Domenica 23 ottobre 2022 – Ventesima domenica dopo Pentecoste
(Servizio di culto con predicazione, 57′)
Che cosa vuol dire “essere una persona a posto”? Generalmente significa essere una persona onesta, perbene. Chi può considerarsi in questo modo? Tutto dipende dai criteri che si usano, dal metro di giudizio con il quale misuriamo noi stessi e gli altri. Possono essere “i criteri di accettabilità” prevalenti nella società e nel tempo in cui viviamo. Una buona domanda è chiedersi chi e come stabilisca questi criteri, e anche perché. La maggior parte della gente, però, non se la pone perché conformarsene “è una questione di sopravvivenza”. Per loro, infatti, il “così fan tutti” (qualunque cosa significhi) è decisivo. “Essere a posto” può poi voler dire essere diligenti nell’osservanza delle leggi della nazione in cui viviamo e non incorrere nelle sanzioni previste per chi le trasgredisce, i criteri del “buon cittadino”. La conformità alle regole della religione alla quale si appartiene, per qualcuno può essere altresì decisiva nel determinare se considerarsi una persona “a posto”, vale a dire in linea con gli standard cerimoniali, etici e morali che essa stabilisce. Il più delle volte, però, ciascuno determina da sé stesso quali siano i criteri rispetto ai quali considerarsi “a posto” ed essi generalmente sono alquanto flessibili perché ci si giustifica facilmente. Ecco così che “giustificarsi”, essere “giusti”, a questo riguardo, è un termine più accurato di “essere a posto”. “Giustificazione”, infatti, è quello che ricorre più spesso nella Bibbia perché si tratta di una questione di fondamentale importanza. Se in questo mondo i criteri per essere “giusti”, i criteri di giustizia, sono alquanto mutevoli, relativi, labili e persino soggetti a evoluzione, non così i criteri di accettabilità che Dio ha stabilito per le creature umane, la sua legge, che sono oggettivi e immutabili. Essi non solo sono i criteri di giudizio con i quali dobbiamo sempre confrontarci per capire se siamo “a posto”, ma sono quelli i criteri rispetto ai quali il Creatore ci giudica e verremo giudicati.
Una parabola di Gesù ci racconta di due persone che un giorno erano andate al tempio di Gerusalemme per pregare e che lì avevano fatto una valutazione di sé stessi. Solo uno di loro, però, era ritornato a casa giustificato. E questo sulla base della valutazione che Dio aveva fatto sulla loro condizione – il che è la cosa che più importa.
Questa parabola si colloca in una sezione dove troviamo Gesù che dà importanti insegnamenti sulla preghiera. Gesù aveva appena terminato di raccontare ai Suoi discepoli un’altra parabola “per mostrare che dovevano pregare sempre e non stancarsi” e dove aveva insegnato il valore della perseveranza nel pregare. La risposta alla nostra preghiera, però, non è mai “automatica”, perché chi prega, chi si rapporta con Dio deve sottostare a precise condizioni. Nella parabola di oggi, Gesù mette in particolare rilievo quale debba essere il giusto atteggiamento di fronte a Dio, la giusta valutazione di noi stessi. Ascoltiamola:
“[Gesù] disse ancora questa parabola per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio per pregare; uno era fariseo, e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: “O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo”. Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore!”. Io vi dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché chiunque s’innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato” (Luca 18:9-14).
A chi è rivolta questa parabola lo dice il vangelo stesso. Gesù intende questa parabola per coloro che sono in sé stessi persuasi di essere a posto davanti a Dio e alla società umana. Di fatto non lo sono. Perché il primo personaggio era sicuro di essere giusto sulla base della conformità alla sua tradizione religiosa, ma un simile atteggiamento vale anche per coloro che ritengono di essere giusti rispetto ai criteri di giustizia che loro stessi hanno stabilito o ritengono validi e sufficienti. Per molti aspetti lo era, ma vi era in lui infondata presunzione. Analizziamo la situazione narrata da questa parabola. Abbiamo qui due persone che valorizzano, com’è necessario, il loro rapporto con Dio, il Creatore, ma il primo caso aveva molto che “non andava”, nonostante le apparenze.
Due uomini che pregano
1. Il fariseo. Un fariseo, dunque, si discosta dal gruppo dei fedeli. Non ha timore di mettersi in evidenza, ritenendo di essere diverso, migliore, degli altri. Perché?
