Storia/Storia dei Valdesi/L'Emancipazione

Da Tempo di Riforma Wiki.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca

Ritorno


19. L’Emancipazione

Titubanze del re Carlo Alberto — L'aura nuova di libertà — La stampa liberale torinese — Vincenzo Gioberti — Roberto d'Azeglio — Petizione al Re — Pressioni molteplici — L'Editto di Emancipazione — Esultanza nelle Valli — Manifestazioni e grande corteo a Torino — Significato e interpretazione delle Lettere Patenti e del 1° articolo dello Statuto — Applicazione progressiva in senso liberale.

Dobbiamo prima di tutto esporre le circostanze che condussero il re Carlo Alberto a firmare l'atto di emancipazione dei Valdesi. Il motto da lui scelto a divisa: «Attendo il mio astro», esprimeva molto bene il suo stato d'animo e tutto il suo atteggiamento. Egli aspettava sempre, «eternamente triste» appunto perchè eternamente titubante ed incerto, sospinto e risospinto da venti contrari. Eppure era proprio lui il Sovrano che doveva elargire ai suoi Stati lo Statuto ed ai Valdesi l'Emancipazione.

Quali furono le forze che vinsero finalmente le sue esitazioni? Una prima forza stava nei soffio di libertà,che, levatosi misteriosamente come il vento che «non sai né donde viene né dove va», passava sempre più gagliardo e travolgente sull'Europa intera via via che si approssimava il fatidico 1848, risvegliando ovunque in Italia la coscienza nazionale e provocando una febbre meravigliosa d'esaltazione patriottica: tanto che perfino il nuovo pontefice, Pio IX, sembrava voler precedere Carlo Alberto sulla strada del liberalismo e stimolarlo con l'esempio ad avanzare risolutamente in quella direzione in cui per scrupoli religiosi non aveva osato avventurarsi.

E così, verso la fine del 1847, il Re s'era lasciato persuadere a licenziare alcuni consiglieri reazionari, come il conte Solaro Della Margherita, ed a far preparare alcune buone riforme amministrative, le quali però non concernevano in particolar modo i Valdesi. Una seconda forza, che allora sorgeva e che si affermò subito vigorosa e salutare, fu la stampa liberale di Torino. La rappresentavano i seguenti quotidiani politici : Il Messaggiere Torinese, diretto da Angelo Brofferio; Il Risorgimento, fondato da Cesare Balbo e diretto da Camillo Cavour; La Concordia, fondata da Vincenzo Gioberti ed a cui collaborava tra gli altri Roberto d'Azeglio; L'Opinione, di Giacomo Durando, di Bianchi Giovini e di Giovanni Lanza. Questi, giornali, pur appartenendo alle varie sfumature del liberalismo piemontese — dalla prudente moderazione (Il Risorgimento) alla vivacità progressista (La Concordia) — erano tuttavia unanimi nel propugnare apertamente l'emancipazione dei Valdesi e degli Israeliti (1), sostenendo con ottime argomentazioni che dall'invocato nuovo ordine costituzionale non si dovevano in nessun modo escludere le minoranze dissenzienti per motivi religiosi. Già cinque anni prima l'abate Vincenzo Gioberti aveva scritto nel suo «Primato» parole nobilissime e ben degne di lui: «Anche i Valdesi furono talvolta crudelmente perseguitati, e giova a noi cattolici il confessarlo pubblicamente, acciò nessuno ci accusi di connivenza cogli errori dei secoli scorsi; giova ricordarlo e ripeterlo a noi stessi per animarci a riparare con tanto più amore verso di quelli i torti dei nostri avi» [Il Primato civile e morale degli Italiani, I, 459. 175].

