Storia/Saluzzo riformata/IV Le principali correnti della Riforma protestante nel Marchesato

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CAPITOLO QUARTO

IV. Le principali correnti della Riforma protestante nel Marchesato

:La corrente valdese. La corrente riformata: luterana e svizzera. La corrente anabattista od antitrinitaria. La corrente nicodemita. La corrente calvinistica o ginevrina. Le confessioni di fede dei ministri Gioffredo Varaglia e Francesco Truchi.

Prima d' intraprendere lo studio delle vicende, che accompagnarono l'espansione della Riforma saluzzese dopo il trattato di Castel Cambresis (1559) e durante il torbido periodo delle guerre civili di Francia, crediamo opportuno dare un rapido sguardo alle correnti ed alle tendenze, che si manifestarono in essa durante il secolo XVI e che ne determinarono la fisionomia spirituale, morale e sociale.

A turno, ed in varia misura, possiamo dire che nella Riforma saluzzese si agitano cinque correnti: la valdese, la riformata: luterana e svizzera, l'anabattista od antitrinitaria, la nicodemita e la calvinistica o ginevrina.

Già abbiamo ricordato (cap. I), quale contributo notevole recassero alla prima diffusione del movimento protestante nelle terre del Marchesato i nuclei eterodossi valdesi, che alla vigilia della Riforma sussistevano nelle vallate della Varaita, della Macra, della Stura, ma specialmente in quella del Po, detta Val di Paesana. A proposito di questi ultimi abbiamo narrato succintamente anche la fiera persecuzione, che essi subirono al tempo di Margherita di Foix (1509-1514), pochi anni prima che Lutero proclamasse i suoi arditi principî e desse inizio alla grande riforma religiosa.

Mentre per gli altri gruppi dissidenti saluzzesi non possediamo documenti, che ci illustrino le dottrine religiose professate ed i riti seguiti, per gli eretici di Paesana abbiamo invece la fortuna di possedere un prezioso documento, che in 63 articoli compendia le loro dottrine religiose, morali e sociali e che ci permette di avere una visione abbastanza chiara e precisa della loro vita religiosa.

Il documento porta per titolo: Errores Valdensium in Paesana commorantium [1]. È quasi certamente il compendio delle risposte, che gli Inquisitori Angelo Ricciardino e Angelo di Pavia ottennero durante i processi e gl'interrogatori inflitti ai Valdesi di Paesana caduti nelle loro mani o che strapparono ai miseri con promessa di ricompensa e con minaccia di tortura.

Come dice il titolo stesso del documento, gli Errores non sono una confessione di fede valdese vera e propria, perché sono redatti da mano inquisitoriale e non raccolgono tutte le credenze valdesi, ma quelle soltanto che, a giudizio degli Inquisitori e dei teologi cattolici, erano reputate contrarie all'insegnamento della Chiesa Romana, lesive al prestigio del sacerdozio cattolico e all'autorità del papa. Tacciono, infatti, tutto il patrimonio dogmatico cristiano, che era considerato comune alle due fedi ed approvato dalla chiesa dominante [2]`. Secondo gli Errores, le dottrine valdesi riprovate dalla Chiesa si possono compendiare in questi punti:

Si deve ubbidire soltanto a Dio, al re ed ad ogni altra potestà regolarmente costituita; non ai canoni ed alle leggi della Chiesa, e nemmeno agli ordini emanati dai sindaci e dai consiglieri delle Comunità, quando siano contrari alla setta.

La chiesa cattolica è casa di menzogna, riprovata da Dio, non chiesa di Cristo, ma meretrice e chiesa di malevoli («sed meretrix et non Ecclesia Christi, sed malignantium»). A scopo di lucro inventò i sacramenti e molte altre pratiche religiose, e per malizia ed invidia perseguita i seguaci della fede valdese, che soli conoscono ed insegnano la verità.

Il papa non ha l'autorità di S. Pietro, perché non è santo come fu santo l'Apostolo: egli non è da più di qualsiasi uomo, anche laico, e non può essere papa e capo della Chiesa, perché non osserva la regola apostolica come essi valdesi, specialmente a cominciare da papa Silvestro. Perciò né a lui né ai preti è dato il potere di legare e di sciogliere.

I sacerdoti cattolici hanno tanto di autorità quanto hanno di virtù: perciò i cattivi sacerdoti non possono «conficere corpus Christi», né i fedeli hanno l'obbligo di venerare, di ricevere e di credere il Corpo di Cristo, quando sia offerto da mani impure. Ai preti non spetta l'autorità di consacrare e di amministrare i sacramenti.

Gli ordini ed i decreti della Chiesa non obbligano all'obbedienza, perché non vengono da Dio, ma dalla tradizione umana. Il Purgatorio non esiste dopo questa vita: esistono solo l'inferno ed il paradiso: di conseguenza non giovano le elemosine ed i suffragi e le messe praticate per i defunti ed inventate solo «ad utilitatem sacerdotum».

A nulla valgono similmente le censure della Chiesa, le indulgenze dei sommi pontefici, la sepoltura in chiesa piuttosto che in un campo, l'acqua benedetta, che ogni laico della loro setta può benedire, dicendo: «In nomine Patris », il divieto delle carni in tempo di quaresima, i digiuni, le vigilie, ecc.

Non si debbono recitare le preghiere, delle quali non si conosce l'autore, come l'Ave Maria: né sono da credere i miracoli vantati dalla Chiesa.

È da condannarsi il culto delle immagini, delle reliquie e della croce ed è assurdo credere che una croce di legno da due soldi valga meno di quella che sta in chiesa sull'altare.

Né i Santi, né le Sante, né la Vergine stessa sono degne di adorazione e di preghiera, perché essi ignorano ciò che avviene in questo mondo e non hanno alcun potere presso Dio. Inutili sono le unzioni, i pellegrinaggi e le processioni con il Corpo di Cristo.

Un solo giorno è da santificare, cioè la domenica, che è il giorno del Signore: tutte le altre feste introdotte dalla Chiesa non sono che «contubernia».

Non è peccato avere per moglie una consanguinea. Sono invece peccati mortali: la menzogna ed il giuramento. Il giuramento fatto contro la setta e davanti all'Inquisitore non ha valore, perché coatto e non deve essere osservato.

Il condannare a morte qualcuno, anche per giusto motivo, è peccato mortale. Non è pertanto peccato lo spergiurare per salvare la vita di un uomo. Ma fa peccato la Chiesa romana, quando perseguita e mette a morte i Valdesi per malizia e per invidia, perché insegnano la verità.

Il battesimo non è necessario: chi entra nella setta, è salvato anche senza battesimo.

Nel giorno di Pasqua non occorre comunicarsi, ma solo ricevere il pane benedetto.

Basta confessarsi una sola volta all'anno e secondo il rito valdese.

Anche i semplici laici della setta, uomini o donne, possono udire le confessioni ed assolvere dai peccati.

La santità può raggiungersi dagli uomini fin da questa vita, in modo da diventare impeccabili.

I Valdesi hanno diritto alla libera predicazione e non hanno bisogno di alcun permesso umano.

Accanto a questi articoli, che racchiudono le dottrine valdesi discordanti da quelle della chiesa romana, sono frequenti gli articoli, i quali attestano presso i Valdesi di Paesana - come in genere presso tutti i gruppi eterodossi del Medioevo - il vanto e la credenza di essere i soli e legittimi discendenti di Cristo e degli Apostoli ed i veri eletti di Dio.

Per reazione alla chiesa cattolica, che affermava di essere la sola depositaria della verità e l'unica via di salvezza per le anime, anche i Valdesi di Paesana affermano di essere la sola e vera chiesa di Cristo e di essere stati mandati da Dio a sostituire gli Apostoli. Perciò ad essi, più che ai papi ed ai preti, appartiene il potere di sciogliere e di legare e il diritto della libera predicazione. Fuori della setta non c'è salvezza: chi non la segue, sarà dannato, fatta eccezione per gli ignoranti ed i fanciulli. Chi svela agli Inquisitori i seguaci della setta, commette peccato mortale.

Il mondo durerà quanto dureranno essi Valdesi: nel giorno del giudizio universale essi, per la loro pietà e fedeltà all' insegnamento apostolico, sederanno fra gli eletti di Cristo, alla destra ed alla sinistra di Lui, sopra dodici scanni per giudicare gli uomini.

Per completare il contenuto degli Errores rimangono da ricordare due articoli, che hanno carattere sociale ed economico e rientrano nelle aspirazioni comuniste così frequenti nei movimenti eterodossi dell'età di mezzo [3].

Col primo (art. 58) si afferma che ai sacerdoti della chiesa romana non spettano né decime né rendite né primizie; col secondo (art. 63) [4] si auspica l'avvento di tempi nuovi, la venuta di un re di Boemia [5], che con un grande esercito soggiogherà le province, distruggerà le chiese, ucciderà i sacerdoti infedeli, sopprimerà ogni dominio temporale, toglierà i pedaggi e le taglie, imporrà un grosso solo per persona, farà ogni cosa comune e tutto sottometterà alla sua legge.

Tali sono nel loro complesso le credenze, che gli Errores attribuiscono ai Valdesi di Paesana. E sebbene alcuni di essi, per la forma con cui sono stati redatti e per la scarsa cultura degli inquisiti più esercitati a notare quanto nei dommi e nella prassi cattolica contrastava con la Sacra Scrittura che ad avventurarsi in sottili disquisizioni etico-religiose possano talvolta non rispecchiare fedelmente i principi professati dai barbi valdesi e dai capi-setta, in genere si può affermare che essi Errores corrispondono assai esattamente alle dottrine, che in quello stesso periodo di tempo professavano gli altri gruppi valdesi stanziati nelle valli del Pellice e del Chisone e che troviamo descritte in vari documenti del tempo. Tali: la relazione di Alberto De Capitaneis (alias Cattaneo) [6], gli atti della visita pastorale dell'Arcivescovo di Torino Claudio di Seysse [7], il processo dei barbi Francesco Girondino da Spoleto e Martino Pastre [8], l'epistolario dei barbi Masson e Morel con i riformatori Bucero ed Ecolampadio nei primi anni della riforma protestante [9].

Secondo il Vinay ed il Gonnet [10], che fecero un acuto esame degli Errores, ponendoli a confronto con gli altri documenti coevi sopra citati, i primi attesterebbero rispetto ai secondi un più spiccato carattere laico, riducendo sensibilmente la differenza tra barbi e laici e conferendo a questi, uomini o donne che siano, lo stesso potere di legare e di sciogliere, di udire le confessioni, di distribuire le penitenze, di dommatizzare e di predicare.

Più cattolica inoltre apparirebbe la dottrina dell'eucaristia, in quanto che i Valdesi di Paesana sembrerebbero ammettere, sotto un certo aspetto, la dottrina della transustanziazione, affermando che il «conficere Corpus Christi » spetta al sacerdote cattolico solo in quanto sia buono e che secondo la qualità del prete officiante il rito ha o non ha alcun valore.

Certo è che anche presso i Valdesi del Marchesato, non diversamente da quanto avveniva presso gli altri gruppi eterodossi piemontesi sopravviventi allo scoppio della Riforma, le violente persecuzioni religiose ed un rilassamento dell'antica fede dovevano avere attenuato in qualche modo l'aperto contrasto tra le due fedi, consigliando gli eretici a tutelare l'incolumità dei loro beni e delle loro persone con una finta od esteriore adesione a parecchie cerimonie cattoliche. Già abbiamo ricordato come alcuni dei Valdesi, arrestati in Val Paesana dagli sbirri inquisitoriali durante la persecuzione di Margherita di Foix, furono appunto sorpresi e catturati, mentre assistevano alla Messa nella chiesa di Praviglielmo.