I Farisei erano membri onorati della società, fra i migliori della società di quel tempo. Intendevano differenziarsi impegnandosi più degli altri, a promuovere la causa di Dio nella società. “Dobbiamo fare di più e di meglio,” dicevano, “dobbiamo onorare Dio con più zelo e maggiore diligenza. Dobbiamo distinguerci da chi fa solo …il minimo indispensabile”. Si trattava di un proposito indubbiamente lodevole. I Farisei erano laici molto zelanti nell’applicare rigorosamente nella loro vita l’insegnamento delle Scritture e della tradizione. Regolarmente partecipavano a ogni cerimonia religiosa stabilita, leggendo, studiando e approfondendo i contenuti della fede. Essi cercavano di mettere diligentemente in pratica ogni legge e prescrizione. I Farisei sapevano come si doveva pregare applicandovisi. Oggi, generalmente, quando udiamo il termine “fariseo”, nella nostra mente si forma un’immagine negativa. Allora, però, erano gente molto rispettata e ammirata. Era gente di riguardo. Fare il proprio dovere può essere una virtù antipatica ad alcuni, ma, indubbiamente, è un valore con notevoli ricadute positive.
Quando Gesù attacca i Farisei, Egli denuncia non i loro propositi, ma quelli, fra di loro, che erano di fatto incoerenti e ipocriti. Gesù dice addirittura che dovremmo, come cristiani, fare meglio di loro: “Io vi dico che se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete affatto nel regno dei cieli” (Matteo 5:20). Gesù, in questa parabola, non parla di tutti i Farisei, ma di uno in particolare che si comportava in modo tale da vanificare le sue buone intenzioni.
2. Il pubblicano. Il pubblicano, invece, o esattore delle imposte, si poneva all’estremo opposto della società di quel tempo. Era percepito come il più odioso. Perché? I pubblicani, allora, erano gli esattori delle imposte che lavoravano per le autorità occupanti romane. Erano considerate persone dedite all’estorsione e dei traditori – estorsione, perché notoriamente esigevano più soldi del dovuto e se li mettevano in tasca; e traditori, perché servivano la potenza occupante di Roma. In pratica, erano persone prive di scrupoli morali e “privi di religione”. A loro non importava nulla, o ben poco, di Dio e della religione. Quello che a loro più importava erano i soldi, il guadagno, non importa come lo si conseguisse. Erano dei profittatori, degli indegni sfruttatori delle occasioni che si presentavano loro. Che importava loro il giorno del Signore, il culto, la religione? Prima veniva il lavoro e il guadagno, il piacere e il divertimento. Che importava loro della patria, e di chi la governava? L’’importante per loro era guadagnarci sopra, anche se si trattava di sfruttare e servire chi stava ingiustamente al potere. Anche in questo caso, Gesù non parla di tutti gli esattori delle imposte, ma di uno solo in particolare, che si differenzia.
Due preghiere
Si tratta, così, all’apparenza di “un buono” del tutto ipocrita e arrogante, e “un cattivo” i cui sinceri sentimenti verso Dio e la cui onestà nel vedere la propria situazione, lo spingono al ravvedimento. Quali erano le loro preghiere?
1. La preghiera del fariseo. “Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: “O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo”. E’ come se il Fariseo avesse detto: “Signore, è difficile essere umile quando, in confronto a me, qui non ci siano altro che ipocriti, gente corrotta e negativa”.
Oggi ci sono dei “farisei” che non si mescolerebbero neanche con “gli ipocriti” che vanno in chiesa per pregare e per i quali è motivo di vanto “non andarci”, ma non è questo il caso qui! Questo fariseo dice poi: “Grazie, Signore, che io non sono come gli altri, lo sai, quelli che rubano, quelli che tradiscono la loro moglie, o come quello laggiù che lavora per i nostri nemici. Si, Signore, io sono uno dei pochi, che fanno persino di più di ciò che la Legge richiede. Si, Signore, io ti ringrazio di non essere come gli altri”.
Egli non vede, così, che questi suoi sentimenti pregiudicano tutte le sue migliori intenzioni di distinguersi in senso positivo. Ha buone intenzioni, ma non vede “il marcio” che, ben più sottilmente, alberga nel suo cuore. L’autentica giustizia davanti a Dio, infatti, è qualcosa di più profondo. Il Salmista dice: “Tu desideri che la verità risieda nell’intimo: insegnami dunque la sapienza nel segreto del cuore” (Salmo 51:6). Il fariseo dice, ad esempio, di non aver mai commesso adulterio, ma, quante volte l’ha commesso nella sua fantasia, il che per Gesù è altrettanto grave!
