La sfida della postmodernità

di Matteo Clemente (da “Studi di Teologia”  N°17 - I° Semestre 1997)

 Da almeno due decenni è in atto un radicale mutamento i cui effetti appaiono solo oggi in tutta la loro portata. Si tratta della transizione dal modernismo di inizio secolo al postmodernismo. In cosa consiste? Essenzialmente in una diversa comprensione dell'idea di verità e di oggettività. Se il modernismo credeva ancora in una verità oggettiva che andava ricercata attraverso l'uso della ragione autonoma ritenuta infallibile - per quanto fosse avverso al cristianesimo in ragione del suo approccio naturalistico ( con il rifiuto di ogni riferimento al soprannaturale ), e razionalistico ( con il suo rigetto della fede ) - la postmodernità rifiuta l'idea stessa che vi possa essere una verità oggettiva in s‚ che possa essere ricercata e che debba essere contrapposta ad altre che rivendicano la medesima natura esclusiva. Con il suo   The Gagging of God: Christianity confronts Pluralism,Grand Rapids, Zondervan 1996, pp. 640, Don Carson aiuta a cogliere e ad essere consapevoli dei mutamenti in corso. Essi non interessano solo i maîtres à pensée, ma anche la gente comune perché ne influenzano i presupposti.

Nella sua analisi, Carson mostra come ci si sia mossi dalla posizione modernista a quella postmodernista e delinea lo sviluppo che ha avuto una disciplina così importante come l'ermeneutica. Quest'ultima si è mossa da una posizione "classica" ad una "nuova" ed infine ad una più "radicale", avendo in questo come alleato il Decostruzionismo. Questa corrente di pensiero sostiene che il linguaggio non è più in grado di riferirsi alla realtà oggettiva, perché le parole non rimandano che ad altre parole e così a ritroso, senza che mai nessun linguaggio possa avere la pretesa di esprimere la realtà per ciò che essa è realmente. Questo fa sì che ogni testo dia luogo ad una possibilità infinita di interpretazioni, tante quanti sono i soggetti interpretanti. Infatti nel processo ermeneutico ciò che conta veramente è il lettore. E' a questi ed alla sua centralità che bisogna fare ritorno!

Questa decostruzione del linguaggio mostrerebbe altresì come esso in fondo non sia un mezzo per una comunicazione razionale tra soggetti diversi, ma uno strumento di potere sociale coercitivo. D'altra parte, pur facendo riferimento alla possibilità di raggiungere un'accettabile interpretazione, il decostruzionismo non dice chi e che cosa debbano stabilire ciò che è da ritenersi tale o meno. Viene da chiedersi: "Se il linguaggio non comunica più nessun significato è ancora possibile una vera comunicazione nella nostra era, pure ritenuta dei mass-media? Se le cose stanno come sostengono i decostruzionisti, con quale possibilità di successo pensano loro di riuscire a comunicare le proprie convinzioni? In che misura il loro linguaggio non rappresenta anch'esso un mezzo di coercizione e di controllo?" I risvolti pratici di tale approccio ermeneutico sono tanto prevedibili quanto deleteri nei loro effetti e ciò non solo per l'ermeneutica biblica.

Come rispondono i cristiani ad una simile sfida? Essi che credono a Colui che ha detto: "Io sono la verità e obbediscono ad una Parola scritta che riveste un carattere autorevole ed esclusivo?

La struttura del volume è abbastanza lineare. Esso si divide in quattro parti ( l'ermeneutica, il pluralismo religioso, il cristiano in una cultura pluralista ed il pluralismo all'interno dell'evangelismo stesso ), precedute da un capitolo introduttivo sulla natura e sulla portata della sfida pluralista. Ai quattro capitoli principali fanno seguito un excursus finale ( sulla natura della vera spiritualità ), una vasta bibliografia ( circa 1000 titoli che danno l'idea dell'ampiezza dell'indagine ) e gli indici dei testi, degli autori e dei soggetti.

