La domanda più importante
Introduzione
Come affrontiamo noi la realtà della morte? Siamo noi fra quei materialisti che sostengono che una volta morti tutto è finito "pace e amen" e che ciò che conta è questa vita? Oppure ci poniamo fra quei milioni di persone di ogni tempo, paese e civiltà che non solo hanno creduto nell'esistenza di una vita dopo la morte, ma che hanno cercato di "assicurarsene" responsabilmente la "qualità"? "Ma non se ne sa nulla di certo!" qualcuno potrebbe dire, e io rispondo: "...e se fosse invece vero, come io credo che sia vero, e tu non preparandola come avresti dovuto, te la pregiudichi irreparabilmente? Puoi rischiare?".
In ogni caso molte persone responsabili si sono fatte la domanda "che cosa devo fare per essere salvato?" e ne hanno trovato la ragionevole risposta. Vorrei oggi presentarvi uno di questi casi, in un magnifico episodio della Bibbia. Il libro biblico degli Atti degli Apostoli è appassionante, perché racconta delle disavventure e dei successi degli Apostoli mentre compiono la loro missione di diffondere il messaggio circa la salvezza che uomini e donne possono ottenere in Gesù Cristo.
Al capitolo 16 troviamo gli apostoli Paolo e Sila che, recatisi nella terra di Macedonia, nella città di Filippi, predicano la salvezza in Gesù Cristo. Il loro messaggio dimostra nei fatti tutta la sua potenza ed efficacia nel vincere superstizione, la paura, l'ignoranza, e la schiavitù. Un grande successo però che suscita la reazione rabbiosa di chi da tutto questo profittava per ricavarne i suoi bravi profitti.
Ecco così che, con false accuse, Paolo e Sila vengono trascinati in tribunale e ingiustamente condannati. C'è però un fatto magnifico che avviene in questa circostanza, ascoltate:
"...e dopo averli battuti con molti colpi, li gettarono in prigione, comandando al carceriere di tenerli al sicuro. Questi, ricevuto un tale ordine, li gettò nella parte più interna della prigione e fissò i loro piedi ai ceppi. Verso mezzanotte Paolo e Sila pregavano e cantavano inni a Dio; e i prigionieri li udivano.
Improvvisamente si fece un gran terremoto, tanto che le fondamenta della prigione furono scosse; e in quell'istante tutte le porte si aprirono e le catene di tutti si sciolsero.
Il carceriere, destatosi e viste le porte della prigione spalancate, trasse fuori la spada e stava per uccidersi, pensando che i prigionieri fossero fuggiti. Ma Paolo gridò ad alta voce: Non farti alcun male perché noi siamo tutti qui. E, chiesto un lume, egli corse dentro, e tutto tremante si gettò ai piedi di Paolo e Sila, poi li condusse fuori e disse: Signori, che cosa devo fare per essere salvato? Ed essi dissero: Credi nel Signore Gesù Cristo, e sarai salvato tu e la tua famiglia. Poi essi annunziarono la Parola del Signore a lui e a tutti coloro che erano in casa sua... e furono subito battezzati. Condottili quindi in casa sua, apparecchiò loro la tavola e si rallegrava con tutta la famiglia di aver creduto in Dio" (At. 16:23-34).
Un uomo, in questo caso il carceriere, si fa così la domanda più importante che pure ciascuno di noi si dovrebbe fare: che cosa devo fare per essere salvato? Un uomo qui comprende la sua follia nell'aver vissuto da incosciente e da irresponsabile e si preoccupa del destino eterno di sé stesso e della sua famiglia.
Non reputa che tutto gli sia dovuto e che alla fine tutto gli andrà bene, non dice "Non si sa nulla di certo sull'aldilà, vedremo...", ma prende la sua responsabilità di interrogare gli apostoli e i profeti per poi giungere felicemente ad abbracciare quella salvezza in Cristo che altrimenti gli sarebbe stata negata.
Non è vero che molti di noi vivono da incoscienti e da irresponsabili sulla loro salvezza eterna, pensando magari che tutto sia loro dovuto e si rifiutiamo persino solo di considerare se la parola del Signore dica la verità oppure no?