2. La preghiera del pubblicano. La preghiera del pubblicano è diversa: “Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore!”. L’esattore delle tasse, stava laggiù, indietro, nell’ombra. Non vorrebbe farsi riconoscere. Troppo grande è la sua vergogna per come ha vissuto fin ora. Difatti se ne rende conto, ed è venuto al tempio proprio per confessarlo davanti a Dio, e per chiedere il perdono di Dio sul suo comportamento che vuole abbandonare. Ha timore degli altri fedeli, che vede migliori di lui. Egli è consapevole che, se lo scoprissero, essi avrebbero ben motivo di condannarlo a viva voce, di cacciarlo dal tempio stesso! Egli è venuto al tempio, però, con l’intenzione di cambiare vita, di riconquistarsi, se possibile, il favore di Dio e il favore della comunità. Temeva persino “d’alzare gli occhi al cielo”. Sa di non meritare nulla davanti a Dio, se non la Sua riprovazione, condanna e giusto castigo. Così egli si batte il petto in segno di autentico dolore per i propri peccati e dice: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore”. Egli è consapevole dei suoi peccati, consapevole che essi lo separano irreparabilmente da Dio. Certo, i suoi peccati sono più “macroscopici” e quelli del fariseo, “più sottili”, ma tant’è: egli è venuto per confessarli, per chiederne perdono e per avere la possibilità di vivere in modo diverso.
Due risultati
Gesù, così, mette in rilievo quali siano i “risultati” della preghiera, perché ogni preghiera comporta conseguenze. Ecco che cosa dice Gesù: “Io vi dico che il pubblicano tornò a casa sua giustificato, piuttosto che il Fariseo; perché chiunque s’ innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato»” (18:14).
Gesù dice che quell’esattore delle tasse se n’era poi ritornato a casa sua “giustificato”, giustificato di fronte a Dio, cioè perdonato e ristabilito nel Suo favore, pronto per cominciare una nuova vita. Era stato, infatti, riabilitato agli occhi di Dio. La sua richiesta di perdono aveva avuto ascolto, perché Dio è misericordioso. Quell’esattore disonesto riceve la benedizione di cui aveva parlato il Salmo: “Beato l’uomo a cui la trasgressione è perdonata, e il cui peccato è coperto! Beato l’uomo a cui il SIGNORE non imputa l’iniquità e nel cui spirito non c’è inganno!” (Salmo 32:1,2).
Il Fariseo, invece era ritornato a casa propria non giustificato da Dio, con nulla, nonostante la valutazione che aveva fatto di sé stesso. Tutte le sue migliori intenzioni di eccellere nell’ubbidienza alla volontà rivelata di Dio, si erano rivelate inutili, non perché non fossero valide, ma per la sua scarsa lungimiranza nel non vedere la sua vera condizione. Perché, allora, i risultati conseguiti da questi due uomini sono diversi?
Notate lo spirito in cui questi due uomini avevano pregato. Il Fariseo:
(1) Considerava sé stesso moralmente e religiosamente superiore agli altri. Le sue aspirazioni, benché giuste, lo avevano ingannato sulla condizione del cuore umano, sulla sua reale condizione, che non gli avrebbe comunque permesso di vantarsi. (2) Disprezzava coloro il cui calibro spirituale era considerato inferiore al suo, lodava sé stesso e condannava il prossimo. Non ci è lecito il confronto superbo e l’arroganza, perché il peccato ci accomuna tutti e può essere molto sottile e altrettanto grave di quello altrui. (3) Esaltava in sé stesso le sue pratiche religiose. (4) Confidava che le proprie opere buone lo rendessero accettevole a Dio. Eseguire le opere che Dio richiede è necessario, doveroso, insindacabile, ma “…è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio” (Efesini 2:8). (5) Non vedeva i propri peccati, e quindi, il bisogno che aveva di Dio. La condizione umana, infatti, è quella di un peccato radicale che certamente le nostre buone intenzioni non possono sradicare. E’ meglio rendersene conto al più presto. (6) Si misurava rispetto ad altri, e non rispetto a Dio, che è assoluto nella Sua santità; costruiva il valore che dava a sé stesso sui fallimenti altrui. Spesso è comodo misurarci con gli altri. Se lo facciamo potremmo ingannare noi stessi. E’ con il metro della giustizia rivelata di Dio che dobbiamo confrontarci, allora il nostro atteggiamento sarà ridimensionato. (7) Non aveva un cuore umile e contrito. Questo è un sentimento molto “innaturale” per ogni essere umano, eppure è l’unico a essere realistico. Se vediamo la realtà, infatti, com’è, anche il migliore fra noi scopre d’essere ben lontano da quello che dovrebbe essere.
