The Banner of Truth Trust, "Tu hai dato a quelli
che ti temono una bandiera, perché si alzino in favor della verità"
(Sl. 60:4). Discorsi pronunciati in lingua inglese alla Conferenza
Pastorale di Leicester (GB) nell’aprile 2002. Essi sono stati
ricostruiti sulla base di appunti presi in quell’occasione. Non sono
stati rivisti dagli autori e quindi corrispondono alla comprensione che
ne ha avuto il past. Castellina che ne riassume così il contenuto.
Paolo, teologo e pastore
di Edward Donnelly, pastore della Trinity Reformed
Presbyterian Church, Newtonabbey, Irlanda del Nord, e professore di
Nuovo Testamento al Reformed Theological College, Belfast.
L’apostolo Paolo viene a ragione considerato il più
grande fra i teologi del Nuovo Testamento. Nessuno metterebbe però in
dubbio la sua straordinaria competenza pastorale. Di fatto, però, la sua
non è mai teologia astratta, ma teologia radicata nella pratica
pastorale.
È noto, infatti, come le sue epistole non siano mai
astratte disquisizioni accademiche, ma "documenti occasionali" intesi a
rispondere a quelle precise situazioni che gli vengono via via
sottoposte. È così dalla situazione dei testi biblici che noi
apprendiamo quella teologia che per noi è normativa ed essa, a sua
volta, è chiamata a rispondere alle situazioni che noi stessi viviamo.
Quando Paolo scrive, è come se vedesse le persone alle quali si rivolge.
Egli non è un "ricercatore" teorico, ma un "medico condotto" che sa
adattare la sua medicina a specifici "pazienti". Teologia ed attività
pastorale sono dunque intimamente congiunte tanto che, per comprendere
il pensiero paolino è indispensabile pure comprendere il contesto
specifico al quale si rivolge. Possiamo e dobbiamo imparare
dall’apostolo Paolo che cosa voglia dire applicare la teologia alla
realtà come pure come valutare criticamente la teologia che ogni
situazione inevitabilmente esprime. A titolo esemplare, così,
esamineremo sommariamente tre epistole paoline per vedere come
l’apostolo applichi l’Evangelo alle specifiche situazioni che gli si
presentano.
I. La lettera ai romani
La situazione che si presenta di fronte all’apostolo
Paolo quando scrive alla comunità cristiana di Roma è quella della
diversità dei suoi membri e dalle conseguenti tensioni al suo
interno che egli intende sanare. Siamo di fronte a quello che potremmo
chiamare un pluralismo di fondo nell’impostazione della fede di
quei cristiani. Non si tratta però di un "valore" come si potrebbe oggi
intendere, ma di un fatto negativo che esige un’opera di
riconciliazione. Se in un primo momento la comunità cristiana di
Roma nasce in ambito tipicamente giudaico (cioè fra gli israeliti che
abitano a Roma), nel momento in cui l’apostolo scrive, la comunità ha
assunto caratteristiche diverse a causa della sempre più grande presenza
in essa di convertiti dal paganesimo. La tensione sorge dal fatto che
questi nuovi convertiti non sanno nulla delle tradizioni, delle usanze e
della storia degli israeliti, cose che per questi ultimi rimangono
importanti. Come conciliare queste diverse sensibilità? Come persuadere
i cristiani di origine israelita a non considerarsi superiori a quelli
di origine pagana (o viceversa) ed a trovare nella grazia che entrambi
hanno ricevuto in Cristo la loro unità ed identità ultima? Nel Nuovo
Testamento cristiani di origine israelita e d’origine pagana devono
imparare a vivere assieme.
