Salmo 137:1-8; Lamentazioni 1:1-6; 3:19-26; 2 Timoteo 1:1-14; Luca 17:5-10

Il popolo d’Israele era stato attaccato e massacrato crudelmente dagli imperialisti assiro-babilonesi. Occupato il loro territorio e distrutta Gerusalemme e il suo tempio, molti dei superstiti erano stati deportati in Babilonia. Laggiù avevano loro chiesto d’intrattenere i loro aguzzini con i loro canti? Come avrebbero potuto? Si rammentavano della loro patria e “dei bei tempi andati” e pregavano affinché Dio li vendicasse. Tutto questo è testimoniato dal Salmo 137. Il popolo d’Israele più volte nella storia è stato scacciato dalla sua terra subendo atrocità inenarrabili e si è disperso per il mondo. La condizione di Gerusalemme distrutta è descritta dalla nostra seconda lettura, tratta dal libro delle Lamentazioni. La fede del popolo di Dio, però, non è venuta meno, e culmina nell’affermazione: “è una grazia del SIGNORE che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite … Grande è la tua fedeltà!”. Al popolo di Dio sono state associate in Cristo persone da tutte le genti: esse condividono le stesse promesse, gioie e dolori, perché un mondo come il nostro, fatto di ribelli a Dio, considera “un corpo estraneo” da perseguitare e scacciare chi fedelmente Lo serve. Questo viene sottolineato dalla nostra terza lettura, tratta dalla Seconda Epistola di Paolo a Timoteo, dove, fra l’altro, egli dice: “Non avere dunque vergogna della testimonianza del nostro Signore, né di me, suo carcerato; ma soffri anche tu per il vangelo, sorretto dalla potenza di Dio”. Il popolo di Dio, antico e moderno, è chiamato a servire la causa di Dio in questo mondo. È un privilegio e una responsabilità evidenziata dalla nostra quarta lettura, tratta dal vangelo secondo Luca – quella che sarò oggetto oggi della nostra riflessione biblica.


La lotta per il rispetto dei diritti – di Dio

Diritti e doveri

Una delle caratteristiche del nostro tempo è l’accento molto forte che si pone sulla dignità e sui diritti della persona umana. Dal tempo in cui è stata stilata la Carta dei Diritti Umani, si sono moltiplicate le dichiarazioni per l’affermazione e la difesa dei diritti delle categorie umane più diverse. Tutto questo è senza dubbio importante, perché la storia umana è costellata d’ingiustizie, di soprusi, prevaricazioni e sopraffazioni che causano un mare di sofferenze. 

Bisogna però anche dire che il gran parlare che si fa sui diritti convive oggi con molta ipocrisia, perché queste dichiarazioni spesso rimangono solo sulla carta. Inoltre c’è pure la tendenza a esagerare tanto che, in diversi casi, viene ritenuta inammissibile anche la minima critica verso determinate categorie di persone, giungendo così a pregiudicare un altro diritto fondamentale, quello di parola. Per non parlare, poi, anche di un altro problema: siamo molto forti a parlare di diritti, ma anche molto deboli per quanto riguarda l’affermazione e la pratica dei nostri doveri. Molto sensibili a difendere “i nostri diritti”, siamo meno pronti a riconoscere i nostri doveri.