Ed ora nel suo periodico «La Concordia» dichiarava esplicitamente: «Io tengo la causa degl'Israeliti e dei Valdesi non solo per giustizia, ma per sacra». Collaboratore principale del giornale di Gioberti era il ministro di Stato, marchese Roberto d'Azeglio, che va ricordato con particolare ammirazione e gratitudine come colui che la causa dei Valdesi volle spontaneamente abbracciare, diventandone il più fervido ed efficace sostenitore. Nel novembre 1847, subito dopo l'annunzio delle riforme amministrative, egli s'era recato [Gli Israeliti si trovano in condizione legale analoga a quella dei Valdesi; essi erano allora in numero di circa 6.000, e il numero dei Valdesi ammontava circa a 22.000 — Alla emancipazione degli Israeliti fu provveduto, poco dopo che a quella dei Valdesi, mediante alcuni decreti reali e mercé l'intervento del Parlamento] dal pastore Amedeo Bert per offrire il suo appoggio, dichiarando che, ove i Valdesi consentissero, avrebbe ormai considerato «come una missione» il lavorare con tutte le forze alla loro emancipazione ed a quella degli Israeliti. E ben si comprende che il pastore di Torino si sia affrettato a consigliare la Tavola di non fare per il momento alcun passo di propria iniziativa, rimettendosi al generoso patrocinio di così autorevole personaggio, il quale invero con ispirazione e fervore d'apostolo si diede alla sua missione e non ebbe pace finché non vide raggiunto il nobile scopo. Roberto d'Azeglio seppe agitare la pubblica opinione — altra forza potentissima che influì in modo decisivo sullo svolgersi degli eventi —e guidarne le manifestazioni, onde riuscissero della massima efficacia. Per nulla scoraggiato dalle risposte negative ricevute dai dodici vescovi degli Stati Sardi a cui aveva chiesto se fossero favorevoli a che «nelle nostre civili relazioni verso i Protestanti e gli Israeliti si applichi in realtà la massima d'amore che, da diciotto secoli e mezzo, si limitò alla lettera» [Tre vescovi, che avevano risposto piuttosto favorevolmente, poco dopo si ritrattarono. Vedi in A. Beet, I Valdesi, pagg. 462-479, la lettera circolare del marchese d'Azeglio e le risposte dei vescovi di Biella, di Pinerolo, d'Ivrea e di Albenga], egli preparò una supplica, al Re, nella quale in termini decorosissimi e cristiani intercedeva «a prò degli infelici fratelli, per cui durano ancora inesorabili i rigori e le interdizioni a cui danna vali la barbarie della trascorsa età» [Suppplica del 23 dicembre 1847. Vedi A., Bert,op. cit., p. 459. I nomi dei seicento cittadini che la firmarono sono stampati nelle prime pagine di quest'opera del Bert].

Questa petizione raccolse in breve più di seicento firme di professori, d'avvocati, di membri del clero di medici, di artisti, di commercianti ed operai, di rappresentanti insomma di tutte le condizioni sociali; i tre primi firmatari furono Roberto d'Azeglio, Camillo Cavour e Cesare Balbo.

Intanto l'avvocato generale, conte Federico Sclopis accentuava vieppiù quel dovere di riparazione affermando in base ad accurate indagini negli archivi governativi che «nessun'altra popolazione dello Stato poteva venir paragonata alla Valdese per le morali e private virtù»; e l'avvocato Audifredi nel Teatro Sociale di Pinerolo teneva un applauditissimo discorso augurando con fervore che ormai «la Patria sia madre e non matrigna ai nostri fratelli che, soggetti agli stessi paesi, non fruiscono, dei diritti degli altri cittadini», e prorompeva nel grido: «Evviva l’emancipazione dei Valdesi!».

Infine, la Tavola Valdese non poteva tralasciare di ricorrere ancor essa al Sovrano; ricevuta in particolare udienza il 5 gennaio 1848 presentò a Carlo Alberto una istanza in cui dichiarava che «i Valdesi nutrono intimo convincimento che il magnanimo ed augusto Monarca, il quale or non è molto aboliva qualsiasi eccezionale giurisdizione, abrogherà finalmente gli antichi editti restrittivi che, quantunque più volte mitigati, mai cessarono di pesare su di loro; e fermamente, confidano di essere ormai chiamati a godere senza alcuna restrizione degli stessi diritti civili e politici degli altri cittadini e per conseguenza di tutte le preziose riforme recentemente accordate. Già s'era mosso il Comitato istituito a Londra dal dott, Gilly, spingendo il Ministero inglese a intervenire con riguardosa prudenza presso il Re di Sardegna, per mezzo del suo plenipotenziario Sir R. Abercromby; e in pari tempo l'ambasciatore prussiano, conte di Roedern, sosteneva validamente dal canto suo la causa della popolazione delle Valli presso la Corte ed i Ministri. Quale effetto avranno le pressioni molteplici che da ogni parte stanno esercitandosi su Carlo Alberto, sia per deciderlo a largire la Costituzione sia per muoverlo a compiere l'atto di emancipazione dei Valdesi? Nel veder salire la marea popolare, l'infelice monarca si sente sempre più agitato e perseguitato dall'incubo incessante delle antiche promesse fatte prima di salire sul trono; trascorre le notti insonni, nell'angoscia più tormentosa, e parla di abdicazione. Vi si oppongono però recisamente il principe Vittorio Emanuele ed i suoi migliori consiglieri. Ma gli avvenimenti precipitano. Ecco arrivare in Piemonte le notizie della rivoluzione scoppiata a Palermo, poi quelle della Costituzione promessa dal re Ferdinando di Napoli. Tosto anche a Torino si fanno grandi dimostrazioni e il 5 febbraio lo stesso Consiglio Comunale, adunato in solenne assemblea, delibera di domandare la Costituzione, suscitando nella cittadinanza la più intensa commozione ed un entusiasmo indescrivibile.