Ma questo periodo di affievolimento o di pavido mascheramento della propria fede non doveva durare che pochi anni. I Valdesi di Paesana aspettavano da oltralpe la scintilla di una grande riforma religiosa: e la Riforma venne, più rapida ed ardita di quanto si aspettassero, sì da renderli in sulle prime titubanti e perplessi, poi da conquistarli e da assorbirli nella grande corrente della riforma protestante.

Accanto alla persistente eresia valdese, fin dal terzo decennio del secolo XVI, si affianca la più vasta corrente protestante o riformata, sia essa d'ispirazione tedesca o svizzera e faccia essa capo a Lutero, Erasmo e Melantone o a Zvinglio, Bucero, Ecolampadio, Farello e Vireto, che sono fra i riformatori di oltralpe quelli, che ebbero più intimi contatti con i dissidenti piemontesi, prima che sorgesse all'orizzonte l'astro di Giovanni Calvino.

La diffondono preti e frati apostati, che hanno succhiato il germe delle nuove dottrine durante le loro peregrinazioni e legazioni in Svizzera ed in Germania, o che le hanno apprese dai libri e dai trattati dei riformatori transalpini sparsi a piene mani nelle contrade del Piemonte, ora in lingua originale, ora in versioni italiane e francesi. Assecondano l'opera dei frati numerosi mercanti, che trafficano in terre infette, e studenti girovaghi; ma soprattutto i soldati e gli ufficiali, che Francia ed Impero arruolano nella Germania e nella Svizzera e mandano in Piemonte e nel Marchesato di Saluzzo a difendere il contrastato predominio nella Penisola o a presidiare città e fortezze [11].

Così vari e disparati essendo gli elementi e gli strumenti di divulgazione, è naturale che la corrente riformata, la quale si sviluppa nella prima metà del secolo nei borghi e nelle città della pianura saluzzese, abbia spesso un carattere incerto, mutevole ed ibrido, in quanto che i principi della riforma luterana e quelli della riforma zvingliana e svizzera si alternano, si fondono od a turno si sovrappongono, a seconda che frati, soldati e libri provengono di preferenza dalla nazione tedesca o da quella svizzera. L' ibridismo si attenuerà dopo le deliberazioni della Sinodo valdese di Cianforan (1532) e scomparirà a mano a mano che il trionfo della dottrina di Calvino orienterà definitivamente le congreghe piemontesi, tanto quelle della pianura, quanto quelle della vallate alpine, verso la riforma teologica ed ecclesiastica, che a metà del secolo farà di Ginevra il fulcro pulsante di tutta la riforma protestante.

La prima fase della predicazione riformata, fatta da frati apostati o semi-apostati, è talvolta ancora incerta, larvata e prudentemente avvolta in un esteriore conformismo alle credenze ed alle cerimonie della chiesa cattolica. Ciò avviene o per l'imperfetta conoscenza, che i banditori hanno delle nuove dottrine, o per la forza che esercita sugli animi la secolare tradizione di gloria e di potenza della chiesa dominante, o per la necessità di evitare i sospetti e le rappresaglie della Santa Inquisizione. Ma talvolta è frutto anche di un deliberato criterio di condotta, la quale, a loro giudizio, mentre sufficientemente tutela l'incolumità della persona, permette, meglio dell'aperta predicazione eterodossa, d'inculcare gradualmente, e quasi inavvertitamente, nelle menti e nelle coscienze del popolo i germi della nuova riforma religiosa. Ma a tratti la predicazione diventa più apertamente eretica, si muta in fiera protesta contro gli abusi, le deviazioni e le immoralità della chiesa e del clero cattolico, o risuona come profetico ammonimento ad annunziare la rovina della Chiesa, se essa non si emendi e non ritorni alla purezza ed alla umiltà della dottrina di Cristo e della vita apostolica. Ma allora l'Inquisizione è pronta a scomunicare ed a minacciare il frate temerario od a farlo tacere per sempre, se recidivo e ribelle.

Naturalmente, in questo primo stadio della predicazione riformata, rivive gran parte del bagaglio dogmatico ed etico comune a tutte le eresie medievali, segnatamente a quella valdese: la condanna del culto della Vergine e dei Santi, delle reliquie e delle immagini; l' inefficacia delle indulgenze, delle censure e dei suffragi; l' inesistenza del purgatorio e dei poteri divini del papa e dei sacerdoti cattolici; la nullità delle leggi e delle tradizioni umane non rispondenti all'insegnamento della S. Scrittura posta come unica regola della vita cristiana. Ma il centro della predicazione, come della polemica religiosa, a poco a poco si sposta intorno ai grandi principi agitati dalla Riforma: la salvezza per la fede, non per le opere; la grazia di Dio opposta alla naturale nequizia umana; l'opera redentrice di Cristo, unico mediatore fra Dio e gli uomini; la nuova nascita e l'intima comunione con Dio senza intermediari umani; il libero esame ed il valore consustanziale o semplicemente simbolico della eucaristia.

Le epistole di San Paolo diventano il cavallo di battaglia dei predicatori e dei polemisti novatori e, a preferenza di tutti gli altri libri sacri, sono lette e commentate ai fedeli in pubblico ed in privato: tanto che la particolare predilezione dimostrata dai predicatori per gli scritti paolini serve spesso all’Inquisizione per individuare nella massa del clero gli intimi seguaci delle nuove dottrine.

A questo primo gruppo di frati apostati e novatori appartiene quel celebre frate Giov. Battista Pallavicino, che già abbiamo visto predicare con tanto successo le nuove dottrine nelle terre di Chieri, nel Marchesato di Saluzzo e nel Monferrato [12].

La sostanza della sua fede, o meglio della sua predicazione, è chiaramente indicata in quell'elenco di articoli dottrinari, che fu inviato al S. Offizio di Roma e che, trovato profondamente eretico, trasse sul capo del frate l'accusa di apostasia e la condanna [13]. L'elenco può essere riassunto nei seguenti punti:

“Ogni scrittura e consuetudine umana perde valore davanti alla S. Scrittura e se contrasta con essa. La S. Scrittura è esclusivamente quella contenuta nella Bibbia. Nessuna chiesa può esistere e durare, se rinnega la legge di Cristo o contrasta con essa. Nessuna fede può essere basata sulle tradizioni umane, se queste non sono confermate dalla S. Scrittura. Noi siamo salvati per la fede, non per le opere. Le opere sono testimonianza della fede, non la fede delle opere. Ripugna alla fede cristiana la credenza nel purgatorio e la preghiera agli eletti (o santi) di un altro secolo, affinché intercedano per noi presso Dio. Quelli che non vivono secondo i precetti di Cristo, non credono Cristo e non possono costituire la vera chiesa di Cristo, santa e cattolica (cioè universale). Non siamo obbligati ad ubbidire a nessun'altra chiesa che a quella santa ed universale”.

Sulla dottrina della salvezza per la fede, non per opere dottrina centrale della Riforma il Pallavicino insisteva anche nell'altro scritto apologetico della Riforma, che già abbiamo riferito, nel quale mostra come l'orgogliosa natura umana si affanna ad essere buona da se stessa ed a cercare da se sola la beatitudine celeste, creandosi con le proprie opere e con speciali riti una giustizia tutta sua, che non è la santa e spirituale giustizia di Dio.

Il programma di fede del Pallavicino - dove quasi tutti gli articoli sono espressi sotto forma negativa risente ancora di quello spirito fortemente polemico, naturale in un moto, ch'era sorto come reazione al secolare dominio spirituale e religioso esercitato sulle coscienze umane dalla chiesa cattolica, e che, come tale, aveva spesso più cura di mettere in rilievo ciò che differenziava le due fedi e le opponeva l'una all'altra che di accentuare e di approfondire i principî intimi e costitutivi della nuova fede.

Ancora vaga, incerta, personale, la fede dei primi novatori si affermerà e si preciserà a mano a mano che si faranno più intimi i contatti dottrinali fra i gruppi valdesi-riformati del Piemonte ed i grandi riformatori della Germania e della Svizzera.

Già altrove [14] abbiamo succintamente accennato a questi rapporti, ricordando la missione dei barbi Masson e Morel ai due riformatori di Basilea e di Strasburgo, Ecolampadio e Bucero, e le risposte che questi diedero ai loro dubbi teologici e morali.

Frutto di questi intensificati contatti furono la confessione di fede redatta dai Valdesi nel 1531 chiamata del 1120 - e soprattutto le conclusioni della Sinodo di Cianforan, le quali ci permettono di ricostruire assai esattamente le dottrine e la prassi religiosa delle congreghe valdesi e riformate del Piemonte e del Marchesato di Saluzzo, a partire dal 1532.

La confessione di fede [15] non si discosta ancora molto dalle precedenti confessioni di fede valdese ed appena adombra i più arditi principi della Riforma. Riconosce il Simbolo Apostolico, la Santa Trinità, il peccato originale, la creazione come opera di Dio, la redenzione umana per mezzo del sacrificio di Cristo, la risurrezione dei corpi, l'unica mediazione di Cristo e le altre invenzioni fra Dio e gli uomini; nega il purgatorio umane contrarie allo spirito di Dio, le vigilie, l'acqua benedetta, i digiuni, la Messa, la confessione auricolare ecc.; ammette due soli sacramenti come forma visibile della grazia invisibile: il battesimo e la Santa Cena, e per la prima volta fa distinzione tra libri canonici ed apocrifi.

Più aperta e decisa adesione ai dommi peculiari della Riforma segnano le conclusioni della Sinodo [16], che si tenne l'anno seguente dalle comunità valdesi a Cianforan, nel vallone di Angrogna, dal 12 al 18 settembre 1532, con l'intervento dei riformatori svizzeri Farel e Saunier.

Esse possono essere riassunte nei seguenti punti:

Il giuramento in nome di Dio è lecito, quando non nomini invano il nome di Dio e ridondi a maggior gloria di Dio o a vantaggio del prossimo. Perciò si può giurare anche in giudizio, perché il giudice, sia esso fedele o infedele, esercita la potestà di Dio (art. 1).

Nessuna opera è chiamata buona, se non quella che è comandata da Dio; nessuna cattiva, se non quella ch'è proibita e riprovata da Dio. Riguardo alle opere esterne, che non sono espressamente proibite da Dio, l'uomo le può fare, purché esse non contraddicano al comandamento di Dio «ama il tuo prossimo come te stesso » (art. 2).

La confessione auricolare non è ordinata da Dio: a tenore della S. Scrittura la vera confessione del cristiano consiste nel confessarsi a Dio solo, al quale solo appartiene ogni onore ed ogni gloria. Vi sono due altre specie di confessioni lecite: quella privata, che si fa riconciliandosi col fratello (Matteo V, 21-26) e quella di colui, che avendo pubblicamente peccato contro il fratello, pubblicamente confessa il suo peccato (art. 5). La sospensione del lavoro nel giorno domenicale non è categoricamente prescritta da Dio e perciò il cristiano può attendere ai suoi lavori anche di domenica, senza peccare. Tuttavia, per riguardo ai suoi servitori o per attendere alle pratiche del culto e glorificare Dio, farà bene a riposare in quel giorno (art. 6).

La preghiera non richiede né parole, né inginocchiatoi, né il denudamento del capo, né un tempo prestabilito (art. 7). Il culto a Dio deve essere reso in spirito e in verità (art. 8). L'imposizione delle mani non è necessaria, benché gli apostoli l'abbiano praticata, perché è cosa esteriore e perciò formale (art. 9).