I cristiani sono chiamati a onorare e sostenere la lotta per il rispetto dei diritti della persona umana in quanto la sua dignità risiede nel fatto che ogni essere umano è stato creato da Dio a Sua immagine e somiglianza e che quindi, onorando ogni vita umana, onoriamo e rispettiamo Dio che l’ha creata. Questo, inoltre, lo dobbiamo fare nel rispetto e conformità alle leggi morali che regolano la nostra condotta, quelle che Dio ha sovranamente stabilite e rivelate, e che trovano nel Signore e Salvatore Gesù Cristo la loro espressione più alta e coerente. Fondamento dei diritti umani, quindi, per noi è Dio stesso che li regola, tanto che possiamo dire che questi diritti possono essere garantiti quando a essere rispettati sono soprattutto i diritti di Dio – il rispetto della Sua Persona e dell’ordinamento che Egli ha stabilito. I diritti umani sono così inscindibilmente legati ai nostri doveri verso Dio: un aspetto della questione che il solo parlarne indigna molti. La società moderna, infatti, sul trono mette l’essere umano come unico e incontrastato sovrano, misura di sé stesso e legge a sé stesso, ed esclude Dio come un’astrazione che considera non solo irrilevante, ma addirittura dannosa!

Il testo biblico

È per questo che un testo biblico come quello sul quale vogliamo riflettere quest’oggi, per la mentalità corrente risulta piuttosto imbarazzante già nel titolo stesso in cui compare nelle bibbie, cioè “I doveri del servo”. Chi però lo esamina senza pregiudizi scoprirà ben presto come non solo sia in linea con il messaggio dell’Evangelo, ma come sia autenticamente liberante. Il testo lo troviamo nel vangelo secondo Luca, al capitolo 17 dal versetto 7. Eccolo:

“Se uno di voi ha un servo che ara o bada alle pecore, gli dirà forse, quando quello torna a casa dai campi: “Vieni subito a metterti a tavola”? Non gli dirà invece: “Preparami la cena, rimboccati le vesti e servimi finché io abbia mangiato e bevuto, poi mangerai e berrai tu”? Si ritiene forse obbligato verso quel servo perché ha fatto quello che gli era stato comandato? Così, anche voi, quando avrete fatto tutto ciò che vi è comandato, dite: ‘Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare’” (Luca 17:7-10).

In che modo questo testo biblico ha rilevanza per il discorso che abbiamo iniziato a fare sui diritti? Perché scandalizza e indigna molti? In primo luogo perché ci ribelliamo all’idea che, rispetto a Dio, siamo considerati “servi”, dando noi valore alla personale nostra libertà di autodeterminazione. In secondo luogo ci ripugna la parola “obbligo”, il dovere di sottostare a comandi e il dovere ubbidire senza discussioni. Inoltre, questa parabola sembra giustificare uno sfruttamento dei lavoratori da parte del padrone. Infine, appare persino profondamente ingiusta perché sembra negare che chi lavora abbia diritto a un’adeguata ricompensa. Possibile che Gesù insegni cose simili?

In realtà, in questa parabola, Gesù prende semplicemente la realtà di quel tempo, un’economia basata sulla servitù, non tanto per denunciarla o giustificarla, ma per far comprendere importanti principi evangelici. Poco importa se essi non piacciono! Gesù è il nostro Signore: non siamo qui per criticarlo, ma per ricevere con fiducia la Sua Parola. I principi di cui parla in questa parabola, infatti, non solo continuano oggi a essere validi, ma a essi ci dobbiamo convertire! Cerchiamo di capire meglio e senza pregiudizi.

Le nostre pretese e i diritti di Dio

Dio non è a nostro servizio. La nostra generazione considera “scandalosa” ed “offensiva” una parabola di questo genere. Uno dei suoi problemi è, infatti, l’arroganza nei confronti di Dio. Noi pretendiamo che Dio sia a nostro servizio e ne siamo offesi se riteniamo che Egli non ci dia quello di cui pensiamo di averne diritto o non si comporti con noi come ci aspetteremmo. Secondo molti Dio “ci deve” vita, salute, benessere, protezione… Dio “deve” rispondere a ogni nostro desiderio e preghiera, …incondizionatamente, allo schiocco delle nostre dita! Se non lo fa, …siamo pronti alle ritorsioni! Se non fa quel che diciamo o pensiamo di dover avere, allora …gli sottraiamo la nostra fede, il nostro culto, oppure ritiriamo il nostro appoggio alla chiesa! Questo atteggiamento è molto comune!