Allora Carlo Alberto,dopo essersi confessato e comunicato, apre l’animo suo al monsignor d'Angennes, arcivescovo di Vercelli, il quale riesce finalmente a vincere gli scrupoli religiosi che trattenevano il Re, dicendogli schiettamente che il giuramento da lui fatto di provvedere alla tranquillità dei suoi popoli doveva primeggiare su tutto. E così il dado fu tratto.

L'Atto dell’Emancipazione

La mattina del lunedì 7 febbraio, sette Ministri e dieci alti ufficiali dello Stato sono convocati a Palazzo Reale; è il cosiddetto Consiglio di Conferenza, che il Sovrano raduna nei casi di eccezionale importanza. La seduta si prolunga fino ad ora tarda del pomeriggio e viene ripresa l'indomani, mentre tutta la città trepida in febbrile attesa e la folla silenziosa gremisce la piazza sottostante. Infine, ecco uscire la sera del giorno 8 il proclama reale che annunzia la prossima pubblicazione dello Statuto e ne indica le linee principali. Però, siccome in questo proclama si parlava della religione cattolica come della religione dello Stato e gli altri culti si davano come solo tollerati conformemente alle leggi, senza il minimo accenno a libertà religiosa o ad uguaglianza civile, coloro che non erano addentro alle segrete cose rimasero sconcertati e addirittura sgomenti. Il fatto sta che, mentre tutto il Piemonte, giubilava, i Valdesi ebbero giorni di crudele ansietà, tanto che lo stesso pastore Amedeo Bert non potè trattenersi dall'esprimere le sue apprensioni sulle colonne del Risorgimento [Articolo scritto il 9 e pubblicato il 15].

Daii processi verbali del Consiglio della Corona risulta che effettivamente vi fu discussione alquanto animata sulla questione dei Valdesi [Verbale n. 8, paragrafo 14, e n. 9, paragrafo 1], nella quarta o quinta seduta, dal 12 al 15 febbraio; non si trattò già della loro professione religiosa mia della loro capacità civile e politica. Gli argomenti in favore dell’emancipazione furono svolti specialmente dal ministro per gli interni Borelli e dal ministro per l'istruzione pubblica Cesare Alfieri di Sostegno; e «dietro a tutte queste riflessioni — dice il verbale della seduta — Sua Maestà si degnò determinare che in un articolo speciale da aggiungersi al progetto di legge si accordi ai Valdesi la facoltà di acquistare liberamente in tutti gli Stati, e si dichiari in un altro articolo che i Valdesi sono ammessi al godimento di tutti i diritti civili, compresovi il conseguimento dei gradi accademici». Tali articoli, però, non furono aggiunti ad altra legge, ma presero forma nelle Lettere Patenti firmate dal Re in doppio originale, italiano e francese, il 17 febbraio (un giovedì), e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale soltanto il 25, perché dovettero essere prima sottoposte, per la registrazione, ai tre avvocati generali del Regno: quello di Torino (Sclopis), di Nizza (Mari) e di Genova (Pinelli). Trascriviamo qui integralmente questo Editto memorabile.

CARLO ALBERTO PER GRAZIA DI DlO Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme Duca di Savoia, di Genova, eco. ecc. Principe di Piemonte, ecc. ecc.