Il dott. Donnelly a questo punto paragona questa
situazione alle chiese riformate storiche della Gran Bretagna d’oggi,
con le loro tradizioni, sensibilità, usanze e storia, chiese che,
evangelizzando, vedono entrare nel loro mezzo, convertendosi a Cristo,
persone che nulla sanno della storia, usanze e tradizioni di quelle
chiese, persone che non hanno mai udito prima l’Evangelo nemmeno da
piccoli, e che abbandonano stili di vita spesso palesemente immorali,
ben lontani dalla "rispettabilità" borghese che caratterizza la vita di
queste comunità; non solo, ma di razza e cultura diversa. Come fare ad
amalgamare persone così diverse che pure hanno affidato la loro vita a
Cristo? Come superare naturali tensioni e reciproci pregiudizi ed a
trovare insieme in Cristo la loro unità ed identità ultima? Come si vede
dalla lettera ai Romani, il problema non è nuovo. Non è di facile
soluzione, ma è una sfida che ci viene posta. La lettera ai Romani parla
ad una situazione simile. Quali paralleli possiamo fare fra quella e la
nostra, e come possiamo imparare la lezione che l’apostolo dava loro?
Come tradurre nella nostra situazione i concetti che egli comunica loro?
Non sappiamo molto della storia della comunità
cristiana di Roma. Il racconto della Pentecoste ci dice che in quell’occasione,
fra quegli uomini religiosi di ogni nazione che erano convenuti a
Gerusalemme, vi fossero pure pellegrini romani (At. 2:10). Fra i
moltissimi convertiti a Cristo dopo la predicazione di Pietro, possiamo
supporre vi fossero pure romani che, tornati a casa, formano un primo
nucleo di cristiani che, a loro volta comunicano l’Evangelo ad altri
israeliti e a proseliti romani. La storia, però, ci dice che gran parte
degli israeliti erano poi stati espulsi da Roma e quindi per parecchio
tempo nessun israelita era più rimasto in città. Quando però più tardi
tornano, trovano che la locale comunità cristiana aveva cambiato
d’aspetto. Altre persone d’origine pagana ora vi fanno parte, gente con
altra mentalità, con usi e costumi diversi, gente non più legata alla
cultura israelita, e magari è proprio gente così che guida la comunità
cristiana di Roma. Ecco che allora nascono tensioni ed incomprensioni
fra i due gruppi.
L’apostolo Paolo non era mai stato prima a Roma
(1:13), ma ben conosce i problemi che la comunità sta vivendo (cfr.
14:13). Ecco così nella sua lettera Paolo affronta le questioni che
dividono i due gruppi di cristiani. Egli è ben qualificato nel farlo.
Paolo, infatti, è egli stesso un israelita (e proviene da uno dei gruppi
più rigorosi), ma pure egli è avvezzo alla cultura greca e romana
pagana, nel contesto della quale egli è vissuto fin da piccolo, tanto da
considerarsi egli stesso apostolo dei gentili (11:13). Nella persona
stessa di Paolo, dunque, è come se convivessero due anime. Ecco così il
tema di fondo dell’epistola ai Romani: in che modo l’Evangelo può
unire gente d’origine diversa? Esaminiamo così sommariamente
seguendone la successione degli argomenti, il modo in cui l’apostolo
tratta questa questione.
1. L’Evangelo che Paolo predica è destinato a
tutte le genti indistintamente, fra le quali sono pure quelli di
Roma, chiamati da Gesù Cristo (1:6,7).
2. Paolo, poi, in 1:18-32 fa eco alle giuste
accuse di immoralità ed ingiustizia che gli israeliti facevano alla
società pagana. Di fatto i pagani soffocano la verità nell'ingiustizia e
nell'immoralità. Giustifica così le contestazioni dei cristiani
d'origine israelita? No.
3. Non credano gli israeliti di essere migliori
dei pagani perché essi fanno le stesse cose (2:1ss) nonostante la
loro maggiore conoscenza. Anzi, il giudeo è ancora più inescusabile per
le sue trasgressioni. Sia giudei che pagani sono sottoposti al pesante
giudizio di Dio (il discorso fino a 3:19). Tutti condividono la stessa
realtà di peccato e quindi non c'è motivo di sentirsi di fatto superiori
agli altri: non c'è alcun vero giusto agli occhi di Dio.
4. Dio però ha provveduto una giustizia sia per gli
uni che per gli altri: quella che si ottiene mediante la fede in Gesù
Cristo, indipendentemente dalle opere che uno faccia,
indipendentemente dalla legge (che quindi per loro non può essere più
motivo di vanto). Inoltre non c'è che un solo Dio per tutti, sia dei
Giudei che degli altri popoli (ancora un motivo di unità), "il quale
giudicherà il circonciso per fede e l'incirconciso ugualmente per mezzo
della fede" (3:31).