Non è lecito farsi vendetta o giustizia da sé: però il cristiano può esercitare la giustizia e l'autorità magistraturale sopra i cristiani delinquenti (art. 10-11).

Il digiuno non è espressamente comandato da Dio e non ha tempi stabiliti (art. 12).

Il matrimonio non è proibito a nessuno, di qualunque stato ed ordine sia. Chi prescrive lo stato di verginità o impedisce il matrimonio, insegna dottrina diabolica. Chi sa resistere ai sensi, può seguire il celibato; ma chi non ha il dono della continenza, ha l'obbligo del matrimonio (art. 13-16).

Non tutte le usure sono proibite da Dio, ma quelle che nuocciono al prossimo. Ai poveri non solo bisogna prestare, ma dare gratuitamente, se hanno bisogno (art. 17-18).

Tutti quelli, che sono stati o saranno salvati, sono stati prescelti o preeletti anteriormente alla costituzione del mondo: perciò quelli che sono salvati o prescelti, non possono non essere salvati. Chiunque afferma il libero arbitrio, nega totalmente la predestinazione e la grazia di Dio, come si ricava dalle epistole ai Romani, agli Efesini e ai Galati (art. 19-21).

I ministri hanno il diritto di possedere ciò, che è equo per il sostentamento loro e delle loro famiglie, perché ciò non è contrario alla comunione apostolica.

Cristo ha lasciato solo due segni sacramentali: il battesimo e l'eucaristia. Quest'ultima serve a ratificare e confermare la fede, che abbiamo promessa da bambini, ed è un memoriale del grande beneficio che Cristo ci ha largito, morendo sulla croce per la nostra salvezza e lavandoci col suo sangue prezioso (art. 24).

La conclusione degli atti della Sinodo è una calda esortazione a tutti i fedeli, perché rimangano concordi nell'insegnamento e nella interpretazione delle Sacre Scritture, in modo che lo Spirito Santo, che dettò le Sacre Carte, ispiri e guidi anch'essi nella retta conoscenza ed interpretazione della volontà divina.


Come si può vedere dal rapido cenno, che abbiamo fatto, gli articoli della Sinodo di Cianforan non contengono tutta quanta la dottrina dei Valdesi aderenti alla Riforma: presentano, infatti, soltanto i punti, sui quali i Valdesi erano rimasti perplessi di fronte alle dottrine ed agli scritti dei riformatori e sui quali pareva sussistere sostanziale o formale disaccordo tra la secolare dottrina e prassi valdese e quella

Ma sebbene incomplete, le conclusioni della Sinodo di Cianforan costituirono d'allora in poi la regola, alla quale i ministri ed i fedeli delle congreghe riformate del Piemonte e del Marchesato uniformarono sempre più le loro dottrine, i loro riti e la loro organizzazione ecclesiastica, come si può vedere dalle successive confessioni di fede presentate al Parlamento Francese di Torino (1556) 17 o alla Corte del duca di Savoia E. Filiberto (1560-61) 18.

Ma di queste peculiari ai gruppi valdesi delle valli del Pellice e del Chisone - non crediamo di dover fare un cenno particolare, sebbene anch'esse, in qualche modo, rappresentino la dommatica e l'etica delle congreghe riformate del Marchesato, le quali serbarono sempre intimi ed ininterrotti contatti con le Valli Valdesi.

Maggior interesse per la conoscenza dottrinale della riforma saluzzese ha la breve confessione di fede, che il medico di Busca, Alosiano, indirizzò ai principi di Germania a nome di tutte le congreghe riformate del Marchesato e del Piemonte e che, lasciando da parte le questioni teologiche controverse, compendia la dottrina cristiana e riformata nei suoi punti vitali 19.

“Noi crediamo che Cristo è l'unico Mediatore, per mezzo del quale noi abbiamo accesso a Dio padre. Crediamo che, riscattati per i meriti di Cristo, mediante la fede, siamo stati riconciliati con Dio, giustificati e santificati, poiché Cristo è morto per i peccati nostri ed è risuscitato per la nostra giustificazione. Stimiamo pertanto come anticristi ed eretici tutti quelli, che cercano la riconciliazione con Dio e la vita eterna per altra via. Poiché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per il quale ci convenga di essere salvati, se non il nome del Signor nostro Gesù Cristo. Ugualmente: 'Io sono la porta: se qualcuno entra per mezzo mio, sarà salvato, ma chi non entra per la porta, è un ladro ed un predone”.

È questa l'intima fede, che animò e sorresse i martiri riformati nel carcere e sul rogo e che, passato il periodo iniziale delle polemiche teologiche e delle violente diatribe, guidò ed alimentò le congreghe riformate del Marchesato nella seconda metà del secolo. Essa troverà la sua più eloquente espressione nelle confessioni di fede del Varaglia e del Truchi, alle quali dedicheremo un più particolare esame alla fine del capitolo.

La corrente anabattista ed antitrinitaria non sembra aver avuto numerosi fautori nelle terre saluzzesi, sia perché il Marchesato era appartato dai grandi centri di cultura e di commercio, che avevano relazione con la Germania, la Transilvania, la Polonia e l' Ungheria, dove quelle dottrine incontrarono maggior favore, sia perché gran parte della popolazione saluzzese era di condizioni culturali mediocri e dedita più ai lavori manuali che alle sottili elucubrazioni filosofiche e teologiche.

Rimangono perciò unici rappresentanti, a noi noti, di questa corrente Giov. Paolo Alciati di Savigliano e Giorgio Biandrata (o Blandrata) di Saluzzo [20], i quali per la notorietà, che ebbero in quel secolo, meritano un cenno speciale.

Giov. Paolo Alciati nacque a Savigliano verso l'anno 1510 da Messer Bernardino sig. della Motta, terra dipendente da Savigliano. Per lunghi anni esercitò il mestiere delle armi, finché, venuto a contatto con le nuove dottrine, abbandonò la carriera militare, obbedendo alle esigenze della sua coscienza e desiderando perfezionarsi nella conoscenza di quella nuova forma di religione, che incontrava così largo consenso al di là delle Alpi.

La tradizione lo mette in rapporto coi gruppi anabattisti di Vicenza [21] fin dal 1546; ma le sue relazioni sicure con Ginevra e con Calvino non sono anteriori al 1552. Iscritto prima come abitante della città (1552), poi come borghese (1555), visse per più anni amico di Calvino, disimpegnando nella piccola congrega di rifugiati italiani le funzioni di diacono e di anziano. Ma nel 1558 la sua amicizia col Biandrata e col Gribaldi ed il crescente sospetto ch'egli seminasse idee antitrinitarie nella chiesa italiana e che con le sue dispute teologiche mirasse a scalzare l'autorità di Calvino, lo resero inviso al Riformatore ed al Consiglio della città.

Avendo Calvino imposto alla congrega italiana una confessione di fede, per ricondurre nel suo seno l'unità e la pace, l'Alciati con parecchi altri esuli italiani rifiutò di sottoscriverla, impugnandone alcuni termini e protestando contro l'intolleranza del Riformatore: minacciato di bando e di morte, se persistesse nel suo rifiuto, il piemontese preferì abbandonare la città. Nei mesi seguenti andò peregrinando, irrequieto e sospetto, per varie città della Svizzera (Zurigo, Basilea, Chiavenna) e del Piemonte. Nella primavera del 1559 era a Torino, dove con le sue dispute teologiche mise in fermento la piccola congrega riformata. Smascherato e combattuto dal ministro, rivarcò le Alpi e prese dimora a Farges, presso Ginevra, in casa di Matteo Gribaldi. Di là inviò alla Signoria, per protesta contro il bando, una lettera di rinunzia alla borghesia ginevrina. Ma l'atto fu ritenuto dalla Signoria come sommamente offensivo e gli trasse addosso un lungo processo [22], che terminò col bando perpetuo e con la condanna a morte dell'esule, se osasse ricomparire sulle terre della Signoria (14 agosto 1559). A nulla valse ch'egli inviasse una confessione di fede, trovata ortodossa, e che per mezzo di lettere e di amici cercasse di convincere la Signoria che la rinuncia non era un'ingiuria alla città, la quale lo aveva generosamente ospitato, ma una protesta contro la condotta intollerante ed insidiosa di Calvino nei suoi riguardi.

Negli anni seguenti, per sollecitazione del Biandrata, l'Alciati passò in Polonia (ott. 1562) e di là, con continue peregrinazioni, in Transilvania, in Moravia ed in Valtellina, per ritornare nuovamente in Transilvania ed in Polonia. Le sue ultime vicende sono assai incerte. La tradizione vuole ch'egli chiudesse a Danzica la vita avventurosa, raccomandando l'anima al Salvatore.

L'Alciati non ebbe mente né filosofica né teologica egli stesso candidamente lo confessa: perciò nelle sue dottrine, quali appaiono dagli atti del processo, sarebbe inutile ricercare l'unità e la logicità di un sistema.

Nel periodo della vita, che precedette la condanna ginevrina, l'Alciati, nonostante le accuse di antitrinitarismo, sembra essere stato sostanzialmente consenziente con la dottrina trinitaria, ma aver dissentito nella formulazione a causa di alcuni termini usati dalla teologia calviniana.

Quello, che l'Alciati rivendica, è l'indipendenza del proprio pensiero, il diritto di esporre liberamente i propri dubbi e di attenersi a quanto rivela lo Spirito Santo, senz'essere costretto ad accettare i sistemi umani, i quali sostituiscono a Cristo ora questo, ora quell'uomo. «Questi modi fabbricati dagli uomini non vagliono molto et a me non piacciono, al qual nondimeno piace il puro et semplice stile dello Spirito Santo. Et chi è che meglio saprà esprimere et insegnare con modi et voci più proprie ogni verità et ogni misterio divino che esso Spirito Santo? Si dovrebbero vergognare gli huomini di essere si presuntuosi et arroganti di pensare da sé medesimi di poter trovare modi più chiari, né più propri di parlare che Iddio proprio pel suo spirito non fa ». La regola di fede dell'Alciati è pertanto la Sacra Scrittura, cioè «il confessar et approvare quanto nelle Scritture si contiene, senza volerci mescolare huoministerie ».

Da questa ferma aderenza alle dottrine proclamate dallo Spirito Santo nel Vangelo nasce nell'Alciati la fiera opposizione all'assolutismo di Calvino e di qualsiasi altro teologo, che voglia imporre le proprie dottrine, massime se esse, nello spirito e nei termini, sembrino contrastare con lo spirito ed i termini della S. Scrittura. Per questo suo intento d' indipendenza e di critica, per la costante protesta contro ogni forma di assolutismo teologico e religioso, per le amicizie contratte con alcuni spiriti liberi e rivoluzionari, sospetti di unitarismo, come il Biandrata, il Gribaldi ed il Gentili, anche l'Alciati fu a Ginevra accusato di idee antitrinitarie.

Tre affermazioni sopra tutte gli furono rinfacciate negli atti del processo: 1° di combattere il domma della Trinità, rifiutando il termine di «persona» e presentando la Trinità come un mostro a tre teste, peggiore di tutti gli idoli del pismo; 2° d'insegnare che Cristo, come figlio, è nato dopo il Padre e che pertanto è a Lui inferiore per divinità; 3º di affermare che Cristo è semplice uomo, perché non esisteva prima della nascita da Maria Vergine, e perché quando morì, morì


totalmente.