Prendendo in considerazione la fedeltà ed i buoni sentimenti delle popolazioni Valdesi, i Reali Nostri Predecessori hanno gradatamente e con successivi provvedimenti abrogate in parte o moderate le leggi che anticamente restringevano le loro capacità civili. E Noi stessi, seguendone le tracce, abbiamo concesse a questi Nostri sudditi sempre più ampie facilitazioni, accordando frequenti e larghe dispense dalla osservanza delle leggi medesime. Ora poi che, cessati i motivi da cui quelle restrizioni erano state suggerite, può compiersi il sistema a loro favore progressivamente già adottato. Ci siamo di buon grado risoluti a farli partecipi di tutti i vantaggi conciliabili con le massime generali della nostra legislazione. E perciò per le presenti, di Nostra certa scienza, regia autorità, avuto il parere del Nostro Consiglio, abbiamo ordinato e ordiniamo quanto segue:

I Valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici dei Nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici. Nulla però è innovato quanto all’esercizio del loro culto ed alle scuole da esse dirette. Deroghiamo ad ogni legge contraria alle presenti, che mandiamo ai Nostri Senati, alla Camera de' Conti, al Controllo generale di registrare, ed a chiunque spetti di osservarle, e farle osservare, volendo che siano inserite nella raccolta degli atti del Governo, e che alle copie stampate nella Tipografia reale si presti fede come all'originale: che tale è Nostra mente.

Date in Torino addì diciassette del mese di febbraio. Vanno del Signore milleottocentoquarantotto e del Regno Nostro il Decimottavo. C. ALBERTO.

Reg. al Controllo generale il 18 febbraio 1848. Reg. 3 Editti, perg. 307. T. Moreno, Capo Div. Borelli.

Lettere Patenti colle quali V. M. ordina che i Valdesi siano ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de' suoi sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici.

La grande notizia venne accolta da indescrivibili manifestazioni d'esultanza. Come abbiamo detto, le Lettere Patenti, firmate dal Sovrano il 17, non vennero promulgate che il 25; ma già la sera del 24 la « Gazzetta Piemontese» annunziava come ne avrebbe pubblicato il testo l'indomani mattina. Allora subito, come per tacita intesa, migliaia di cittadini si raccolsero e, guidati dagli studenti che agitavano bandiere, si recarono al canto dell'inno di Mameli sotto le finestre del pastore valdese Amedeo Bert, acclamando con frenetico entusiasmo all’atto di giustizia ch'era stato compiuto. Alla mezzanotte, due giovani offrono al Bert di portare il lieto annunzio ai fratelli delle Valli. Partono di carriera. Alle tre sono a Pinerolo, dove svegliano un amico che manderà immediatamente messaggeri nelle Valli di Perosa e di San Martino. All'alba giungono a San Giovanni, dal moderatore J. J. Bonjour. La voce si sparge rapida a Luserna e a Torre, dove appunta stanno affluendo a frotte per il mercato del venerdì gli abitanti delle Valli del Pellice e di Angrogna. Ma chi può ormai pensare agli affari, oggi? Tutti, in preda a grande eccitazione, si felicitano a vicenda, si stringono le mani, si abbracciano piangendo di gioia; poi ciascuno affretta il ritorno al proprio paesello. E così la grande notìzia vola di bocca in bocca, ed in un baleno raggiunge i più remoti casolari, provocando ovunque la stessa indicibile commozione,strappando da ogni petto le stesse grida di allegrezza. Tutte le Valli sono in festa ed echeggiano di evviva! Senza che nessuno l'abbia convocato, il popolo s'avvia ai templi dove s'improvvisano culti solenni di lode all'Iddio liberatore e poi, durante tutta la giornata, non cessano di risuonare nelle campagne e sulle alture i canti della libertà. E, la sera, s'illuminano come per incanto le case dei villaggi, mentre sulle pendici nevose dei monti centinaia di fuochi di gioia risplendono in modo fantastico.