Se fosse per noi, capovolgeremmo la parabola e diremmo che piuttosto il servo è Dio che, dopo aver lavorato per noi tutto il giorno, “finita la giornata di lavoro”, deve continuare a servirci. Non gli dobbiamo alcun grazie e non abbiamo alcun obbligo verso di lui: deve solo e sempre essere al nostro incondizionato servizio! Semmai ogni tanto gli diamo qualche “contentino”, come chi ritiene di dover andare ogni tanto in chiesa, la domenica (quando, naturalmente, non abbiamo “di meglio” da fare) sia “fargli un piacere”!

Un simile atteggiamento è rivoltante e blasfemo …ma chi pensiamo di essere? Evidentemente non ci rendiamo conto di chi sia Dio e di chi siamo noi! “Il Signore è grande e degno di lode eccelsa, e la sua grandezza non la si può misurare” (Salmo 145:3). Il Signore Iddio è degno della nostra più incondizionata fiducia e ubbidienza, lode e ringraziamento: tutto ciò che siamo e abbiamo, tutto ciò che facciamo e anche la nostra volontà e forza che abbiamo per compierlo, è Suo e dipende da Lui. Egli non “ci deve” proprio nulla e noi, a lui, tutto dobbiamo! Come peccatori non meritiamo nulla! Se poi ci rendiamo conto di quanto gravemente in difetto noi siamo nei confronti di Dio, di quanto grandi, offensivi e rivoltanti siano i nostri peccati verso di lui, la nostra ribellione, la nostra arrogante empietà, la nostra miseria morale e spirituale, certo non oseremmo pretendere da lui alcunché, se non il nostro giusto, ben meritato castigo!

Quando il Salvatore Gesù Cristo, santo e innocente, prende nella sua compassione e amore, il posto del peccatore che a Lui si affida, Lui paga il prezzo della sua salvezza. Egli prova su di sé tutto lo spaventoso peso del peccato e delle sue conseguenze. Fa la drammatica esperienza dell’abbandono da parte di Dio Padre, che Lui se ne sta lontano senza soccorrerlo e che lo rende oggetto della sua giusta ira. Gesù sente tutto il peso del silenzio di Dio che non dà ascolto alle parole dei suoi gemiti e non risponde, e sa che questo è giusto. Si rende conto di non meritare nulla se non l’inferno, perché nulla meno di questo merita il peccatore. Il messaggio dell’Evangelo vuole che noi ce ne rendiamo conto prima che sia troppo tardi. In questa prospettiva, allora, si possono capire meglio i principi esposti da Gesù nella sua parabola.

Solo a Dio la gloria 

I discepoli di Gesù avevano ricevuto dei compiti da svolgere nel mondo e anche la capacità straordinaria per adempierli. Ecco, così, che Gesù li esorta a non vantarsene come se fosse loro merito e dovessero, per questo, riceverne la gloria, né a considerare queste opere come “un servizio retribuito”. Essi dovranno operare in modo riconoscente dando, in quello che fanno, a Dio soltanto la gloria. Gesù stesso dice loro: “Guarite gli ammalati, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni; gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo 10:8). 

Quando gli apostoli guariscono un infermo nel nome di Cristo, Pietro ritiene importante dire a chi gliene chiede conto: “… se oggi siamo esaminati a proposito di un beneficio fatto a un uomo infermo, per sapere com’è che quest’uomo è stato guarito, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele che questo è stato fatto nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, che voi avete crocifisso, e che Dio ha risuscitato dai morti; è per la sua virtù che quest’uomo compare guarito, in presenza vostra” (Atti 4:9-10). Quando l’apostolo Paolo è accusato di fare quel che fa per un qualche suo profitto personale, Egli risponde: “Qual è dunque la mia ricompensa? Questa: che annunciando il vangelo, io offra il vangelo gratuitamente, senza valermi del diritto che il vangelo mi dà” (1 Corinzi 9:18).

Quel che riceviamo da Dio è per sola grazia: nulla ci è dovuto, dai molti privilegi che abbiamo alla salvezza stessa: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio” (Efesini 2:8); e “…se è per grazia, non è più per opere; altrimenti, la grazia non è più grazia” (Romani 11:6). Anche il bene che facciamo è opera sua: “infatti siamo opera sua, essendo stati creati in Cristo Gesù per fare le opere buone, che Dio ha precedentemente preparate affinché le pratichiamo” (Efesini 2:10). Che i discepoli di Gesù, così, non immaginino di poter pretendere alcunché dalle mani di Dio, immaginando di aversi guadagnato dei meriti, perché è tutto per grazia.

Non sarebbe mai abbastanza quel che facciamo nel servizio di Dio. Essi pure sono esortati a svolgere un dovere dopo l’altro senza pensare di aver fatto mai abbastanza, o più di quello che era loro dovere di fare. Esiste un momento in cui potremmo dire di non aver fatto abbastanza di Dio, di averlo “ripagato”? No, se lo pensiamo, non ci rendiamo conto dell’immensità di quanto noi otteniamo in Cristo. Nella parabola di Gesù, il padrone non ritiene che i suoi servi abbiamo per quel giorno fatto ormai abbastanza, ma che solo sia loro dovere continuare a servirlo. Dato che Dio può giustamente pretendere per Sé sia la nostra persona sia tutto ciò che ci appartiene, Egli non può in alcun modo essere considerato nostro debitore, per quanto noi si abbia lavorato duramente per tutta la vita. Quel che facciamo “è il minimo”! Quel che il servo fa, non è un favore rispetto al quale possa sentirsi obbligato di ricompensarlo, lodarlo o ringraziarlo. Ubbidirgli diligentemente “è il minimo” che noi si possa fare, non solo visto ciò che Dio è, ma pure per quanto ha fatto per noi. 

Non ha dunque senso parlare di voler avere “una ricompensa” per la nostra ubbidienza al Signore. Quale ricompensa vorremmo avere dopo aver già ricevuto tutto dal Signore, per grazia Sua? Ecco il senso della frase: “Così, quando avrete fatto tutto ciò che vi era stato comandato, dite: ‘Noi siamo servi inutili; abbiamo fatto quello che eravamo in obbligo di fare” (v. 10). Più che servi “inutili” qui bisognerebbe meglio tradurre: “Servi che non possono pretendere un utile sulla base del loro servizio” visto che già sono oggetto di tanta grazia. 

I discepoli di Cristo sono esortati, in questa parabola, a essere altrettanto laboriosi di chi ara nei campi o si prende ogni giorno cura del suo bestiame. Dovere dei ministri di Dio è quello di ricevere e di ritrasmettere la Parola di Dio, amministrare i sacramenti e svolgere tutti gli altri doveri del ministero. Ogni singolo credente, altresì, deve impegnarsi nel servizio della grazia, nell’opera della fede, nella fatica dell’amore, della pazienza e della speranza; come pure deve assolvere ai propri doveri verso sé stesso, la famiglia, la chiesa e il mondo.

Come servitori essi devono essere sempre all’opera, e quando un compito è svolto, devono mettere mano a un altro, così come il compito del genitore non è mai finito. Potrebbe forse un genitore dire: “Ho fatto le mie otto ore di genitore, e ora non ci penso più”? No. Il servizio cristiano è “un servizio permanente” animato dall’amore e dalla riconoscenza verso Dio. I cristiani sempre credono, sperano, servono, amano, fanno buone opere, allo stesso modo in cui non cessano di rendere culto a Dio. I cristiani non possono “andare in vacanza” dall’essere cristiani. Quando hanno fatto tutto ciò che gli era stato comandato, non devono pensare che il loro servizio meriti necessariamente plauso, profitto o riconoscenza.

Se il servizio è la predicazione della Parola, il predicatore deve essere riconoscente di potere così servire, che ha esercitato quei doni che gli sono stati dati, che il suo lavoro è stato utile, che Dio si è avvalso di lui, che ha fatto il bene degli altri, che ha così contribuito alla gloria e all’onore di Dio. Non deve aspettarsi che Dio lo ringrazi per aver diligentemente e fedelmente compiuto la sua opera, o immaginare di essersi accumulato chissà quali meriti! Se il nostro compito è di ricevere la Parola, dovremmo essere riconoscenti a Dio per avere il privilegio di udirla, di ricevere i sacramenti, di potersi avvalere di ministri, per avere avuto l’onore di servire Dio, di averne avuto del bene, un profitto, un vantaggio, un guadagno. Se il compito fatto è la preghiera, si deve necessariamente essere riconoscenti di averne avuta la possibilità, che essa è salita presso il Suo trono, che ne ha avuto l’esaudimento e la benedizione. Se l’opera è fare del bene con quanto possediamo, dovremmo solo essere riconoscenti a Dio per averle ottenute e che è stato loro possibile usarle, e non concluderne che ne abbia acquisito meriti o guadagni.

Tutto ciò che ci è comandato, come ricevere la Parola o trasmetterla, o pregare, o un qualsiasi altro atto di culto, qualsiasi atto di giustizia o di benevolenza, ogni dovere fatto in risposta e nel modo che Dio ci comanda nella Sua Parola, è un dovere e un’espressione di riconoscenza per quello che Dio è ed ha già operato nella nostra vita. Se siamo stati “utili” al Signore, questo è stato possibile per la volontà, forza e grazia che Dio ci ha accordato. Noi non possiamo dare a Dio nulla che Egli già non abbia, o che non sia nostro dovere. Dio non ha alcun obbligo verso di noi, né deve riconoscerne merito. Chi parla di “guadagnarsi il paradiso” non ha capito nulla dell’Evangelo di Gesù Cristo.

Per cui, per quanto la diligenza sia del tutto appropriata e ragionevole compierla nell’opera del Signore, è necessaria l’umiltà. Non dobbiamo arrogarci ciò che non ci spetta, o vantarci dell’opera che abbiamo fatto, dato che anche quando abbiamo fatto il meglio o il massimo, abbiamo solo fatto quel che dovevamo, quello di cui avevamo l’obbligo, e certamente in modo limitato e non ancora ottimale.

Conclusione

Proprio noi che pretendiamo che “siano rispettati i nostri diritti”, di “avere la giusta ricompensa” per i nostri sforzi; noi che diciamo, persino ai nostri familiari quando ci chiedono qualcosa: “Ehi, non sono mica tuo servo! Arrangiati tu!”, ecco, noi confessiamo essere nostro Signore Colui che disse: “Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Luca 22:27). Così Egli manifesta il Suo amore gratuito, la Sua grazia, e così Egli si aspetta che i Suoi discepoli si comportino. Dopo aver lavato loro i piedi, Gesù dice ai Suoi discepoli: “Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Infatti vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io. In verità, in verità vi dico che il servo non è maggiore del suo signore, né il messaggero è maggiore di colui che lo ha mandato. Se sapete queste cose, siete beati se le fate” (Giovanni 14:14-17). Lottare affinché siano rispettati i diritti umani è importante (nella misura in cui sono conformi a quanto la Scrittura ci insegna), lottare perché siano rispettati i diritti di Dio è ancora più importante, per quanto raro e inusitato appaia oggi essere. Ci si accorgerà ben presto, però, che facendolo, anche tutto il resto “andrà a posto” perché sarà quello che era inteso essere fin dall’inizio, qualcosa di buono, anzi ottimo.

Paolo Castellina, 24-9-2022, riduzione di una predicazione del 26-9-2016 originalmente del 20-1-2005.