L’esattore delle imposte, invece: (1) Riconosceva la santità di Dio; sapeva quanto grande è il divario fra lui e Dio. (2) Riconosceva onestamente il peccato che c’era nella sua vita, non lo nascondeva né lo negava. Riconosceva il bisogno che aveva della grazia di Dio e l’implorava. Rammentiamoci le parole di Gesù con le quali Egli chiude questa parabola: “perché chiunque s’ innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato” (Luca 18:14).
L’arroganza religiosa è indubbiamente diffusa e la Parola di Dio la smaschera senza tanti complimenti, perché, oltre a ingannare noi stessi, è sommamente odiosa agli occhi di Dio. L’arroganza, però, la “presunzione di giustizia” è pure molto diffusa anche fra chi religioso non è. Quanti sono, infatti, coloro che “si ritengono a posto” confrontandosi con “chi è peggio di loro” oppure assumendo i propri criteri come “il” criterio della propria giustizia. È il cosiddetto “perbenismo borghese”, fortemente ipocrita. Il criterio della giustizia, però, quello che ci rende “persone rispettabili e accettabili”, lo stabilisce Dio, nella Sua Parola, ed è riflesso nel Suo carattere. A quello dobbiamo confrontarci. Quando ci specchiamo nel criterio di giustizia della Parola di Dio chi mai potrebbe sussistere e dichiararsi giusto? Anche il migliore fra noi non potrà che vedere la sua grande miseria morale e spirituale, e gridare a Dio che lo salvi!
Il Fariseo della parabola, zelante per la fede e ben versato nelle Scritture si era dimenticato di quel brano d’Isaia che dice: “Tutti quanti siamo diventati come l’uomo impuro, tutta la nostra giustizia come un abito sporco; tutti quanti appassiamo come foglie e la nostra iniquità ci porta via come il vento” (Isaia 64:6). Molto realisticamente, l’apostolo Paolo anche per noi scrive: ‘“«Non c’è nessun giusto, neppure uno. Non c’è nessuno che capisca, non c’è nessuno che cerchi Dio. Tutti si sono sviati, tutti quanti si sono corrotti. Non c’è nessuno che pratichi la bontà, no, neppure uno». (…). Or noi sappiamo che tutto quel che la legge dice, lo dice a quelli che sono sotto la legge, affinché sia chiusa ogni bocca e tutto il mondo sia riconosciuto colpevole di fronte a Dio; perché mediante le opere della legge nessuno sarà giustificato davanti a lui” (Romani 3:10-20).
Il giusto atteggiamento
Qual è, dunque, l’atteggiamento corretto per presentarsi di fronte a Dio in preghiera? Quale dev’essere il nostro atteggiamento rispetto alla nostra personale “giustizia” e accettabilità come persone? Dobbiamo pregare con uno spirito d’umiltà e dare ragione a Dio quando nella Sua Parola, descrive l’essere umano come peccatore, corrotto “fino al midollo” e condannato. Ecco perché dobbiamo invocare la Sua grazia. Essa ci è disponibile in Cristo, che è venuto proprio per pagarne il prezzo. Ecco perché siamo chiamati ad affidare a Lui la nostra vita! Anche il cristiano che intende “far giusto” davanti a Dio, si guarderà poi dalla pretesa di essere migliore di altri, riconoscendo d’essere solo un peccatore salvato per grazia. Dice la Scrittura, “…Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio” (Efesini 2:8). Dobbiamo pregare sapendo che persino il privilegio di venire davanti a Dio è un dono. Dobbiamo pregare consapevoli che Dio respingerà una preghiera piena di presunzione. Dio accoglierà una preghiera contrita, una preghiera onesta sulla nostra vera condizione, consapevole del bisogno che abbiamo della grazia di Dio. Dobbiamo pregare sapendo che Dio esaudirà l’invocazione di misericordia, e che ci aiuterà e perdonerà, non importa ciò che siamo o ciò che abbiamo fatto. Quali sono i criteri con i quali giudichiamo noi stessi? Tipicamente ci giustifichiamo da soli, ma solo assumendo l’atteggiamento del pubblicano contrito e penitente anche noi potremo “ritornarcene a casa giustificati”.
Paolo Castellina, 15 ottobre 2022. Riduzione di una mia predicazione del 29 agosto 2003.