Intanto, a Torino un Comitato presieduto dal marchese Roberto d'Azeglio stava organizzando per la domenica 27 febbraio una grandiosa dimostrazione nazionale di gratitudine al Re per lo Statuto che doveva essere promulgato di lì a pochi giorni. Da ogni parte degli Stati Sardi giungevano rappresentanze con bandiere per partecipare alla solenne manifestazione; e Carlo Alberto meritava veramente l'affetto del suo popolo perché, a differenza degli altri principi che promettevano con restrizioni mentali, egli, una volta vinte le sue titubanze e messo il piede nella via costituzionale, procedette sempre con la massima lealtà. Anche ì Valdesi, naturalmente, furono invitati e non potevano mancare. Scesero dunque numerosi dalle Valli con dieci pastori e, appena giunti nella capitale, per impulso spontaneo del cuore si recarono in massa, la sera stessa del sabato 26, dinanzi al palazzo d'Azeglio ad acclamarono colui che con tanta nobiltà di sentimenti aveva sostenuta la loro causa, e che accolse vivamente commosso le ovazioni degli emancipati.

La mattina della domenica celebrarono un culto nella cappella delle ambasciate; poi si diressero al Campo di Marte, donde doveva partire il grande corteo. Erano circa seicento uomini, forti montanari dal volto abbronzato dal sole, inquadrati militarmente e divisi in tante compagnie. Fra le loro bandiere, una magnifica attirava gli sguardi: l'avevano confezionata appositamente le signore valdesi di Torino in velluto azzurro, con lo stemma sabaudo ricamato in argento e, sotto, la scritta ; A Carlo Alberto — I Valdesi riconoscenti. Li precedeva una piccola schiera di fanciulli, ornati di coccarde e nastri tricolori. AI suo apparire nel Campo di Marte, la colonna valdese suscitò un delirio di applausi. Tutte le rappresentanze ivi raccolte — ed erano centinaia con oltre trentamila gonfaloni! la festeggiarono a gara; la deputazione genovese volle rivolgerle parole sentite di felicitazione e quanto alle acclamazioni del corpo studentesco, furono addirittura frenetiche.

Si formò il corteo; i posti erano designati dalla sorte, ma il Comitato ordinatore decise che i Valdesi marciassero alla testa delle sessanta corporazioni della capitale. E tutti approvarono, esclamando «Sono stati per tanto tempo gli ultimi; sian oquesta volta i primi!». La selva di bandiere si muove, procedendo per via Po fra due ali di popolo plaudente che, al passaggio dei gravi montanari e della loro bandiera che parla della riconoscenza di leali piemontesi felici di sentirsi finalmente cittadini alla pari degli altri, li fa segno ad ovazioni entusiastiche; dalla via si agitano cappelli e fazzoletti, dalle finestre e dai balconi si gettano fiori, gridando: «Viva i fratelli Valdesi! Viva la libertà di coscienza! Viva la libertà dei culti!». Eccoli giunti i|n Piazza Castello, dove un tempo le grida di odio e di morte avevano circondato il rogo di Giaffredo Varaglia e di altri martiri gloriosi. Ora, sfilano dinanzi al Re, fermo a cavallo, con ai lati i principi e intorno i generali ed i ministri, mentre gli evviva ai Valdesi ed alla concessa emancipazione raggiungono il culmine, e la loro emozione si fa così intensa che — scrive Fun d'essi — «le lacrime di riconoscenza ci scorrevano sul volto e la voce ci veniva meno per rispondere... Tu non li vedesti, o gran Re, i nostri palpiti, ma li avrai indovinati; e quel che poté allora accrescere il nostro delirio fu l'essere noi consci che tu eri felice d'aver fatto felici anche noi, felici, sì, ed ingrati non mai !» [Articolo di A. Bert nel Risorgimento, n. 58. e nei Valdesi, p. 344].

E' vero che da tanta esultanza fraterna si tennero lontani i preti; ma la gioia dominava talmente gli animi che, lungi dal risentirsene, il pastore Bert scrisse l'indomani sul Risorgimento alcune frasi che, sebbene per la loro ingenuità acquistino oggi un sapore piuttosto ironico, pure si leggono volentieri: «Se il clero mancò alla festa, se non poté assistervi, non v'è dubbio, pregava nel frattempo per l'augusto Monarca e per la patria; ma noi intanto, in mezzo all'universale fratellanza, non potemmo abbracciare gli assenti fratelli; e se un rincrescimento ci restò in mezzo a tanto giubilo, altro non fu se non quello di non avere, noi ministri valdesi, coi preti di Pio IX strette le mani e scambiato il bacio di reciproca tolleranza e di cristiana carità” [Ibidem, p. 343].