Una corposa presentazione che si giustifica in ragione della vastità del fenomeno preso in esame anche se, per quanto attiene alla forma, l'analisi appare a volte appesantita dai troppi rimandi ad altre parti del volume e dai molti esempi tratti per lo più dalla realtà americana, prossima all'A.

Non si vuole qui rendere conto della massa di materiale presente nel lavoro di Carson, ma limitarsi a brevi considerazioni su alcune sue asserzioni per capirne i presupposti. Pur non presentandosi come un lavoro apologetico classico, l'opera tale risulta al recensore, almeno rispetto al fenomeno del pluralismo preso in esame.

A metà della prima parte del volume, nel paragrafo "Risposte preliminari alla postmodernità" ( pp. 95ss. ), Carson considera in che misura due diverse apologetiche: quella evidenzialista e quella presupposizionalista, affronterebbero con successo un convinto decostruzionista. Dopo aver considerato brevemente la natura dei loro argomenti e aver precisato che ciò non implica da parte sua disconoscerne l'utilità e la validità, conclude ritenendo che simili approcci "standard" non possono scalfire minimamente un convinto decostruzionista.

Carson ritiene inoltre che una testimonianza cristiana pia ( Godly ) ed efficace sia molto di più che un'apologetica intellettualmente responsabile e fedele alla Bibbia. Considerazioni queste difficili a capirsi, se non altro per il fatto che manifestano una scarsa fiducia nel lavorio di molti apologeti cristiani, dal momento che il loro approccio viene ritenuto stereotipato e non all'altezza della sfida posta loro dal pluralismo filosofico e dal decostruzionismo. Più avanti ( p. 186 ) si affermerà ancora più esplicitamente come il presupposizionalismo "stretto", non sia in grado di "giustificare" la visione cristiana del mondo, contro altre visioni concorrenziali; fino ad asserire che esso, nell'intento di combattere la pretesa autonomia dell'uomo, non fa che incoraggiare il relativismo e persino l'agnosticismo, col porre una eccessiva enfasi sulla relatività della ragione nel raggiungere la vera fede ed i presupposti cristiani.

Nel capitolo introduttivo si afferma, a proposito del pluralismo empirico, cioè quello de facto ( che Carson differenzia da quello "coltivato" e da quello "filosofico" più ostico ), che questi non è intrinsecamente n‚ buono n‚ cattivo. E che questa realtà pluralista non deve essere percepita dai cristiani come una minaccia, quanto come un "ambiente ideale" per un'articolazione intelligente della fede e per ripensare in modo nuovo all'evangelismo ( p.17 ).

Il fatto che la realtà pluralista debba essere, oltre che conosciuta e capita, altresì sfidata attraverso una visione teistica prettamente biblico-cristiana, non sta forse ad indicare come - diversamente da quanto sostiene Carson - essa sia intrinsecamente cattiva? O sostenere ciò è già peccare di integralismo e precludersi ogni possibilità di dialogo? Diversamente, lo scopo di Carson nel fare questa dettagliata analisi del fenomeno pluralista, risulterebbe meramente accademico e volta solo ad incidere sul nostro modo di rapportarci alla realtà ( pluralista ), senza nessuna finalità offensiva, volta in ultima analisi a mutarla.

Carson asserisce in partenza che uno degli argomenti principali del suo libro è che "la cristianità confessante non può abbracciare per intero n‚ la modernità n‚ la postmodernità, pur tuttavia deve apprendere certe lezioni da ambedue, ma opporsi con vigore a molti aspetti del pluralismo filosofico senza per ciò retrocedere su posizioni moderniste" ( p.22 ). E più avanti che "i cristiani hanno un appropriato interesse nel riconoscere che la nuova ermeneutica, il decostruzionismo e la postmodernità dicono cose importanti e vere. Per di più nel riconoscere ciò possiamo guadagnarci l'attenzione di coloro che diversamente non ci ascolterebbero" ( p.102 ). Per Carson questa ammissione non deve essere vista come mera cortesia o come una mossa psicologica, ma come "un obbligo importante", perch‚ di fatto vi sono importanti cose da apprendere ( p.97 ).

Credo che l'apologeta cristiano debba sfidare ( e può farlo con successo grazie a Dio! ) sia le tesi moderniste che quelle ritenute postmoderniste, senza sentire il bisogno di imparare necessariamente da esse, dal momento che, se capite, si tratta in fondo di vecchie ideologie vestite di nuovo linguaggio. Se si tratta di sottolineare la necessità di essere sensibili e rispettosi delle posizioni altrui, credo che in questo la carità cristiana sia una severa maestra.

L'apologeta cristiano John Frame, citato dal Carson come un rigoroso apologeta dalla rara chiarezza, nel suo libro sulla figura e sul pensiero di Cornelius Van Til ( Cornelius Van Til: an analysis of his thought, P & R 1995, pp. 84, 236-8 ), esprime il convincimento che un apologeta dall'acutezza di Van Til, in certe sue affermazioni, aveva già anticipate le tesi postmoderniste. E la sua apologetica ( in modo particolare le sue categorie del razionale/irrazionale ), rappresenterebbero un potente strumento apologetico anche nei confronti di esse. Dinanzi alla sfida del postmodernismo Van Til non si sarebbe n‚ meravigliato ( dal momento che esso non rappresenterebbe una vera novità nel panorama del pensiero filosofico, per come egli lo ha compreso ), n‚ allarmato ( dal momento che esso non costituirebbero una reale minaccia alla posizione teistica cristiana ).

Per Van Til il postmodernismo non sarebbe altro che il ritorno all'irrazionale, dopo la fase, sotto l'onda lunga dell'Illuminismo, dell'arrogante dominio del razionalismo moderno.

Leggendo Carson si ha invece la sensazione che vi sia un'eccessiva considerazione del potenziale offensivo, proprio del pluralismo filosofico e dei suoi "correlativi", se non una minore consapevolezza della potenza esplosiva del Vangelo ( Ro.1:16 ). Il quale non costituisce certo una fuga dal mondo e dagli oneri dell'esistenza umana, dal momento che ci fornisce una visione alternativa della realtà nella quale Dio ci ha posti ed alla quale vuole che ci relazioniamo, promuovendo l'avanzamento del Suo regno in vista di quel giorno in cui "ogni ginocchio" si piegherà ed "ogni lingua" confesserà la Signoria di Cristo alla gloria di Dio Padre ( Fl.2:10 ). Sarà questa la risposta ultima di Dio ad ogni nostra illusione pluralista!

In conclusione, il presente recensore non può fare a meno di rilevare come Carson, nel cercare di indicare il terreno sul quale dovrà muoversi la nostra difesa della fede, privilegia quello della teologia biblica ( ciò che lui definisce il "plot-line" della Bibbia ), rispetto a quello della teologia sistematica - propria, per esempio, di Frame che usa categorie logico- sistematiche - filosofiche. Lasciando così intendere una inesistente, quanto impossibile, contrapposizione fra la teologia biblica e quella sistematica. La prima la si ritiene più "strategica" ai fini dell'evangelismo, mentre la seconda è giudicata "atemporale", asettica, e quindi più distante dalla sensibilità dei molti non più edotti nella tradizione giudeo-cristiana.

Questo "primato" ( pp. 501-505 ) che Carson riconosce alla teologia biblica, in quanto capace di fornire non solo una struttura di pensiero ma una meta-narrazione - che oltre a dare una visione del mondo mostrerebbe altresì come questa sia radicata nella rivelazione spazio-temporale di Dio - è la conseguenza di uno stato di fatto che Carson racchiude nel diffuso analfabetismo biblico e nel predominio del pluralismo filosofico. Non ci sfugge la lodevole finalità evangelistica che muove l'A., ma rimane per noi vero la pericolosità di una simile contrapposizione. E' lecito parlare di verità "atemporali" mentre ci stiamo riferendo alla rivelazione biblica, dal cui terreno e non senza fatica, la teologia sistematica scava il suo tesoro?


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