5. Abramo stesso fu giustificato prima della sua
stessa circoncisione (quindi indipendentemente dalle cerimonie
israelite) quand'ancora egli stesso era un pagano (cap. 4). Abraamo,
quello che gli israeliti considerano loro padre, è quindi anche padre
dei paganicredenti mediante una giustizia che non si basa
sull'obbedienza alla legge. Inoltre è anche chiaramente stabilito che
Abraamo dovesse divenire padre di molte nazioni (4:17). Ecco che
allora Paolo smonta qui tutto il particolarismo giudaico e lo fa
dimostrando che la loro stessa fede lo esige. I due tipi di
cristiani in con flitto trovano così come di fatto siano uniti dal
peccato, ma anche dalla comune fede in Cristo. La base della salvezza è
l'opera di Cristo e ciò non dipende da loro né dalla loro identità.
6. Delle distinzioni certo permangono (continua Paolo
nella sua argomentazione), ma non sono di tipo nazionalistico o altro,
ma quelle che sussistono fra coloro che sono "in Adamo" e quelli che
sono "in Cristo" (cap. 5). L'unione con Cristo è stata poi suggellata
con il battesimo (cap. 6), che corrisponde alla nostra morte al peccato.
7. La stessa Legge, quella che per gli israeliti è
così importante, in realtà è solo una catena di schiavitù dalla quale
Cristo ci ha affrancato (cap. 7). Vi è così solo più una categoria di
persone che conta: coloro che sono "in Cristo".
8. Dato così che è in Cristo che otteniamo tutti
giustizia per grazia, valutare altri elementi come decisivi per il
nostro rapporto con Dio equivale a mettersi automaticamente fuori dai
propositi di Dio, ad essere respinti. E' l'esperienza storica del popolo
israelita. Questo non vuole dire che Dio, però, abbia abbandonato il
popolo di Israele, ma ha reso la stessa loro disubbidienza funzionale
all'inclusione nel popolo eletto anche di genti diverse, rendendo
possibile la stessa diffusione dell'Evangelo. C'è dunque interazione fra
giudei e pagani: gli uni hanno bisogno degli altri e tutt'e due hanno
bisogno di Cristo (9-11).
9. Nessuno, quindi, deve avere un concetto di sé più
alto di quello che deve avere: certamente gli israeliti non devono
ritenersi superiori agli altri. Esiste certo una diversità, ma si tratta
di una complementarietà di doni e di funzioni all'interno dello
stesso corpo (cap. 12). Potranno prevalere scrupoli religiosi di diversa
origine (cap. 14), ma è necessario che su queste questioni secondarie si
sia tolleranti e flessibili, non rendendo queste occasione di fratture
disutili all'Evangelo.
10. Paolo, infine, fa notare come persino nei Salmi,
quelli che gli israeliti tanto amano e considerano propri, si esortino
le nazioni a celebrare Dio e la salvezza che Egli ha provveduto
in Cristo. E' come se Paolo dicesse loro: "Quando i cristiani d'origine
pagana celebrano Dio, non stanno realizzando proprio ciò che i Salmi
antivedevano? Dove stanno allora le differenze che tanto voi adducete?".
Il "mistero" è stato allora rivelato: che tutte le
nazioni ubbidiscano alla fede (16:26).
Ecco allora si vede come l'apostolo, in questa
lettera, come teologo e pastore risolva egregiamente le tensioni fra i
due gruppi di cristiani. Non è solo questo il tema della lettera, ma di
questo se ne vede chiaramente il filo conduttore. L'Evangelo è la sola
base d'unità e dell'armonia fra persone d'origine diversa.
Tutto questo comporta per noi pure importantissime
implicazioni.
1. L'Evangelo abolisce le classi fra gli uomini:
esse non hanno in Cristo più importanza alcuna. Tutti sono peccatori e
tutti devono trovare in Cristo il loro unico Salvatore. Vi possono
essere differenze fra le persone e i gruppi (unità e pluralità sono
concetti non in contraddizione) che devono essere complementari. Nella
situazione, ad esempio, delle chiese in cui vi sono tensioni fra
tradizionalisti e neoconvertiti, ciascuno deve imparare dall'altro.
2. L'Evangelo riaggiusta differenze secondarie.
Siamo diversi, ma insieme dobbiamo trovare la via del rapporto
armonioso. Le differenze non conducono necessariamente alla divisione.
L'Evangelo ci focalizza in ciò che veramente più conta. L'Evangelo ci
porta a trattare le differenze in modo costruttivo.
3. L'Evangelo assorbe urti ed offese. La nostra
natura porta a farci del male talvolta, ma la grazia ed il perdono di
Dio in Cristo ci spinge ad essere altrettanto misericordiosi gli uni per
gli altri e a perdonare. Dobbiamo accoglierci l'un l'altro. Nella Chiesa
deve prevalere l'umiltà evangelica.
4. Dobbiamo concorrere all'unico obiettivo
dell'Evangelo, focalizzarci nelle cose centrali, non in quelle
secondarie. L'Evangelo deve essere lo spirito secondo il quale trattiamo
ogni aspetto e questione della vita cristiana, singola e comunitaria.
L'Evangelo è la fonte di ogni cosa. L'Evangelo deve coprire a 360 gradi
tutta la vita cristiana. E' fondamentale per ogni cosa e va incontro a
tutti i bisogni umani.
II. 1 Corinzi
Esaminiamo ora in che modo Paolo congiunge teologia e
ministero pastorale nel contesto della prima epistola ai Corinzi.
L'epistola si chiede che cosa sia la vera
spiritualità. Il concetto principale di questa questione è la tensione
fra il "già" e il "non ancora" dell'economia divina. Il cristiano vive
nel "non ancora", benché nel presente vi siano importanti segnali del
futuro, vive cioè in una situazione ambigua e contradditoria.
Paolo è preoccupato per quanto avviene nella comunità
di Corinto, perché quei cristiani sono ancora troppo influenzati dalla
cultura dell'ambiente in cui vivono. Essi devono vigilare a non
assorbire la prospettiva prevalente nella cultura del loro tempo. I
cristiani di Corinto vivevano nel pieno della popolare cultura greca. La
stessa città di Corinto avrebbe potuto essere considerata come "la fiera
delle vanità" del mondo antico. Quali ne erano gli elementi?
1.Vi era un forte amore, un gusto, per la
filosofia, la conoscenza, la sapienza.
2.Erano influenzati dal dualismo, separavano,
cioè, ciò che è materiale da ciò che è spirituale a discapito del
primo. Disprezzavano ciò che è "corpo". Il corpo veniva considerato
"la tomba dell'anima"
3.Ammiravano "il potere", il prestigio,
l'esteriorità, ciò che faceva impressione, la retorica abile e
roboante.
Tutto questo contaminava e distorceva la concezione
che questi credenti avevano della vita cristiana. Il loro errore era
quello di dove pensavano di collocarsi nella storia della redenzione. Il
presente, per il cristiano, è la sovrapposizione di due epoche: l'età
presente malvagia e quella futura in Cristo. Viviamo nel "già e non
ancora". Il loro errore era quello di considerarsi già arrivati nella
nuova era e nel non comprendere le contraddizioni del presente con il
quale comunque abbiamo a che fare.
Avevano ricevuto lo Spirito Santo, e quello per loro
era la benedizione ultima. Chi aveva "ricevuto lo Spirito" si
considerava superiore, un arrivato, diverso, migliore, al di sopra degli
altri cristiani "meno illuminati". I doni più spettacolari (le lingue,
considerate lingue angeliche) erano molto valorizzati. Se "parlavi in
lingue" era segno che già eri in cielo ed avevi "la pienezza del regno".
Si notino i molti "se" dell'Apostolo:
"Se qualcuno tra di voi presume di essere un saggio
in questo secolo, diventi pazzo per diventare saggio" (3:18); "Se
qualcuno pensa di conoscere qualcosa, non sa ancora come si deve
conoscere" (8:2); "Se qualcuno pensa di essere profeta o spirituale,
riconosca che le cose che io vi scrivo sono comandamenti del Signore"
(14:37). I corinzi, cioè, non avevano più nulla da aspettare, avevano
già "tutto". Paolo è molto spesso sarcastico in questa lettera per le
pretese dei corinzi.
Parlare di "risurrezione del corpo", come Paolo
faceva, inoltre, per loro era del tutto ridicolo e superfluo perché
per loro salvezza significava fuggire dal corpo. Ritenevano
irrilevante la risurrezione del corpo.
Irrilevante, altresì, era pure ciò che si faceva
"con il corpo", ad esempio, avere rapporti con prostitute, il che, per
loro non importava. Si ritenevano liberi ed emancipati. Erano
addirittura fieri della loro immoralità perché appunto irrilevante era
ciò che facevano con il corpo.
Ritenevano che la stessa pratica sacramentale fosse
per loro una protezione magica.. Coloro che partecipavano ai
sacramenti erano – essi pensavano – oltre ad ogni possibile giudizio
di Dio.
Anche la differenza fra i sessi era per loro
indifferente. Il vero uomo spirituale diceva che sposarsi non fosse
necessario.
Si consideravano un elite di privilegiati: "Noi si
che abbiamo conoscenza".
Questi atteggiamenti erano divisivi ed arroganti.
Credevano che la loro vita spirituale dovesse essere caratterizza da
ciò che è spettacolare e brillante.
Cominciavano pure a pensare che lo stesso apostolo
Paolo non fosse, per i suoi discorsi, all'altezza di ciò a cui essi
erano arrivati, che lui non fosse un autentico leader spirituale. "Noi
si che abbiamo conoscenza.
Anche noi oggi abbiamo abbondanti evidenze di essere
di fronte ad un problema del tutto simile. In molti ambienti oggi si
parla di cristiani di prima e di seconda categoria: quelli che avrebbero
raggiunto un livello più alto di spiritualità e tutti gli altri. Possono
essere esperienze carismatiche e quelli che osservano rigorosamente la
legge di Dio (teonomia). Alcuni si considerano "arrivati". Si fa
distinzione fra "cristiani spirituali" e "cristiani carnali", c'è chi si
considera "super spirituale". Questo porta all'arroganza, alla
negligenza etica e morale, al disprezzo della tradizione, all'ossessione
per l'esteriorità ed il successo. Molto di questo spirito "corinzio" ha
contaminato il mondo cristiano e molti se ne lasciano sedurre. Ecco così
che alcuni giungono a contestare "la freddezza" e "l'inadeguatezza"
delle chiese tradizionali e corrono verso chi dice di avere già
realizzato il regno di Dio, a chi fa sfoggio di grandi successi, di
godere di grandi doni spirituali, di operare guarigioni. Tutto diventa
"noioso" e "arido" rispetto a quello che è il "grande spettacolo" di
comunità dalle grandi ambizioni. Come risponde Paolo? Certamente per lui
il "già" del regno di Dio è una realtà, ma con i corinzi insiste molto
sulla nostra attuale situazione di "non ancora" mettendoli in guardia
contro le loro pretese illusorie.
Inizialmente l'Apostolo loda i cristiani di Corinto,
ma è già implicito il rimprovero. La storia umana non è terminata, ci
siamo ancora dentro. Contesta il successo mondano che essi tanto
apprezzano e li fa ragionare sulla stupidità ed illusione delle loro
pretese. Dice loro: "Non siete dove pensate di essere". Ad essi piace
essere considerari "spirituali", ma quanto spesso dividono la chiesa!
Dice loro: "Fratelli, io non ho potuto parlarvi come a spirituali, ma ho
dovuto parlarvi come a carnali, come a bambini in Cristo" (3:1). Li
esorta ad imitarlo. Contesta loro che, benché si considerino spirituali,
ancora litigano persino in tribunale con altri fratelli su questioni ben
venali. "Proprio non mi sembrate come persone nel già".
L'Apostolo rileva poi come il corpo non sia affatto
da disprezzare, ma da onorare, perché è dimora dello Spirito Santo: "Non
sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi
e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi"
(6:19). La persona davvero spirituale sa che il suo corpo appartiene a
Dio: Egli l'ha creato, lo sostiene; esso va posto al Suo servizio e con
esso si deve dare gloria a Dio.
Il matrimonio pure deve essere onorato dal cristiano
per viverlo in ubbidienza al Signore. Anche se si è sposati con un non
credente, per quanto stia in noi quel legame pure va onorato. Anche lo
schiavo deve accettare quella sua condizione per viverla nel modo
migliore perché viviamo nel non ancora.
I sacramenti non hanno alcun potere magico e non
proteggono automaticamente. I corinzi devono pensare all'esperienza
degli israeliti. Essi erano tutti stati battezzati "nella nuvola" ed
erano stati nutriti dal pane celeste. Eppure questo non aveva impedito a
Dio di castigarli severamente per le loro trasgressioni. L'apostolo,
poi, dà loro precise istruzioni sul come celebrare degnamente la Cena
del Signore.
L'uguaglianza uomo-donna. Rispetto alla grazia di Dio
non c'è distinzione fra i sessi, ma questo non annulla gli ordinamenti
della creazione sul ruolo del maschio ed il ruolo della femmina.
I doni spirituali: non stravaganza, ma sostanza,
nell'amore e nello spirito dell'autentica edificazione del corpo di
Cristo. Tutti i membri del corpo di Cristo, con i rispettivi doni, hanno
valore e dignità. I "doni maggiori" non sono quelli che loro si
immaginano.
L'Apostolo, nel capitolo 15 affronta l'argomento
della risurrezione di Cristo e del corpo in particolare. La fede nella
risurrezione corporale è centrale per il cristiano. La sconfitta della
morte è autentica, il corpo risorgerà, benché sostanzialmente mutato.
Salvezza non è vivere come "puri spiriti". La risurrezione del corpo non
è una "superstizione giudaica primitiva".
Ecco così come con questo ed altri argomenti
l'Apostolo demolisce l'arroganza dei corinzi e termina dicendo: "Se
qualcuno non ama il Signore, sia anatema" (16:22).
Da quanto l'Apostolo ha detto, così, possiamo trarne
notevoli benefici: il non ancora è verità e realtà:
Ci tiene ben ancorati a questo mondo impedendoci di
evadervi ingannevolmente con delle pie sciocchezze che non trasformano
veramente la gente. Sembrano cose grandi, ma sono vuote parole.
Rimaniamo nel non ancora con tutte le sue contraddizioni.
Vaccina la nostra gente contro i venditorfi di fumo
che seducono con discorsi ingannevoli e vuoti: "Se vuoi di più posso
offrirtelo io!". Dobbiamo insegnare alla gente che viviamo nel non
ancora.
Stimola noi e la nostra gente ai doveri cristianii.
Non ci viene offerto un paradiso in terra che noi non si debba
costruire a fatica. Dobbiamo perseguire sempre la santità, combattere
qui "il buon combattimento" in mezzo a molte tribolazioni. Non
auto-indulgenza, ma umiltà, spirito di sacrificio e zelo. Tutto questo
rafforza ed arricchisce la fede.
E' una dottrina incoraggiante e positiva. La nostra
vita avrà tribolazioni, ma dobbiamo affrontarle nello spirito di chi
attende con speranza il non ancora.
Per noi nel futuro molto è ancora in serbo. Non
dobbiamo minimizzare ciò che siamo, ma c'è molto di più ancora in serbo
per noi. Non lasciamoci abbagliare da apparenti scorciatoie.
III. La lettera ai Colossesi
La chiesa di Colosse era una giovane chiesa dell'Asia
minore, ma era minacciata dall'influenza aggressiva di falsi maestri che
ne minavano l'integrità. Per questo quannto mai necessario era
l'intervento pastorale di Paolo.
Non è chiaro quale esattamente fosse l'eresia che si
stava diffondendo a Colosse. Molti studiosi hanno tentato di
identificarla, ma mai in modo del tutto soddisfacente. La lettera ne
lascia intendere alcuni fra i suoi tratti: (1) metteva in questione la
completezza dell'opera di Cristo sostenendo come la salvezza dipendesse
anche da altri elementi; (2) dava importanza capitale a regole al
riguardo di cibi e celebrazioni di feste; (3) introduceva il culto di
angeli; (4) era molto legalista rendendo obbligatorie leggi e cerimonie
esteriori; (4) introduceva elementi di ascetismo che contraddiceva la
libertà e la gioia dell'Evangelo.
Probabilmente, più che trattarsi di un'eresia
organizzata era più che altro un'atmosfera condizionata pesantemente
dallo spirito dell'epoca, la tendenza cioè ad amalgamare il
cristianesimo con idee diverse allora prevalenti, come appunto
l'ascetismo, la fiducia data a rituali ed a leggi, la necessità di
mediatori, astrologia e magia, perfezionismo e gnosticismo (salvezza
attraverso conoscenza di una sapienza accessibile a soli iniziati.
La situazione era simile a quella di Corinto, con una
differenza, però: l'idea che Cristo non fosse sufficiente, per
cui si aveva una minimizzazione del ruolo di Cristo. Vi era pure l'idea
che Cristo andasse bene solo per i "semplici" credenti ordinari, ma che
molto di più fosse riservato ad "illuminati"i quali avrebbero raggiunto
"la pienezza". Alcuni credenti si sarebbero così considerati superiori
ad altri per l'eccellenza delle loro esperienze. Essi erano "gli
arrivati".
Ecco così un cristianesimo che "si adattava" alle
ideologie allora prevalenti, molto sincretistico, e quindi
particolarmente pericoloso. Pensare che, in qualche modo, Cristo non sia
abbastanza è una tendenza pure molto comune oggi. Oggi infatti siamo in
presenza spesso di tre idoli moderni: la psicologia, il pragmatismo e
il misticismo. Non solo questo, ma oggi siamo in presenza della
rinascita del paganesimo con elementi forti di tipo gnostico, per cui si
può parlare di un neo-gnosticismo. E' lo spirito della New Age, il
popolare ritorno di idee che già erano prevalenti nel secondo secolo:
magia, divinità femminili, oroscopi, angeli, pratiche ascetiche
variamente mascherate, la ricerca del "dio dentro di noi" (vedi ad
esempio la riscoperta del cosiddetto "Vangelo di Tommaso").
Guardiamo poi che cosa succede nel tentativo
insistente di "normalizzare" l'omosessualità. Questo però ha radici
ideologiche ed è teso a cancellare le distinzioni che Dio stesso ha
stabilito nella stessa creazione al riguardo dei sessi.
Di fatto il pluralismo filosofico è il nemico più
pericoloso della fede cristiana. Ai nostri contemporanei è stato
fatto quasi un lavaggio del cervello per "sdoganare" quello che un tempo
era visto giustamente con sospetto ed avversione, un fenomeno di chiara
ispirazione satanica. La nostra gente è influenzata largamente da questa
atmosfera che si sta facendo sempre più strada combattendo
sistematicamente tutti i principi che il cristianesimo aveva insegnato e
praticato.
Come reagisce pastoralmente l'apostolo Paolo di
fronte a tutta questa situazione? Che cosa possiamo imparare dalla sua
strategia pastorale?
1. Paolo non attacca direttamente il problema,
non fa riferimento diretto all'eresia. Non sembra essere "aggressivo"
verso i Galati quanto lo era con altri. Cerca di far loro comprendere
con pazienza, far loro prendere coscienza dell'inganno loro perpetrato.
Non attacca l'eresia, ma fa affermazioni in positivo sulla sostanza
dell'Evangelo. Questo ci insegna come spesso più che attaccare
l'avversario sia necessario affermare semplicemente con forza la verità,
lasciare che la verità appaia in tutta la sua forza, lasciare che la
forza dellas verità vanifichi le pretese degli avversari. Attaccare
significa permettere all'avversario di stabilire lui i termini della
tenzone. Ci costringe alla difesa. Affermanndo però con coraggio la
verità, sarà la verità che sfibrerà l'errore, mentre il nemico vorrebbe
lui sfibrarci con le sue argomentazioni.
2. Paolo tratta con l'eresia presentando il
Cristo in tutta la Sua gloria. Di fronte agli avversari egli pone la
Persona gloriosa di Gesù stesso. L'eresia viene sbaragliata
dimostrando che abbiamo già tutto in Cristo e che non abbiamo
bisogno d'altro. Dobbiamo predicare Cristo, non solo circa Cristo, al
riguardo di Cristo, ma Lui come realtà vivente, fintanto che la gente
sia pervasa da Lui. E' necessario mostrare come Cristo sia centrale e
quali vitali conseguenze questo possa avere sulla nostra vita. Mostrare
la gloria del nostro Signore e Salvatore: ecco alla fin fine tutto ciò
che conta veramente. Spesso noi non siamo abbastanza concreti nella
nostra rappresentazione di Cristo, ma piuttosto astratti. La gente non
ama le astrazioni, ma i racconti. Dobbiamo avere fiducia nel racconto
evangelico, il quale di per sé stesso è in grado di suscitare il
pensiero. Non è necessario sempre spiegare. Dobbiamo presentare la
Persona stessa del Cristo. L'apostolo Paolo predica Cristo in tutta la
Sua gloria. In questa stessa epistola la figura di Cristo risalta in
tutta la Sua maestà. Gesù qui è il Creatore, il Primogenito, l'Artefice
della creazione. Egli, dice, deve avere sempre il primato. Paolo è come
se dicesse: "Cristo non è abbastanza? Che dite? Io vi dimostro, invece,
che è il contrario! Egli è il Signore vittorioso, il Capo di ogni
principato e podestà, la pienezza di Dio, l'Immagine del Dio invisibile.
Tutti i tesori sono nascosti in Lui". La realtà è che predichiamo
Cristo troppo poco o come se Egli esistesse solo per noi! Ci
priviamo e priviamo gli altri di tutta la Sua infinita ricchezza e
rilevanza. Cristo è Colui che ha creato e che sostiene l'universo.
Cristo viene considerato di limitata importanza perché spesso siamo noi
a non presentarlo abbastanza. Lo riduciamo magari per renderlo più
accettabile e così Lo distruggiamo. Di fatto Cristo è sufficiente per
ogni bisogno umano. Si ha paura che se si presentasse Gesù in tutta la
Sua pienezza la gente riderebbe...
3. Paolo mette così in evidenza le ricchezze
attuali e fattuali di Cristo. Guardiamo troppo al "non ancora" e non
siamo coscienti della valenza di ciò che già abbiamo. Andiamo troppo
agli estremi. L'Apostolo è equilibrato per quanto riguarda il già ed il
non ancora. Egli è equilibrato e flessibile, dice: "In Lui voi siete
completi e realizzati, non avete bisogno di altro. Siamo già stati
"trasferiti" nel regno dell'amato Figlio di Dio. Cristo è in voi. Siamo
"perfetti" in Lui: non abbiamo bisogno di angeli né di rituali. Notiamo
in questa epistola tutti i brani dove compare l'espressione "la
pienezza" o simili.
Dobbiamo esplicitare la pienezza che in Lui abbiamo
ottenuto. Che cosa ci potranno mai dare altri che già non abbiamo? La
gente è affamata della realtà di Dio, di un'esperienza attuale della
gloria di Dio. Se non la ricevono nella nostra chiesa, la cercheranno
altrove. Spesso mettiamo in evidenza gli errori altrui, ma la nostra
vita non mostra abbastanza della sostanza che noi contestiamo mancare in
altri. La nostra vita spirituale è profonda e forte? E' così la nostra
predicazione? Le nostre chiese dovrebbero essere piene dell'esperienza
di Dio, vissuto, palese. E' il paradosso del già e del non ancora. Noi
dobbiamo conoscere e provare la sufficienza di Cristo per la nostra
vita. Le Sue benedizioni sono disponibili. Chiunque percepisca la
presenza di Dio in noi non lo dimenticherà più. Talvolta ci si lamenta
che i culti domenicali non siano soddisfacenti, ed allora li si
riempiono di "cose interessanti" e di "intrattenimento". Potremmo però
ben avere un culto "interessante" in cui la presenza di Dio non viene
comunque percepita, un "culto ricco" ma privo della presenza dello
Spirito di Dio. Colossesi ci mostra la nostra povertà spirituale.
Dobbiamo predicare Cristo e la Sua gloria.
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Paolo, teologo e pastore (di E. Donnelly) |