Tutti i veri liberali d'Italia si rallegrarono della compiuta riconciliazione dei Valdesi con la madre patria; così ne scrisse Terenzio Mamiani nella Rivista Contemporanea di Torino: «Siano rese grazie pubblicamente da tutta Italia a voi, o Valdesi, che l'antica madre mai non avete voluto odiare e sconoscere insino al giorno glorioso che fu da Dio coronata la vostra costanza, e un patto comune di libertà vi riconciliava con gli emendati persecutori» [Anno 1855, p. 13].

Nel primo sinodo seguente, riunito a Torre Pellice in agosto ed al quale assisté per l'ultima volta un Commissario regio, fu deliberato che il XVII febbraio fosse in avvenire celebrato annualmentte come Festa della Emancipazione.

Passata l'eccitazione gioiosa del primo momento, un certo senso di delusione e di vaga apprensione incominciò a farsi strada negli animi valdesi meno ottimisti, non appena si poté riflettere calmamente sul testo delle Lettere Patenti del 17 febbraio. Che voleva mai significare quell'inciso : «Nulla è però innovato quanto all'esercizio del loro loro culto ed alla scuole da essi dirette»? Il però stava a indicare una riserva. Era chiaro che - nella lettera del decreto, come nella mente di Carlo Alberto, si trattava unicamente di emancipazione politica e civile. E l'emancipazione religiosa? E il libero esercizio del culto? «Nulla è innovato!». Questa infelice restrizione rispecchiava la incoerenza fondamentale e gli scrupoli più ecclesiastici che religiosi del Sovrano. Il 4 marzo venne promulgato lo Statuto fondamentale del Regno; ma il suo primo articolo non spiegava né rassicurava gran che: «La religione Cattolica, Apostolica, Romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». Dunque, commentarono i Valdesi, saremo solo dei «tollerati» e ciò «conformemente alle leggi»! Ma quali leggi? Le vigenti o altre a venire? Per intendere la manifesta illiberalità di questo articolo, bisogna tener presente il Codice Albertino del 1837, del quale riassume i tre primi articoli [L'abbiamo riprodotti in nota a p. 170] mantenendone inalterata la sostanza, frutto dell'intolleranza di altri tempi, pur cercando di migliorarne la forma in omaggio alle tendenze liberali dei tempi nuovi. Tuttavia, lungi dal lasciarsene eccessivamente impressionare, i Valdesi guardarono all’avvenire pieni di fiducia in Dio ed altresì nei legislatori i quali avrebbero applicato estensivamente il principio di libertà animatore di tutto lo Statuto, in modo che lo spirito avrebbe trionfato sulla lettera che uccide. Ed invero la sua applicazione progressivamente liberale fu opera anzitutto del grande Cavour, il quale al nuovo Regno d'Italia diede la formula «Libera Chiesa in libero Stato», che Luigi Luzzatti ha così ritoccato: «Libere Chiese in Stato sovrano». Tutta una legislazione, dal Cavour in poi, ha praticamente sostituito quella infelice seconda parte del primo articolo dello Statuto e garantisce la più assoluta libertà religiosa alla Chiesa Valdese, come pure agli altri culti acattolici, riconosciuti più tardi; tanto il Codice Penale (art. 140, 141, 142) quanto la legge di Pubblica Sicurezza (art. 24, 26, 232) nel riferirsi ai culti acattolici adoperano sempre il termine «ammessi» e non mai «tollerati». Rimase dunque, purtroppo quella formula antiquata, ricordo dei tempi crepuscolari in cui era stata coniata; rimase, la locuzione, ma non già il pensiero confessionale che l'aveva ispirata, poiché la «tolleranza» ormai non s'interpretava più nel senso dispregiativo di «sopportazione», bensì nel senso di «ammissione», quale logica conseguenza di un principio generale di diritto pubblico: Quando, dopo l'annessione di Roma al Regno d'Italia nel, 1870, si acuì la cosiddetta «questione romana», già sorta nel 1861, per la proclamazione del Regno d'Italia con Roma capitale, nella Legge delle Guarentigie (maggio 1871) il principio della libertà di culto e di propaganda venne esplicitamente affermato all'art. 2: «La discussione sulle materie religiose è pienamente libera». E quando la Questione Romana fu risolta ed eliminata dagli Accordi del Laterano, il febbraio 1929, tale principio della libertà di coscienza, di discussione in materia religiosa e, quindi, di propaganda, doveva ricevere una ancor più esplicita e definitiva conferma nella Legge sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato.