Teologia/Calvino, Zwingli e le feste religiose

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Calvino, Zwingli e le feste religiose

La posizione di Zwingli e Calvino sulle festività, in particolare sul Natale e sulla Pasqua, riflette una concezione rigorosa della pratica cristiana basata esclusivamente sulle Scritture e una diffidenza verso le tradizioni umane che consideravano non fondate biblicamente. Entrambi, come parte del movimento della Riforma, miravano a purificare la pratica cristiana da elementi che ritenevano aggiunte superflue e, in certi casi, idolatriche.

Ulrico Zwingli e le festività

Zwingli, il riformatore di Zurigo, ebbe una posizione critica verso le festività liturgiche non direttamente prescritte nelle Scritture, come il Natale e la Pasqua. Sosteneva che tali celebrazioni potessero distrarre i fedeli dalla vera essenza del cristianesimo, basata sulla predicazione della Parola di Dio e sul culto "in spirito e verità" (Giovanni 4:24). Zwingli riteneva che ogni festività dovesse essere subordinata alla pratica quotidiana della fede e che i cristiani non dovessero dedicarsi a giorni specifici di culto, ma vivere ogni giorno alla luce della loro fede. Questo portò Zurigo ad abolire formalmente diverse festività tradizionali, privilegiando un modello di adorazione basato solo sulla predicazione domenicale.

Giovanni Calvino e le festività a Ginevra

Quando Calvino giunse a Ginevra, le festività liturgiche, tra cui Natale e Pasqua, erano già state abolite dai suoi predecessori Guillaume Farel e Pierre Viret. Il loro approccio era simile a quello di Zwingli, con l'obiettivo di eliminare ciò che consideravano superstizioni e tradizioni umane. Calvino non insistette per ripristinare queste celebrazioni; piuttosto, continuò la linea austera adottata dalla chiesa ginevrina.

Tuttavia, il pensiero di Calvino sulle festività non era totalmente rigido o uniforme. Ad esempio, nel contesto pastorale della città francese di Strasburgo, dove fu esiliato per un breve periodo, Calvino tollerò la celebrazione della Pasqua, del Natale e della Pentecoste. In quel contesto, forse a causa della diversa sensibilità della congregazione o della relativa libertà rispetto al governo cittadino, mostrò un atteggiamento più flessibile. A Ginevra, tuttavia, mantenne l’abolizione delle festività maggiori per non creare divisioni con la comunità e per rimanere coerente con il principio di sola Scriptura.

Motivazioni teologiche

La radice della posizione di Zwingli e Calvino si trova nella loro teologia biblica e nella loro visione rigorosa della Riforma. Entrambi erano sospettosi di ogni pratica che sembrava dare valore a tradizioni umane non richieste direttamente dalla Bibbia. In particolare, Natale e Pasqua, pur commemorando eventi fondamentali della vita di Cristo, erano diventati nel tempo occasioni di rituali e pratiche popolari che rischiavano di corrompere il messaggio evangelico.

Inoltre, ritenevano che i cristiani dovessero vivere quotidianamente la memoria della nascita, morte e risurrezione di Cristo, senza riservare un particolare giorno dell'anno per riflettere su questi eventi. In tale contesto, la domenica, come "giorno del Signore" e giorno settimanale della risurrezione, assumeva per loro un'importanza superiore e costante, tale da sostituire le festività annuali.

Conseguenze e reazioni popolari

L'abolizione delle festività a Ginevra causò, in alcuni casi, resistenze e malumori tra la popolazione, che era abituata a celebrare tali occasioni. Col tempo, alcune delle festività furono gradualmente reintrodotte, pur senza tutto l'apparato di cerimonie e usanze che le avevano accompagnate nel contesto cattolico. Questo accadde soprattutto per mitigare le tensioni sociali e rispondere alle richieste dei fedeli.

In sintesi

Zwingli e Calvino non consideravano essenziali le festività come Natale e Pasqua per la pratica della fede cristiana, vedendole piuttosto come tradizioni non necessarie e potenzialmente dannose per la purezza del culto. Tuttavia, con il passare del tempo e in contesti diversi, si dimostrarono, in misura diversa, aperti a una certa flessibilità pastorale. La posizione riformata sul tema rimane complessa e varia, ma la loro eredità influenzò profondamente la percezione protestante delle festività per secoli, contribuendo a un modello di culto centrato essenzialmente sulla Parola di Dio e sulla comunità riunita attorno a essa.

La confessione di fede elvetica del 1566

L’articolo 24 della Seconda Confessione Elvetica del 1566 rappresenta un compromesso interessante e una posizione più conciliante sulla questione delle festività, riflettendo una moderazione nel rigore originario di Zwingli e Calvino. Questa confessione, redatta da Heinrich Bullinger, successore di Zwingli a Zurigo, cerca un equilibrio per favorire l’unità tra le diverse comunità riformate e per rispondere a esigenze pastorali.

Contesto della Confessione e moderazione zwingliana

Nel contesto della Riforma, la Seconda Confessione Elvetica mirava a esprimere in modo più sistematico e comprensivo la fede riformata, cercando di consolidare le chiese riformate e di presentare una piattaforma condivisa che potesse essere accettabile per le varie comunità calviniste e zwingliane. La confessione fu accolta non solo a Zurigo ma anche in diverse aree del Sacro Romano Impero e, successivamente, divenne una delle confessioni ufficiali della tradizione riformata.

Nel caso di Zwingli, il rigore nei confronti delle festività non era una mera scelta culturale, ma derivava dalla sua convinzione che solo ciò che è prescritto nella Scrittura sia legittimo nel culto. Tuttavia, dopo la sua morte, Bullinger e altri successori percepirono la necessità di una maggiore flessibilità pastorale. Conscio del rischio di creare divisioni all'interno del mondo protestante e di allontanare i fedeli meno inclini a rinunciare a certe tradizioni, Bullinger si mostrò più aperto, riconoscendo la possibilità di celebrare festività come il Natale e la Pasqua, purché queste fossero spogliate degli elementi superstiziosi.

L'influenza di Calvino e delle esigenze pastorali

Calvino, come menzionato, pur avendo mantenuto una certa rigidità a Ginevra, non era inflessibile. A Strasburgo, aveva tollerato le festività, riconoscendo che l’importante fosse mantenere la centralità della Parola e non le celebrazioni in sé. L’esperienza di Calvino in un contesto culturalmente diverso, come Strasburgo, influenzò in parte la posizione più conciliante che emerse nel mondo riformato.

Quando Bullinger redasse la Confessione Elvetica, egli cercò di consolidare una visione che mantenesse l’essenza della teologia riformata ma che fosse anche sensibile alle diverse esigenze dei fedeli. Questo atteggiamento è evidente proprio nell’articolo 24, che riconosce la legittimità di celebrare festività per commemorare eventi chiave della vita di Cristo, come la nascita e la risurrezione, purché tali celebrazioni siano prive di pratiche superstiziose e si concentrino sul significato spirituale.

Il testo dell’articolo 24 e il principio di moderazione

L’articolo 24 afferma che è accettabile osservare determinati giorni per commemorare eventi della vita di Cristo, a condizione che non vi sia idolatria né superstizione, e che la vera adorazione risieda nella fede in Cristo e nell’obbedienza alla Parola di Dio. Si tratta di un’importante concessione, poiché riconosce l’utilità pastorale delle festività, pur ancorandole a un culto autentico.

Questo compromesso indica che i riformatori successivi a Zwingli e Calvino, come Bullinger, si resero conto che l’abolizione totale delle festività poteva causare reazioni negative e inibire il progresso della Riforma. Bullinger e i suoi contemporanei capirono che le festività, seppur non indispensabili, potevano fungere da momenti educativi per rafforzare la fede e insegnare i fondamenti della dottrina cristiana, mantenendo l’attenzione sulla centralità di Cristo.

Conclusione

L’articolo 24 della Seconda Confessione Elvetica del 1566 rappresenta una posizione di compromesso raggiunta attraverso l'esperienza pastorale, l'influenza dell'approccio più pragmatico di Calvino a Strasburgo, e la maturazione del movimento riformato. La confessione accetta le festività principali come eventi utili alla fede, ma insiste sulla necessità di osservare questi giorni con una purezza teologica che eviti deviazioni superstiziose. Così facendo, la confessione riuscì a mediare tra il rigore dottrinale originario e un’attenzione pastorale più comprensiva, stabilendo un equilibrio che ha influenzato l’approccio riformato verso le festività per i secoli successivi.