La tragedia è che noi facciamo diligentemente il nostro dovere in tante cose per provvedere quello che materialmente serve a noi stessi e alla nostra famiglia e non facciamo nulla per provvedere a noi stessi e alla nostra famiglia il cibo spirituale che conduce alla vita eterna e che solo in Gesù Cristo si trova! Consideriamo l'esperienza di questo carceriere.
I. La sua condizione prima della sua conversione
1. Quest'uomo era un peccatore sconsiderato, e non tanto per quello che faceva in quel momento, perché la colpa della persecuzione contro gli apostoli del Signore era della folla e dei pretori, ma dalla sua condotta come traspare dal v. 26, in cui troviamo la figura di un uomo mondano, negligente, senza Dio, portato alla disperazione da un'inaspettata calamità che gli era piombata addosso. Non aveva timore di Dio dato che aveva più paura "di quelli che uccidono il corpo.. e non di colui che può far perire l'anima e il corpo nella Geenna" (Mt. 10:28); non si curava della sua anima, dato che era pronto a pregiudicarsene la salvezza. Egli era assolutamente incurante dell'eternità, dato che per sfuggire con la morte ai guai che avrebbero potuto succedergli in questo mondo se avesse mancato alla sua responsabilità di custodire i prigionieri, non vedeva i guai ben peggiori in cui sarebbe incorso se si fosse presentato anzitempo ed impreparato difronte al divino Giudice. Che cosa sono infatti le responsabilità di questo mondo nella prospettiva di vedersi eventualmente pregiudicata per sempre la salvezza dell'anima, mancando nelle proprie responsabilità spirituali?
2. Un cambiamento subentra in lui, però, prima della sua conversione: improvvisamente prende coscienza della sua follia, e da peccatore sconsiderato, diventa un peccatore consapevole della sua reale condizione. Egli si rende conto della sua vera condizione davanti a Dio e del pericolo ben maggiore in cui egli incorre se non prende seriamente le parole che aveva udito. Quello che è successo non avrebbe potuto essergli indifferente. Vede la potenza dell'Evangelo all'opera della schiava indovina (16), la condotta degli apostoli, il terremoto, l'esortazione di Paolo. Tutto questo lo fa disperare di sé stesso e lo terrorizza, tanto che tremante si getta ai piedi di Paolo e Sila (29) e si chiede: "C'è ancora tempo per fare ammenda della mia incoscienza: ora che comprendo, che cosa devo fare per essere salvato?. Non è straordinario questo cambiamento? Dall'apatia alla sincera preoccupazione, da un atteggiamento sconsiderato all'atteggiamento di chi responsabilmente vuol sapere.
3. Questo non è però ancora conversione. Qualcosa di grande è avvenuto in lui: ma comprendere la propria reale condizione non porta sempre alla conversione. Aveva un forte rimorso, ma rimorso non è ancora ravvedimento; aveva paura, ma la paura non è fede; temeva il pericolo spirituale incombente su di lui, ma l'essere cosciente del pericolo non significa ancora conoscere la via della salvezza. Questo non era che la preparazione alla conversione, sintomi che facevano ben sperare di lui, ma questi sintomi avrebbero ancora essere soffocati, resistiti, vinti.
Che non fosse ancora convertito lo vediamo dalla sua domanda: lui ancora ignorava la speranza del peccatore, cercava di fare qualcosa, mentre era necessario che Qualcuno facesse qualcosa di divino in lui.
II. Gli strumenti della sua conversione
Non importano tanto quali siano le circostanze che fanno aprire gli occhi ad un peccatore e fargli domandare "che cosa devo fare per essere salvato?" siano esse un terremoto o una tenue voce nella sua coscienza. Le circostanze possono essere diverse, ma lo strumento della conversione è sempre solo uno- la verità che è in Gesù Cristo, il pieno Evangelo della grazia di Dio. Non era stato il terremoto a convertire e quel carceriere, al contrario, l'effetto di quel terremoto era stato un terrore che lo stava portando al suicidio. Quello che però il miracoloso evento non poteva operare era stato fatto dall'annuncio dell'Evangelo. Egli doveva distogliere lo sguardo da sé stesso per rivolgerlo a Cristo Gesù, doveva rinunciare ad ogni speranza di salvezza riposta nelle proprie opere, ed ottenerla per fede nell'opera del Salvatore Gesù. L'apostolo gli aveva detto: "Credi nel Signore Gesù Cristo, e sarai salvato tu e la tua famiglia" il che implicava che:
1. Egli doveva credere alla verità concernente Cristo Gesù, che è implicita nel suo nome stesso, che Egli cioè è l'unico nome che sia stato dato all'umanità per cui noi abbiamo ad essere salvati, che Gesù è Colui che Dio ha consacrato per salvare ogni peccatore dal peccato e dalle sue conseguenze, temporali ed eterne, che Gesù è Colui dal quale solo dipende il nostro destino personale.
2. Egli doveva credere in Cristo, cioè consapevolmente affidare l'intera sua vita a Lui, conoscerLo a fondo, lasciarci istruire dalla Sua Parola, lasciare che essa lo trasformasse profondamente, lasciare che Cristo solo fosse Colui al quale doveva la più grande ed incondizionata obbedienza.
Ecco così che l'Evangelo così propostogli era l'unico mezzo che prescriveva il rimedio perfettamente appropriato e sufficiente per guarire i mali che egli sentiva o temeva, l'unico mezzo sufficiente che conteneva tutto ciò che gli fosse necessario per istruirlo, incoraggiarlo, persuaderlo.
III. La natura della sua trasformazione
La conversione del carceriere era consistita nel affidare consapevolmente la sua vita al Salvatore Gesù Cristo: senza questo specifico atto non avrebbe potuto dirsi veramente salvato.
Avere questa fede, la fede che salva, non è infatti solo questione di opinioni ma deve manifestarsi concretamente nei fatti, dare tangibili evidenze della sua esistenza, ed esse erano evidenti in quest'uomo.
Anelava a saperne di più del Salvatore Gesù Cristo (32), era sinceramente preoccupato che anche la sua famiglia potesse avere lo stesso tipo di fede; la sua fede si era manifestata in concrete espressioni di amore, in questo caso verso gli apostoli; sentiva una grande gioia ed una grande pace interiore prodotta da essa; aveva dichiarato apertamente che in lui era avvenuto il miracolo della fede.
Conclusione
Diversi oggi, anche oggi fra di noi, credono che la morte sia la fine di tutto, io prego che Dio guarisca la loro cecità.
Altri dicono magari di credere in Dio, reputano di "essere a posto", ritengono che in qualche modo la salvezza eterna sia loro dovuta, essi però dimostrano il contrario proprio nel fatto che sono molto negligenti, privi di ogni autentico timore di Dio e di interesse per la condizione della loro anima: io prego per loro affinché prendano sul serio il Salvatore Gesù Cristo e gli obbediscano per il loro stesso bene.
Talvolta per la grazia e misericordia di Dio, Egli si compiace di usare particolari fatti ed avvenimenti della loro vita come stimolo ed occasione per far loro aprire gli occhi sulla loro vera condizione davanti a Dio e per metterli in guardia contro le loro false sicurezze.
Spesso questi avvenimenti risultano in un maggiore senso di angoscia e di disperazione che tentano inutilmente di soffocare.
Rendersi conto però della nostra vera condizione davanti a Dio è utile solo quando produce quello spirito che ci spinge a cercare responsabilmente di essere davvero a posto con Dio, e a cercare questa risposta nella Parola che Dio ha rivelato.
Rendersi conto della propria miseria scaturisce nella conversione quando la propria consapevolezza di essere peccatori, ed essere perduti, come nel caso del carceriere di Filippi viene congiunto a quella fede che riceve consapevolmente le ricchezze della grazia che Dio mette a nostra disposizione nella persona del Salvatore Gesù Cristo.
Un uomo qui si fa la domanda più importante che pure ciascuno di noi si dovrebbe fare: che cosa devo fare per essere salvato? Sarà anche la nostra quest'oggi?
Non esitiamo a trovare nel Salvatore Gesù Cristo la migliore risposta alla nostra domanda.
P. Castellina,
Borgonovo, 1992 01 23
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