Ma molti passi delle lettere e delle confessioni di fede dell'Alciati, giunte fino a noi, sembrano escludere che egli almeno nel periodo ginevrino accettasse in pieno le idee antitrinitarie.

A smentire la prima accusa, troviamo esplicitamente confessata «la vera unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» e fieramente condannata «l'empia moltitudine di più dei tra loro separati ». («Firmissamente credo la Santa ed inseparabile Trinità, cioè la completa unità dei tre partecipanti della natura divina»),

Né meno precise sono le sue affermazioni sulla natura divina di Cristo e sulla sua opera redentrice. «Crediamo, fermamente teniamo e confessiamo dinanzi al cospetto del vero Dio e della sua Santa Chiesa universale il nostro Signore e Redentore Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, esser secondo la sua divinità vero, proprio, naturale, eterno e consustanzial Figliolo del vero altissimo e vivente Iddio, autor dell'universo.... Io credo nel Signore Gesù Cristo per il quale ogni cosa esiste: credo che Egli sia il vero figlio di Dio, proprio, naturale, consustanziale e coessenziale, Dio eterno col padre generato e non fatto ».

Contro la terza accusa, che Cristo è morto, secondo lui, integralmente, così si difende l'Alciati: «Come mai ho pensato né creduto che Cristo fosse morto secondo la sua divinità (ciò che i miei calunniatori vanno dicendo), e come ora neppure penso né credo, così non ho mai inteso dir questo, sebbene io testimoniassi che Cristo era morto interamente e veramente per la salvezza di tutto il genere umano ». Il suo pensiero su questo punto è ulteriormente chiarito nella lettera diretta al medico Benedetto Micheli:

“Io, affermando che Cristo è morto interamente, voglio dire che lo spirito suo si è del tutto separato dal suo corpo non già che Cristo sia interamente abolito o annichilito. Né io né nessun altro mai potrà essere così empio da proferire una tale bestemmia né da insegnare che tanto il corpo quanto l'anima e la divinità di Cristo siano morti interamente.... Ma io non voglio accettare l'espressione morto come huomo', poiché la reputo impropria ed aliena dalla S. Scrittura. Infatti, che cosa è l'uomo, se non una composizione di anima e di corpo, di due parti insomma, delle quali una è immortale e l'altra mortale ? Cristo, essendo vero Dio e vero uomo, dovrà perciò constare di divinità, di anima e di corpo. La prima non può perire, perché noi viviamo e ci moviamo in Dio, e morendo la divinità, ogni cosa si ridurrebbe nel nulla, ossia nel caos. Neppure possiamo dubitare della immortalità dell'anima, perché tutta la Scrittura e la dottrina di Cristo la comprovano: il corpo soltanto, come materia, perisce. Ne consegue che, se diciamo che Cristo è morto come uomo, essendo l'uomo composto di anima e di corpo, noi facciamo perire in Cristo anche l'anima immortale: il che è assurdo ».

Da questi pochi pssi, che abbiamo riferiti, come da parecchi altri, che ancora si potrebbero addurre a sostegno di quelli, ci pare logico dedurre che il contrasto fra l'Alciati e Calvino nel primo periodo della sua vita non fu tanto un contrasto sostanziale di dottrina quanto un contrasto formale di termini e di parole: più una protesta contro il rigoroso assolutismo teologico di Calvino che una effettiva deviazione dalle sue dottrine.

Il distacco poté accentuarsi negli anni seguenti durante il soggiorno dell'Alciati in Transilvania ed in Polonia, a causa dei frequenti contatti col Biandrata, col Gentili e coi combattivi nuclei sociniani ed antitrinitari di quelle nazioni, sebbene anche allora, accostandosi alle dottrine antitrinitarie, egli abbia conservato una sua peculiare indipendenza di giudizio, dissentendo apertamente dal Gentili, che della Trinità faceva tre divinità distinte, e ponendo al di sopra del giudizio umano quello inappellabile di Dio, supremo ed infallibile giudice della coscienza e del pensiero degli uomini.

Della sua intima pietà e del suo anelito alla santificazione cristiana sono prova eloquente queste parole, che si leggono nella lettera al Micheli:

“Confesso bene che in me non è quella ardente carità che il mio Signor da me ricerca e che ancor non sono passato tanto avanti nel cristianesimo, né hovvici tanto fruttificato, ch' io misuri al medesimo peso e bilancia di amore il prossimo mio ch'io peso me medesimo e me ne doglio e prego il Padre Celeste per Cristo, che col fuoco del suo santissimo spirito m' infiammi, sì ch'io a tanta perfezione possa pervenire e questo più per la sua gloria e per l'edificazione del mio prossimo che mosso per conto dei miei interessi. Ma perché io mi sento molto lontano da questa cima, strascinandomivi ben tardo e freddo ed anelando, dico ed in verità testifico, che in me sono di molte imperfezioni, infermità e corruzioni, ond' io prego Iddio che me purghi e pregone voi e vorrei che pregati ne fossero tutti gli eletti di Dio a pregar d. M. D. ardentemente per me, acciò ch'io fossi sempre reso più conforme all'immagine dell' Unigenito Figliuolo. Amen. Ma io mi consolo, perché io mi confido che tutte queste cose non mi saranno un pelo imputate dal Padre mio celeste e ciò per Cristo, dacché esso l'ha fatto a noi suoi membri sapienza, giustizia, santificazione e redenzione. Ond' io ora me ne vo' al trono della grazia per ogni mio bisogno e dei suoi, certo che non solo è lo scrutatore dei cuori, al tempo suo rivelerà le cose occulte ed altrimenti giudicherà che gli uomini non fanno.... Intanto, raccomandandomivi di cuore ed alle pie vostre orazioni, prego il Padre Celeste che tutti in e per Cristo unisca perfettamente a sé col dolcissimo e invittissimo vincolo del suo Spirito Santo, in una fede non finta, in una carità non simulata, acciocché ancor peregrinando in terra in questo carcere mortale, col cuore e con lo spirito, conversiamo non di meno lassù in cielo, dove è il nostro capo sedente alla paterna destra affinché, vuoti di noi medesimi e pieni di sé, portiamo e glorifichiamo Iddio nel corpo e nello spirito nostro, che sono doppiamente suoi, in detti, in fatti, giustamente e santamente vivendo. Amen. Amen. Amen ».

Più noto dell'Alciati è l'altro antitrinitario saluzzese, Giorgio Biandrata (Biandrate, Blandrata, Biandrà). Nacque a Saluzzo nel 1515 da nobile famiglia, terzogenito di Bernardino, castellano di Sant-Front. Compì gli studi di medicina a Montpellier, conseguendo la laurea a soli 18 anni, nel 1533. Di là passò all'università di Pavia. La tradizione narra ch'egli negli anni seguenti si recasse in Polonia, dove avrebbe, come medico e come ambasciatore, favorito il matrimonio di Isabella, regina di Polonia, con il vecchio Giovanni Zapoylin, Voivoda di Transilvania. Nel 1552, tornato in Italia, soggiornò a Mestre ed a Pavia, donde fu costretto a fuggire, perché caduto in sospetto del S. Offizio per le sue dottrine riformate o anabattiste.

Riparò allora a Ginevra (1557), dove non tardò a rivelare segni evidenti delle sue idee antitrinitarie. Resosi importuno prima al ministro della Chiesa Italiana, Lorenzo Ragnoni, poi a Calvino stesso ed alla Signoria, per le sue interrogazioni insidiose ed astruse e per la cocciutaggine nel replicare, dopo essersi dichiarato convinto, il saluzzese temette per la sua incolumità e preferì abbandonare la città, seguito a pochi giorni di distanza dall'Alciati e dal Tellio. Riparò dapprima a Farges, presso il Gribaldi, poi a Zurigo ed a Basilea, suscitando con le sue dottrine dispute e sospetti. Alla fine, vistosi seguito dall'occhio vigile del Riformatore, instancabile nel denunciare agli amici gli oppositori più accaniti delle sue dottrine, il Biangiunse sulla fine del 1558.

Qui, senza smascherare apertamente il suo recondito pensiero sulla Trinità e sulla doppia natura di Cristo, egli riuscì a poco a poco a guadagnare alle sue dottrine numerosi ed autorevoli riformati della Polonia, nonostante che Calvino non cessasse di denunciarlo alle congreghe riformate polacche come sospetto e pericoloso. La popolarità e l'autorità del Biandrata, assecondata dal dotto Lismanini, crebbe in breve a tal punto ch'egli fu eletto tra i seniori e come tale ebbe parte notevole alle discussioni dommatiche, che si tennero nella Sinodo di Pinczow (1560) e, due anni dopo, in quello di Ksiaz (1562), dove, rotto ogni riserbo, osò proporre e fare approvare una confessione di fede, che rispecchiava il suo intimo pensiero [24].

In essa il Biandrata esplicitamente affermava: 1º la preminenza del Padre (« dal quale sono tutte le cose, il quale è in tutte le cose e sopra tutte le cose, il solo sapiente, immortale, invisibile») sopra il Figlio («per il quale tutte le cose furono fatte, e che viene dopo il Padre »); 2° la natura esclusivamente umana di Cristo, concepito non come seconda persona della Trinità, né come verbo eterno, ma come figlio di Maria Vergine e Messia; 3° la sdeificazione dello Spirito Santo, che non è Dio, né persona, ma lo spirito di Dio Padre partecipato nella sua pienezza da Cristo e limitatamente dai rigenerati.

Con queste definizioni il Biandrata ripudiava tutta la fraseologia fratesca di un Dio trinitario e tutte le voci della terminologia scolastica, che, come profane ed umane, non rispondevano, secondo lui, alla genuina dottrina della S. Scrittura.

Frattanto arrivavano in Polonia l'Alciati, il Gentili ed altri profughi da Ginevra e dall' Italia, per opera dei quali le idee antitrinitarie fecero nuovi progressi in molte città della Polonia, accrescendo il prestigio del Biandrata. Ma nel 1563, il saluzzese, sollecitato da Giovanni Sigismondo, passava alla Corte di Transilvania, dove assecondò efficacemente il re nel tentativo di procurare la pacifica coesistenza delle tre fedi: cattolica, luterana e calvinista. L'insolita tolleranza gli permise di diffondere, prima clandestinamente, poi apertamente le sue particolari dottrine sulla Trinità e di pubblicare un famoso libello intitolato: De falsa et vera unius Dei Patris, Filii et Spiritus Sancti cognitione (Alba Julia, a. 1567). In esso l'autore faceva l'esaltazione della dottrina unitaria ed antitrinitaria e, per la prima volta, si sforzava di darle un saldo fondamento storico e teologico.

Il Biandrata insegna che l'Anticristo, non riuscendo a soffocare la genuina dottrina dei Libri Sacri, invento, sotto l'influsso della filosofia greca ed orientale, la dottrina della Trinità, delle due nature e di una sola persona in Cristo, dei Sacramenti e dei mediatori umani, turbando la concordia della chiesa primitiva e facendo sì che dal cristianesimo si staccasse, da un lato, il maomettismo e, dall'altro, l'ebraismo e che su questi dogmi si imperniassero le più fiere dispute e persecuzioni scatenate con cieca ostinazione dai dottori della Sorbona e dagli Scolastici. I riformatori protestanti: Lutero, Zvinglio, Bucero, Ecolampadio, Melantone, Pietro Martire, Ochino ed altri furono esploratori benemeriti e restauratori della pura dottrina di Cristo e degli Apostoli, liberando gradatamente la dottrina cristiana dalle molte scorie ed invenzioni umane, che vi si erano introdotte nel corso dei secoli.

Ma, spaventati da re, da papi, da Concili e da inquisizioni, arrestarono a metà la loro opera risanatrice e sviarono l'ispirazione divina in vane dispute ed in lotte intestine, logorandosi a vicenda. Ciò che i riformatori protestanti non poterono o non seppero fare, fanno ora gli unitari, liberando arditamente la dottrina cristiana da tutte quelle deviazioni, aggiunte ed invenzioni umane, le quali non sono basate sulla S. Scrittura, e denunciando tutti i teologi, che, atteggiandosi ad aristarchi, impediscono la continuazione della vera riforma.

Sorretto dalla tolleranza del re, il Biandrata, con dispute e con scritti [25], non solo diffuse più apertamente ed efficacemente le sue dottrine, ma poté gradualmente passare a concezioni sempre più ardite, abbandonando il larvato triteismo, che fino allora aveva professato, per un più aperto unitarismo [26]. Le dispute solenni tenute ad Alba Julia negli anni 1568 e 1569 tra i riformati, difesi dal Melius, e gli antitrinitari, rappresentati dal Biandrata e da Francesco David - un focoso ministro riformato, che il Saluzzese aveva guadagnato alla sua causa consacrarono il trionfo delle dottrine antitrinitarie ed unitarie. La conseguenza fu che nel 1571, alla dieta di Maros Vasarheli, il re decretò nel regno la perfetta uguaglianza delle tre confessioni: luterana, riformata ed unitaria, includendo questo riconoscimento tra le leggi fondamentali del regno e facendo obbligo ai suoi successori di prestarvi giuramento.

Ma il trionfo dell'unitarismo in Transilvania fu assai breve. Morto Giov. Sigismondo, il successore Stefano Bathori non si attenne al giuramento e cominciò ad infierire contro gli unitari. Il Biandrata poté conservare parte del suo prestigio, servendo la Corte come archiatra e come abile ambasciatore ed intanto favorire di nascosto i fautori delle sue dottrine. Ma le condizioni degli unitari peggiorarono, quando salì al trono di Transilvania Cristoforo Bathori, fratello di Stefano, ed i Gesuiti ebbero libero accesso nel regno (1579). Il Biandrata vide il pericolo, che incombeva su di lui e, pur mantenendo intatte le sue dottrine contro gli assalti dei Padri Gesuiti, si chiuse in un prudente riserbo, mentre il suo collega, Francesco David, che intemperante, dalla negazione della divinità di Cristo era passato, di deduzione in deduzione, all'affermazione della illegittimità del culto, della preghiera e degli onori divini fino allora tributati al Cristo, veniva tratto in arresto e condannato, come pericoloso novatore, al carcere perpetuo nel castello di Deva (15 nov. 1579), dove mori. La sua morte gettò un'ombra di diffidenza sul Biandrata, che gli unitari fecero in parte responsabile della condanna del David ed accusarono di simulazione e di contraddizione, notando un aperto contrasto fra le sue dottrine personali e quelle della chiesa, ch'egli aveva contribuito a fondare ed a consolidare.

Abbandonato da gran parte dei suoi seguaci, il Biandrata morì, quasi in solitudine, nel 1588. Si sparse la voce ch'egli fosse morto strangolato da un nipote, che nei suoi ultimi anni aveva chiamato presso di sé e che temeva che le sostanze dello zio passassero nelle mani dei Gesuiti, intenti a circuirlo con le loro arti sottili.

Il Cantimori, nel suo recente Profilo, così compendia l' influsso dell'opera e delle dottrine del Saluzzese [27]:

«Le sue dottrine, anzi le dottrine sociniane, nella forma radicale o politico-sociale, che egli aveva loro conferito, non si diffusero come tali: ma la chiesa da lui organizzata, consolidata, sostenuta e difesa con tutti i mezzi dell'arte politica come allora s' insegnava, continuò fra persecuzioni e tormenti, la sua vita e dura anche oggi, con un numero notevole di fedeli, col suo Vescovo e coi suoi ministri, per le valli transilvane: mentre il movimento unitario, che da lui prende partenza, ha chiese in America e in Inghilterra».

Col nome di «Nicodemiti » furono chiamati nel sec. XVI tutti coloro, che intellettualmente persuasi della verità delle dottrine riformate e della bontà dei principi morali proclamati dai Riformatori, o solleciti del rinnovamento della Chiesa e del ritorno ad una più pura e genuina professione di fede cristiana, non ebbero sempre una vita pratica conforme alle loro aspirazioni interiori. Come Nicodemo, per timore dei farisei e dei sadducei, venne di notte a cercare l'insegnamento di Cristo, così anch'essi, nel momento del pericolo e della persecuzione, non ebbero sempre il coraggio di manifestare in piena luce la loro fede e di trarre da essa una logica regola di vita esteriore; ma, ripiegando su se stessi, si nascosero e si trincerarono sotto le manifestazioni esteriori della chiesa dominante, quasi a far perdere le tracce del loro ardito pensiero novatore nell'acquiescente uniformità della massa dei fedeli.

Adducevano a loro discolpa varie ragioni: che il proclamare apertamente i principi della Riforma era più dannoso che utile ai fini del suo trionfo, perché il popolo, abituato per lunga tradizione a speciali credenze, a riti solenni e a sontuose coreografie, e non sufficientemente istruito né avvezzo a personali d'un tratto di rompere introspezioni spirituali, non era capace la vecchia tradizione religiosa per accettare, con cosciente indipendenza di giudizio, le nuove concezioni dogmatiche e morali: che, per conseguenza, bisognava staccarnelo a poco a poco, senza urti violenti, contentandosi d'insinuare il lievito, che a suo tempo avrebbe fatto levare la pasta e portato i frutti desiderati. Aggiungevano che la professione aperta della fede riformata, la condanna pubblica degli abusi e delle deviazioni della chiesa romana non servivano ad altro che a trarre sui nuovi fedeli le vendette del S. Offizio e le persecuzioni civili, le quali disperdevano le chiese sul loro nascere, spingevano i pavidi al rinnegamento ed i migliori al bando, al carcere ed al rogo, arrestando gli ulteriori progressi della Riforma: mentre una condotta circospetta, che non apparisse esteriormente eretica, ma che in pari tempo permettesse di appagare le esigenze interiori della propria coscienza e di ravvivarle in altri, sarebbe servita assai più ed assai meglio al sicuro trionfo della nuova fede.

Di qui il principio che fosse lecito ai fedeli, in attesa di tempi migliori, nascondere esteriormente la propria fede nel momento della persecuzione ed assistere perfino alla Messa e ad altre cerimonie precettate della chiesa cattolica, purché la presenza fosse esclusivamente corporale, senza adesione né della mente né del cuore.

Gli antichi storici valdesi, parlando dei «Nicodemiti», che furono numerosi in Piemonte verso la metà del secolo, pongono, per così dire, la culla di questa corrente nel Marchesato di Saluzzo e ne precisano anche i fondatori o divulgatori.

Ma la corrente nicodemita, che ingrosserà a mano a mano che i principi della Riforma incontreranno favore tra il popolo e che le persecuzioni si faranno più frequenti e più violente, ha radici ben più antiche. Senza voler risalire ai secoli precedenti il che ci porterebbe oltre i limiti del nostro studio

- possiamo dire che si vedono i segni palesi della sua presenza nelle comunità valdesi sopravviventi in Piemonte nei primi decenni del Cinquecento.

Già abbiamo ricordato come durante la persecuzione di Margherita di Foix parecchi Valdesi di Val Paesana fossero arrestati, mentre in chiesa cattolica assistevano alla Messa od alla predica, e come le loro dottrine conservassero qualche tinta cattolica nel dogma dell'eucaristia. Sappiamo che nello stesso tempo altri gruppi valdesi, pur riconoscendo ai loro barbi una preminente autorità nel ricevere la confessione, erano soliti, almeno una volta all'anno, confessarsi al curato del luogo ed assistere di quando in quando alla Messa, pur disapprovandola e condannandola come contraria all'insegnamento di Cristo 28.

Contro questo nicodemismo valdese, anteriore alla Sinodo di Cianforan (1532), ha aspre parole di rimprovero il celebre Ecolampadio, nella lettera, già ricordata, con la quale chiarisce i dubbi ed i quesiti sottopostigli dai ministri valdesi Masson e Morel [29].

Dopo aver ammonito che chi si vergogna di confessare Cristo davanti al mondo, non sarà a sua volta riconosciuto dal Padre Celeste e che Dio, essendo verità, vuole essere servito senza finzione e senza restrizione, mostra ai Valdesi che essi, quando per timore delle persecuzioni si comunicano in chiesa cattolica e partecipano alla Messa, si rendono solidali « con gli empi» e bestemmiano la morte e la passione di Cristo: e che, quando dicono «amen » alle preghiere del prete, rinnegano praticamente la dottrina di Cristo. Perciò li esorta ad essere fermi nella loro fede, perché si deve avere maggior timore di chi può mandare all'inferno l'anima ed il corpo che non di colui che solo può uccidere il corpo.

Una spiccata tendenza nicodemita appare anche nelle lettere già ricordate [30] del prete Pietro Buschetto al riformatore Calvino e nell' ibrida prassi religiosa da lui attuata per cercare di conciliare i più intimi sentimenti della sua coscienza, fondamentalmente riformata, con la necessità di uniformarsi esteriormente alle manifestazioni più appariscenti del culto cattolico (1549).

Dieci anni dopo denunciava la stessa incongruenza tra fede interiore e fede pratica il medico Alosiano di Busca nella sua lettera ai Principi tedeschi [31], quando scriveva: «E ben possiamo promettervi riguardo a questa provincia, che, se non fosse il pericolo di persecuzione, quasi tutti accetterebbero e professerebbero la Parola di Dio, fra i quali moltissimi sono che per ignoranza e per tema di errare, incapaci di giudicare, non sanno da che parte voltarsi ; e non osano abbracciare la vera religione di Cristo, finché sia altrimenti provveduto e stabilito da un concilio generale così turbati e dubbiosi dei cristiani ».

Queste ed altre analoghe tendenze nicodemite, dapprima sparse, disorganizzate e saltuarie, presero maggiore consistenza e quasi forma di organizzazione religiosa verso la seconda metà del secolo, quando trovarono aperti sostenitori in alcuni autorevoli riformati o semiriformati ed ebbero una più precisa esposizione di programma in alcuni trattatelli, che provocarono una forte reazione da parte dei ministri riformati della corrente ortodossa o calvinista [32].

Come patrocinatori ed organizzatori della prassi nicodemita si citano: un prete, Domenico Baronio, ed un membro stesso della famiglia marchionale, Massimiliano dei Saluzzi, dei signori di Valgrana e Montemalo, quello stesso che ospitò nel suo castello il Varaglia in occasione della disputa col frate Malerba (1558) e che alcuni anni più tardi (1567) vi accoglierà un'assemblea di ministri riformati.

Del Baronio sappiamo soltanto quello che ne dice lo storico valdese Pietro Gilles, il quale afferma che egli fu fiorentino di nazione, gran predicatore, più tardi parroco di Valgrana, nel Marchesato di Saluzzo. Scrisse vari trattati in italiano ed in latino a difesa e ad esaltazione della corrente nicodemita, alcuni sotto nome proprio, altri sotto il nome di Massimiliano di Saluzzo, il quale, per quei tempi, godeva fama di letterato. Ma nessuno dei suoi scritti sembra aver vinto l'oblio dei secoli od essere sfuggito alla furia distruggitrice del S. Offizio.

L'opera sua più importante avrebbe avuto per titolo: Costituzioni Umane. Ce ne tramandò alcune pagine il Gilles nella sua storia sui Valdesi. La veemenza, con la quale il Baronio assale alcune dottrine e pratiche del culto cattolico, o svela l'avarizia, l'idolatria, l'ipocrisia, la simonia e l'immoralità di buona parte del clero, non la cede per nulla alle più accese diatribe degli eretici militanti di quel secolo. Al quadro radioso della chiesa primitiva, umile e povera, ma tutta pervasa dello spirito di carità e di santità, piamente raccolta nella meditazione del Vangelo, nella preghiera, nel canto dei Salmi o nella celebrazione della Cena secondo il rito insegnato da Cristo, il Baronio contrappone il triste quadro della chiesa del suo tempo, dove regnano l'empietà, l'idolatria, il sacrilegio, la superstizione, la simonia e l'avarizia, dove non si predica più, dove non si odono più salutari parole di fede, dove la Scrittura si legge in una lingua sconosciuta, dove si cerca Cristo, Dio e Uomo, sotto le spoglie del vino e del pane, dove Lo si adora nell'ostia senza che vi sia, dove si fa mercimonio di messe per i defunti e per molti santi e molte sante contro il chiaro insegnamento di Cristo e degli Apostoli.

Con le Costituzioni Umane il Baronio si proponeva d' indicare ai fedeli quali pratiche e quali dottrine cattoliche dovessero essere conservate e quali rifiutate come contrarie alla dottrina dei Vangeli. Tra quelle condannate e da abolire il Baronio poneva esplicitamente l'istituzione della Messa, intorno alla quale ferveva con speciale furore la controversia tra i teologi protestanti e cattolici. Il nicodemita - afferma il Gilles condivideva quasi interamente le dottrine della Riforma: solo in alcuni punti di secondaria importanza rimaneva irresoluto o reticente e questi punti trattava nei suoi scritti con voluta ambiguità, in modo da non lasciar scorgere chiaramente il suo pensiero. Sapeva accomodarsi ai tempi: quando la chiesa riformata godeva di un po' di bonaccia, faceva meraviglie a scrivere e gridare contro gli abusi del Papato; ma in tempo di persecuzione usava ipocrisia e simulazione e persuadeva gli altri a fare lo stesso. Anzi poneva la simulazione quasi a sistema di vita, insegnando che ai riformati era lecito, in tempo d' intolleranza e di persecuzione, nascondere esteriormente la propria fede e vivere cattolicamente, partecipando alle cerimonie cattoliche, perfino alla Messa, ch'egli violentemente riprovava, purché nell' intimo dell'animo non aderissero alle idolatrie ed agli errori.

Ai ministri riformati, che come vedremo prendendo a pretesto la dispersione della vicina chiesa di Carignano, rimproveravano ai Nicodemiti la loro insincerità e la loro viltà, essi rispondevano che il martirio era più dannoso che utile, perché privava le congreghe riformate di molte anime elette, che, cessata la persecuzione, avrebbero potuto riprendere con frutto il loro apostolato: che i ministri dovevano accontentarsi d'istruire i loro seguaci in segreto e nell'intimo delle coscienze, insegnando a distinguere la zizzania dal grano, cioè la verità dall'errore, la pietà dall'empietà, la giustizia dall'ingiustizia: ma, quanto all'esterno « lasciare fare al Signore », cioè permettere che ognuno esteriormente si comportasse secondo che esigevano le sue particolari tendenze e necessità. Noi biasimiamo come voi - scriveva il Baronio ai ministri gli errori del papismo e desideriamo che siano corretti, ma bisogna anzitutto riformare se stessi nell'interno, cioè sapersi accomodare alle circostanze e non esporre se stessi né gli altri a pericoli inutili per volere troppo violentemente spezzare le tradizioni ricevute».

La condotta dei Nicodemiti poteva, sotto un certo aspetto, sembrare vantaggiosa alla conservazione ed alla propagazione della fede riformata, ma in realtà era ad essa estremamente dannosa. Impediva, infatti, negli animi la formazione di una fede salda, precisa, temprata ad ogni evento: lasciava sussistere nelle coscienze una duplice fede, buona l'una per il tempo di pace, utile l'altra per l'ora della persecuzione: creava un insanabile dissidio tra fede interiore e fede esteriore, mutevole questa ad ogni variare di eventi: ma soprattutto teneva aperta la via del ritorno all'antica fede, qualora la persecuzione da blanda ed intermittente, diventasse continua e violenta, costringendo gli animi ad una prolungata simulazione.

Contro i pericoli, ch'erano insiti nella predicazione e nella prassi nicodemita, insorsero parecchi ministri riformati, tra cui l'ex-frate napoletano Scipione Lentolo, l'ex legato apostolico Pietro Gelido, ministro di Acceglio, e Francesco Truchi di Centallo, ministro di Dronero, e, dalla lontana Ginevra, il riformatore italiano Celso Martinengo, ministro di quella congrega italiana.

Nessuna di queste specifiche confutazioni è giunta fino a noi: ma su quali argomenti e fondamenti si svolgesse la polemica da una parte e dall'altra, può far fede il piccolo trattatello, che il Lentolo [33] inseri nella sua Historia delle grandi e crudeli persecuzioni, più volte citata, e che fu pubblicata a parte dallo stesso editore della Historia sotto il titolo di Sofismi Mondani.

Il trattatello aveva nel testo originale un titolo assai più ampio, che ne compendia il contenuto e lo scopo: “Risposte secondo la pura et sola Parola di Dio alle false ragioni et obbiettioni, che fanno i prudenti et savi di questo mondo contra i veri fedeli, li quali temono Dio et sono da Lui fatti partecipi per sua bontà in G. Cristo della vera sapientia celeste, onde dispregiando tutte le cose di questo mondo, quando sono loro d'impedimento per servire puramente a Dio solo, attendono a glorificare la sua Maestà et procurare a tutto loro potere l'amplificatione del Reame di G. Cristo, il quale consiste in questo che, riconoscendo noi Iddio per nostro Padre et il Signor Giesù per nostro solo Redentore et Salvatore, viviamo tutti i giorni della nostra vita nella sua ubidienza a gloria sua et edificatione dei nostri prossimi”.

Il trattato è particolarmente diretto ai riformati della chiesa di Carignano 34, dove il Lentolo aveva predicato per qualche tempo, con grande edificazione di quei riformati. Venuta la persecuzione, quei fedeli, per non rinnegare la loro fede, avevano deciso di ritirarsi a Ginevra; ma poi, cedendo agli allettamenti dei beni, degli agi, della famiglia e della patria, avevano mutato il primo proponimento, abiurando o meglio fingendo un'abiura.

Le obiezioni accampate dai Nicodemiti sono nove ed altrettante le risposte. Ma a noi interessano soprattutto la 1ª, la 7 e l'8 a, che si possono compendiare nel modo seguente: Che bisogno c'è di fuggire e di abbandonare i propri beni e le proprie famiglie per separarci dal Papismo, se non siamo obbligati a rinnegare Gesù Cristo, come i tiranni antichi imponevano ai martiri della prima chiesa cristiana? Non siamo noi privi di umanità e peggiori delle belve, quando abbandoniamo padre, madre, sposa, fratelli, sorelle e figlioli, la patria ed i beni, che i nostri antenati o noi stessi abbiamo acquistato con tanta fatica? Che importa inginocchiarci alla Messa e fare quello che fanno gli altri cattolici, se nel nostro cuore siamo liberi di credere ciò che ci piace?

Alla prima obiezione il Lentolo risponde con una serrata documentazione biblica, citando gli insegnamenti di Cristo e degli Apostoli, ricordando gli esempi di fedeltà o d'infedeltà a Dio della storia ebraica, denunciando tutte le deviazioni morali e teologiche avvenute nella chiesa cattolica e dimostrando come sotto l'apparenza esteriore di cristianità la chiesa romana abbia introdotti tali errori ed abusi, che il vero cristiano non può più essere seguace di quella fede ed accettarne i dogmi, senza con ciò rinnegare Cristo stesso.

Alla seconda obiezione il Lentolo risponde che anche i riformati, secondo il comandamento di Cristo e degli Apostoli, insegnano ad amare e ad onorare padre, madre, marito, moglie e figlioli, ma avverte che «quando si tratta o di abandonar queste cose o di dishonorar Dio nostro Padre, rinegare G. Cristo nostro Signore et così far cosa la qual sia contra la salute dell'anima nostra, ubbidiamo alle Sacre Scritture, le quali non solo comandano che le abbandoniamo, ma che le habbiamo in odio, amando Dio sopra tutte l'altre cose, altramente che non possiamo essere veri discepoli di G. Cristo et degni di lui». Quanto alla terza obiezione, che legittimava la simulazione e la corporale partecipazione alla Messa, il Lentolo, dopo aver lamentato che la Messa non corrisponde all'ordinazione di Cristo e che di essa si fa spesso un turpe mercato, così conclude: Quanto poi a quel bel consiglio che ci dite, noi di credere nel nostro cuore quel che vogliamo, purché in apparenza facciamo come fan gli altri, egli è contrario alla dottrina di S. Paolo, il quale dice: 'Col cuore si crede alla giustitia et con la bocca si fa confessione alla salute'. Et David dice: 'Io credei, onde ho parlato. Et Nostro Signore dice: 'Chiunque confesserà me alla presenza degli huomini, io confesserò lui nel cospetto di mio Padre, il quale è nei Cieli: si come all' incontro chi negherà me dinanzi agli huomini, io negherò lui dinanzi al Padre mio'. Di qui si vede che bisogna essere christiani palesemente et non in occulto. Et quando ciò si potesse fare, non sarebbe grande l'errore di quei tre giovinetti Hebrei, li quali volsero più tosto esser gittati nella fornace ardentissima che inginocchiarsi davanti alla statua di Nabucadnezaro? Haverebbono parimente molto errato i S. Apostoli et i S. Martiri. Ma in questo vostro argomento voi dimostrate apertamente che neanche voi credete gran fatto della vostra Messa, onde non sete interamente né della nostra né della vostra Religione et Athei, cioè senza Dio. Percioché, se fosse altramente, Voi ci direste che noi dovessimo adorare il vostro idolo non solamente col gesto del corpo, ma anchora et molto più con la devotione del cuore».

A detta del Gilles, le fiere rimostranze dei ministri riformati e dei riformatori transalpini avrebbero finito col richiamare il Baronio ad una più coraggiosa e sincera professione della propria fede. Staccandosi sempre più risolutamente dalla chiesa cattolica, egli si sarebbe fatto promotore, come il Buschetto, di una originale forma di culto, innestando, per così dire, sul tradizionale apparato esterno del culto cattolico lo spirito nuovo della Riforma, sostituendo alla lingua latina, incompresa dai più, la lingua volgare e modificando profondamente l'atto della Messa, in modo che anche i riformati vi potessero assistere senza essere turbati nelle loro coscienze.

Non sappiamo quale esito e quale durata abbia avuto questa riforma ideata dal Baronio.

La persecuzione religiosa imminente doveva mettere presto alla prova la consistenza della fede dei Nicodemiti, operando una salutare discriminazione dentro le loro file. I più convinti e sinceri si dichiararono apertamente per la Riforma e ne accettarono i rischi e le pene od emigrarono in terra protestante, come il Buschetto già ricordato: i più tiepidi ed irresoluti, di simulazione in simulazione, ripiombarono in grembo alla chiesa, dalla quale non si erano mai interamente separati, oppure vissero in uno stato di apatia e di miscredenza religiosa.

È naturale che le defezioni avvenissero di preferenza nella classe più nobile e ricca, anziché nella massa del popolo minuto ed artigiano. Quella, infatti, come prima con la simulazione, così in seguito con l'abiura, cercò di conservare la propria potenza e le proprie ricchezze: questo, invece, più generoso nei suoi impeti e meno irretito dagli agi e dai beni materiali, osò spesso affrontare violenze e persecuzioni, finché, sopraffatto da forze superiori, non fu costretto esso pure all'abiura o al bando perpetuo.

A partire dalla metà del secolo i rapporti delle congreghe riformate del Marchesato si fanno sempre più intimi e frequenti con le chiese ginevrine, dove sta affermandosi l'opera ed il prestigio del grande riformatore Giov. Calvino. Parecchi riformati saluzzesi vi compiono viaggi saltuari allo scopo d'istruirsi nelle nuove dottrine o di rifornirsi di libri e di trattati religiosi, che al loro ritorno disseminano nella cerchia dei parenti e degli amici; altri, specialmente a cominciare dal 1555, vi pongono più o meno stabile dimora, per sfuggire alle persecuzioni, che cominciano ad infierire in patria, ma senza spezzare i vincoli con la terra nativa né desistere dal loro proselitismo; altri infine vi si recheranno per ragioni di lavoro e di commercio [35].

Quando poi Calvino, in sostituzione del famoso « Collège de la Rive, che tanti missionari della Riforma aveva dato alla Francia ed all' Italia, fonderà la sua gloriosa Accademia, saranno tra i primi ad accorrere [36] Francesco Guarino (o Guerino) di Dronero, e Francesco Galatero (o Galatea) di Benevagienna (1558-1559), i quali pochi anni dopo ritroveremo ministri nel Marchesato.

Ma le relazioni tra le congreghe riformate saluzzesi e la chiesa ginevrina diventeranno anche più intense nei decenni seguenti, quando gli sviluppi del moto riformato nel Marchesato obbligherà le piccole chiese a rivolgersi a Ginevra per le loro necessità spirituali, per risolvere i loro dubbi, per richiedere un ministro od un catechista sperimentato e di lingua italiana, o per dare una più salda organizzazione ecclesiastica ai loro fedeli. Quasi tutti i ministri riformati, che saranno all'opera nel Marchesato, avranno prima fatto un più o meno lungo soggiorno nella città di Ginevra ed in quella Accademia avranno perfezionato le loro dottrine religiose, venendo a contatto col grande riformatore Calvino o col suo successore Teodoro di Beza. Da Ginevra affluirà allora gran copia di Catechismi, di Bibbie, di commentari biblici, di raccolte di Salmi e di cantici, di trattati di controversia e di polemica, opere di riformatori italiani e stranieri: e dalle Ordonnances ecclésiastiques di Calvino prenderanno norma gli ordinamenti ecclesiastici delle chiese riformate del Piemonte e del Marchesato [37].

È naturale quindi che, per tutti questi intensi rapporti con Ginevra, con Calvino e coi suoi discepoli, la dottrina delle congreghe del Marchesato di Saluzzo e la loro disciplina ecclesiastica, a partire dalla seconda metà del secolo e fino alla totale estinzione del moto riformato, siano d'ispirazione prettamente ginevrina e calvinista.

Come esponenti principali di questa corrente, al tempo della dominazione francese, possiamo citare: Gioffredo Varaglia e Francesco Truchi, i cui scritti, a noi pervenuti, ci permettono di conoscere quali fossero gli argomenti ed i dogmi prescelti dai ministri riformati nella loro predicazione e nella loro polemica con gli avversari cattolici.

Nella celebre disputa già ricordata col frate zoccolante Angelo Malerba, il Varaglia stesso ci dichiara che furono trattati prevalentemente questi temi: la giustificazione per la fede, non per le opere; la teoria della grazia di Dio in contrapposizione a quella dei meriti e delle opere umane; il valore delle indulgenze, la natura ed il significato della Messa.

Quale fosse l'esatto pensiero del martire su ciascuno di questi punti possiamo chiaramente vedere nelle risposte e nelle giustificazioni, ch'egli diede ai giudici civili ed ecclesiastici durante i frequenti interrogatori, ai quali fu sottoposto prima del martirio [38].

Sul primo punto così si esprime: “Io ho predicato l'epistola di S. Paolo ai Galati e la ra epistola di S. Pietro et ho dimostrato conforme alla dottrina contenuta in quelle epistole che per la sola fede nella promessa misericordia per la morte del Signor Giesù, habbiamo la rimession dei peccati e ci è imputata giustizia et santità di G. Cristo: onde ne segue la mortificazione della nostra carne e la vivificatione dello Spirito, nelle quali cose consiste la nostra rigeneratione spirituale, la quale è insperabilmente congiunta con la giustificatione”.

“.... Ho poi insegnato delle buone opere che nessuna di quelle può essere cagione della rimession de' peccati, per I' imperfettion che hanno congiunta, quantunque siano frutti della giustitia della viva fede, dalla quale non si possono separar in conto alcuno. E perciò non laudo coloro li quali dicono la sola fede giustificarci, senza far mentione alcuna delle buone opere: si come ancora condanno quelli, i quali non possono sentir parlare della fede, ma vogliono che sempre si parli delle opere, come quelle fossero cagioni della giustificatione e salute nostra”.

Riguardo ai meriti umani così insegna:

“Quanto poi ai meriti umani, ho sempre insegnato che non bisognava esser curiosi della rinunciatione delle nostre buone opere, le quali sono dono di Dio, essendo più che certi che saremo rimunerati oltre ogni nostra dignità, ma che dobbiamo attendere a servire a Dio, come ci ha comandato, sempre humiliandoci a Lui, riputandoci nulla et servi inutili, li quali, se facciamo qualche bene, siamo tenuti di farlo et è Iddio che l'opera in noi oltre che dal canto nostro sempre c'è dell'imperfettione. E per questa cagione io non approvava Scoto né Bonaventura, che si sono imaginati il merito del congruo, del degno e del condegno, ma molto più riprovava i meriti di superogatione dei frati, monaci et altri otiosi e superstitiosi, li quali, accompagnati con quei di G. Christo, possino sodisfare per li vivi e per li morti, essendo loro applicati per le Bolle del Papa”.

Riguardo poi alle indulgenze:

“Di più, dell' indulgentie, che chiamano, ho insegnato che per lo passato erano perdoni o rilasciamenti delle pubbliche sodisfattioni delle pene imposte dalla Chiesa a quelli che pubblicamente haveano peccato. Le quali sodisfattioni o pene dai Patriarchi o Metropolitani o da Vescovi erano rimesse o commutate o in tutto o in parte secondo si conoscea essere espediente, del che se ne facea fede per iscritto, acciocché colui al quale tai pene erano rimesse o mutate potesse far apparir della verità. E perciò ho biasimato e biasimo che il papa si habbia usurpata l'autorità per lo mezo delle Bolle, che chiamano, di conferir l'indulgentia plenaria di colpa e di pene per li vivi e per li morti. Perciò che quanto ai morti hanno finito il corso loro, né gli huomini ne hanno a giudicar più, essendo nelle mani di Dio, et havendone Iddio a giudicare: e, quanto ai vivi, la Scrittura insegna che la remissione de' peccati si consegue solamente per la fede in G. Christo, morto et offerto in sacrificio su la Croce per li nostri peccati».

Infine riguardo alla Messa: “Ho insegnato e ne tengo che ella sia una nefanda idolatria et orribile profanatione della S. Cena del Signore, et ho minutamente dimostrato quante cose empie si commettono in quella et affatto contrarie alla Parola et ordination del Signore. Le quali sono che nelle orationi della Messa si prega Dio che si degni perdonarci i peccati e soccorrerci per li meriti dei Santi contra i meriti della morte e passione del Signor G. Chiristo...: che nella Messa si adora il pane e il vino in luogo di Christo contra la parola di Dio, nella quale non si fa mentione alcuna di ciò...; che nella Messa si crede che il vero corpo di G. Christo realmente e corporalmente sia tutto in mille ostie et altari, il che ripugna alla verità del corpo di G. Christo...; che nella Messa è offerto Christo a Dio in sacrificio propitiatorio, cioè che cancella del tutto la colpa e pena dei nostri peccati e libera della morte eterna, contra tutta l'epistola agli Ebrei, nella quale ci è dimostrato questo essere stato fatto appieno una sol volta dal Signor Nostro G. Christo morendo per noi sulla croce”.

Accanto a questi temi, che più frequentemente ricorrono negli atti del processo e vi hanno più ampio sviluppo, non sono meno arditamente dichiarati gli altri dogmi e gli altri principi caratteristici della Riforma, quali: l'autorità suprema ed unica della Sacra Scrittura, la predestinazione, il libero esame, la libera predicazione, la necessità della nuova nascita, la fede personale, la comunione con Dio senza intermediari umani ecc. Sono riprovati, come invenzioni umane, contrarie allo spirito del Vangelo: il Purgatorio, la confessione auricolare, il culto della Vergine, dei Santi e dei trapassati, l'adorazione delle statue, delle immagini e delle reliquie, l'autorità dei papi e dei Concili. Con vivi colori al quadro luminoso della primitiva chiesa cristiana, fondata sull'insegnamento e sulla umiltà di Cristo e degli Apostoli, è contrapposto quello assai tetro di una chiesa e di un clero in gran parte spiritualmente corrotto e mondanizzato.

Di poco posteriori alle testimonianze dommatiche del Varaglia sono le professioni di fede del ministro Francesco Truchi.

Poco sappiamo della sua vita. Nacque a Centallo, probabilmente nel quarto decennio del secolo, da famiglia cattolica e nella religione cattolica crebbe e fu istruito. Abbracciò la carriera ecclesiastica, acquistando una profonda conoscenza della patristica e della scolastica; ma non sappiamo se militasse in qualche Ordine monastico o nel clero secolare. Venuto a contatto con le dottrine riformate, si sentì così fortemente turbato nella sua coscienza, che abbandonò la chiesa e la fede romana per fuggire a Ginevra e consacrarsi ad un ardente apostolato a favore della Riforma. Lo troviamo infatti iscritto sui registri degli abitanti di quella città alla data dell'8 maggio 1559. Nel 1563 era già di ritorno in Piemonte, intento come vedremo - ad organizzare la chiesa riformata di Valgrana, nel Marchesato di Saluzzo, poi quella di Angrogna, in Val Luserna. Negli anni successivi passò alla direzione della fiorente congregazione riformata di Dronero, dove la sua presenza ci è attestata dagli Atti delle Sinodi riformate del Marchesato (2 giugno 1567). Come già abbiamo ricordato, fu uno dei ministri più zelanti nel controbattere, con la parola e con gli scritti, le concezioni deleterie della corrente nicodemita. Sorpreso nello stesso anno 1567 a predicare contro i divieti del Nevers e del Birago, il Truchi fu chiuso nei sotterranei del castello di Saluzzo, dove, insieme con un altro ministro, Francesco Solfo, di Cuneo, sopportò una dura prigionia fino al marzo del 1572.

Dopo la liberazione si trasferì nelle Valli Valdesi. Qui esercitò un lungo ministero (1572-1593) nella parrocchia di San Giovanni, in Val Luserna, sostenendo con successo, grazie alla sua profonda cultura biblica e patristica, numerose dispute con i Missionari cattolici e soprattutto col P. Gesuita G. B. Vanini. Morì di epidemia nel 1593 [39].

Del Truchi ci rimangono manoscritti due importanti documenti [40], che si possono definire i suoi testamenti spirituali, perché attestano la profonda convinzione della fede e l'ardore del suo zelo di apostolato. Il primo, il più importante, è la sua personale professione di fede; il secondo è una lettera dottrinale e polemica indirizzata ad una nobildonna piemontese, della quale è taciuto il nome.

Data la loro importanza ed il silenzio, che sin qui ha regnato intorno ad essi, crediamo opportuno tracciarne un adeguato compendio.

La professione di fede, in latino [41], fu scritta nel carcere stesso di Saluzzo verso i primi di maggio dell'anno 1568, dopo un anno di prigionia, ed è indirizzata al governatore stesso del Marchesato, Ludovico Birago. Si può dividere in quattro parti:

La prima è un «Argumentum Apologeticum», specie di esordio, nel quale l'autore spiega al governatore la ragione della sua professione di fede, espone i motivi del suo passaggio dalla chiesa romana a quella riformata e ribatte le accuse, che gli avversari papisti erano soliti lanciare contro tutti coloro, che abbandonavano la fede e la gerarchia cattolica.

Dopo aver dichiarato che la sua conversione fu determinata dal confronto delle dottrine e delle istituzioni della chiesa cattolica con la vita e con l'insegnamento di Cristo e degli Apostoli e dal riconoscimento fermo e palese che più nessuna somiglianza poteva rintracciarsi tra la chiesa romana attuale e quella apostolica o antica, il Truchi lamenta che gli avversari lancino contro di lui e contro i suoi seguaci la taccia di eresia e di nuova religione, ch'egli energicamente respinge. Adducendo le dichiarazioni dei Padri della Chiesa - Sant'Agostino, Ireneo e Tertulliano i quali definirono eretici solo coloro che per vanagloria, per vantaggi temporali, per cupidigia di dominio o di preminenza, si abbandonarono ad errori ed a falsi dogmi, il Truchi dimostra come nessuna di queste ragioni lo abbia spinto all'abbandono della fede cattolica: non motivi di gloria, perché egli, al pari di tutti gli altri riformati, sa di non avere nessun motivo di gloriarsi e tutto aspetta unicamente da Dio; non speranza di vantaggi temporali, perché tutta la provincia conosce e può testificare in quali strettezze versino lui e la sua famiglia, ai quali mancherebbe anche lo stretto necessario, se non li soccorresse la misericordia di Dio, non desiderio di dominio e di preminenza, perché chi abbraccia la fede riformata sa in antecedenza che dovrà essere servo dei fratelli ed andare incontro a pericoli, a vilipendi, a carceri, a fughe, ad esill, a confische dei beni e della vita, e perché l'esperienza dimostra che molti, che prima erano ricchi, nobili e potenti, per aver voluto in seguito seguire l'imperativo della loro coscienza e consacrarsi al ministero pastorale nelle file dei riformati, persero e nobiltà e ricchezza e potenza, furono ridotti all'oblio, al disprezzo ed alla povertà. Se dunque nessuno di questi motivi morali sussiste né nella sua vita né nella sua conversione, arbitraria è l'accusa di eresia, che gli è stata lanciata. Né eretico potrà dirsi per le sue dottrine, delle quali farà un'ampia e schietta professione, affinché il governatore possa agevolmente persuadersi della infondatezza dell'accusa. Precedono la professione di fede vera e propria alcune dichiarazioni di carattere generale.

Il Truchi afferma di credere nella vera chiesa cristiana, apostolica e cattolica, cioè universale, che ha Cristo come pietra angolare e come unico capo; nelle dottrine dei profeti e degli apostoli, che costituiscono il fondamento della vera chiesa cristiana e che ci sono tramandate dai libri sucri canonici, ai quali nulla si può togliere né aggiungere senza incorrere nella condanna di anatema; e nel simbolo apostolico, che compendia tutta la dottrina contenuta nelle Sacre Carte. Accetta l'interpretazione del Vangelo fatta da uomini ispirati da Dio, purché senza interposizione di dottrine umane e secondo il sistema delle analogie; i quattro Concill generali, in quanto le loro deliberazioni non si allontanino dalla verità del Vangelo e mirino alla edificazione della Chiesa; ed il consenso comune della Chiesa, a condizione che anch'esso non sottoponga la dottrina di Cristo e dello Spirito Santo al consenso degli uomini, ma regga la Chiesa e gli uomini seconde la legge di Dio. Alla stessa condizione approva anche i simboli ed i credi di molti Santi Padri e Vescovi, che militarono nella chiesa primitiva.

A queste dichiarazioni di carattere generale, che potrebbero da sole testificare una perfetta corrispondenza alla dottrina cristiana, il Truchi, per una più efficace confutazione dell'accusa di eresia, ritiene opportuno far seguire, in una trentina di articoli, la rassegna dei principali punti della dottrina cristiana, che sono controversi per la fede cattolica e riformata, ed esprimere su ciascuno di essi il suo pensiero.

I primi articoli trattano assai rapidamente dell'unica essenza di Dio, della Trinità delle persone, di Dio come creatore del cielo e della terra, dell'uomo fatto a somiglianza di Dio, poi della sua caduta e della sua fondamentale incapacità a fare il bene, ove non lo soccorra la grazia di Dio (art. 11-14), Ne consegue che l'uomo non può più salvarsi da sé, con le sue opere o con una propria giustizia, ma solo per la predestinazione e l'elezione di Dio, che al momento opportuno, mediante la grazia dello Spirito Santo e la fede in Cristo, lo chiama alla vita eterna (art. 15).

Gli articoli dal 16 al 23 trattano dell'essenza e dell'opera gli uomini, fatto uomo, di Cristo, unico mediatore fra Dio e morto e risorto per la nostra salvezza, unico, eterno e propiziatorio sacrificio offerto una volta per sempre per la remissione dei peccati. Per mezzo del suo sangue l'uomo, soggetto al peccato, è riconciliato con Dio; per mezzo della sua morte è vinto l'impero della morte e per mezzo della sua risurrezione è data all'uomo la certezza della propria risurrezione. Salendo al cielo, Cristo ha aperto all'uomo la via dei cieli. Qui siede alla destra di Dio e sarà giudice inappellabile nel giorno del giudizio universale per dare ai giusti ed eletti di Dio la vita eterna. at reprobi la pena eterna.

Strumento della potenza di Cristo è lo Spirito Santo, che imprime nei nostri con ogni grazia ed ogni virtù per appagare la volontà di Dio, per convincerci di peccato, per aiutarci a domare i cattivi istinti, per sorreggerci nelle avversità e nel dolore, per spingerci alle opere buone. Giacché la fede senza ma altrettanto sterili e vane sono le opere vana ed oziosa le nostre opere senza la fede. Bisogna tuttavia guardarsi dal pericolo di credere che la nostra salvezza dipenda dalle nostre opere buone La nostra giustificazione proviene unicamente dalla misericordia di Dio e dal sacrifizio di Cristo, non dalle nostre opere, che, per quanto buone, sono sempre imperfette e peccaminose e servono soltanto a glorificare Dio, a mostrare i frutti della nostra elezione e ad essere di esempio agli altri.

Ampia trattazione ha la definizione e la concezione di chiesa.

La vera chiesa di Dio è unica, santa, cattolica ed apostolica. E unica, perché è la comunione di tutti i fedeli, che dal principio del mondo sino alla fine hanno creduto, credono e crederanno nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo; è santa, per virtù del sangue di Cristo, suo mistico Sposo, e per opera dello Spirito Santo, che la guida e la istruisce; cattolica, perché, avendo Cristo come suo unico Capo, non risiede in una parte soltanto della terra, ma vive in ogni luogo ed in ogni tempo apostolica, perché ha gli apostoli come suoi primi fondatori e perché si regola sui loro costumi, sulla loro dottrina e sul loro esempio. È in altre parole la chiesa invisibile e perfetta, nota soltanto a Dio e costituita dai beati e dagli eletti. Di fronte ad essa sta la chiesa visibile, che segue anch'essa la dottrina di Cristo e la fede universale, ma è mista di buoni e di cattivi, di puri e di impuri, e può avere diversità di riti, di cerimonie e di polizia, pur serbando salva la sostanza e l'unità della fede. Questa chiesa umana o terrena, per perseverare nel suo ufficio, ha bisogno di uno speciale ministerio, cio di persone, che, dotate di capacità e di attitudini diverse, la reggano e la guidino come un padre la propria famiglia. Compito di questi ministri è predicare, insegnare, osservare quanto Dio e Cristo, non gli uomini, prescrivono; amministrare i sacramenti, esercitare le chiavi del regno di Dio con una legittima disciplina, aver curaa dei poveri, dei malati e degli afflitti, ammonire gli erranti e ricondurli lungo il sentiero della verità e della santità. Chi ministro, anziano, diacono o presbitero non compre fatti questi uffici abbandona agli scandali, al lusso ed ai vizi, non pasce la greggia di Dio, non è pastore, ma lupo rapace e mercenario. Perciò a questi santi ministeri non devono accedere coloro, che cercano proventi, benefizi, dominio, onore, gloria umana. Dio vuole che suoi pastori siano il sale della terra e la luce del mondo, vere lanterne splendenti perciò i pastori debbono essere zelanti, sobri, modesti, ospitali, dotti, atti ad insegnare a correggere, conoscitori della Parola di Dio per istruire gli ignoranti confutare gli erranti, non dediti al vino, non cupidi di guadagno, alieni dalle contese e dall'avarizia, irreprensibili nella loro vita pubblica e privata.

Gli articoli dal 32 al 37 trattano de sacramenti in generale e del battesimo e della Santa Cena in particolare.

I sacramenti istituiti da Dio sono come suggelli della nostra salvezza, mediante i quali siamo fatti consapevoli della benevolenza di Dio e della sua grazia invisibile, siamo nutriti e raffermati nella nostra fede e tratti dalle cose visibili a quelle invisibili. I sacramenti sono sette, ma solo due furono istituti da Dio secondo la testimonianza del Vangelo il battesimo e la Santa Cena.

Il battesimo segna come il nostro ingresso nella chiesa di Dio ed è il sacramento, col quale, per virtà dello Spinto Santo e del sangue di Cristo, siamo fatti più certi della remissione dei nostri peccati e della nostra risurrezione. Esso contiene due elementi; la mortificazione della carne e la vivificazione dello spirito, dei quali il primo risiede nella morte di Cristo ed il secondo nella sua risurrezione. Il battesimo ci riveste della giustizia e della santità di Cristo, in modo che possiamo d'allora in poi servire a Dio e non al mondo. Da esso dipende tutta la remissione dei nostri peccati ed il rinnovamento della nostra vita.

Il secondo sacramento, istituito da Dio, è la Santa Cena, cioè il sacro convito, nel quale Cristo, fatto pane celeste e calice della salute eterna, ci viene offerto sotto i segni sacramentali del vino e del pane come remissione dei nostri peccati e come speranza della vita eterna. Cristo nell'ultima cena coi suoi discepoli, abolendo tutte le figure ed i misteri, che di lui si contengono nella legge di Mosè e dei profeti, stabili, in un nuovo rito, un nuovo patto o testamento per la Chiesa, perfezionando quello antico e rappresentandoci il nutrimento della nostra anima non più per segni che significano morte, circoncisione od altro genere di espiazione, ma per i segni delicatissimi del pane e del vino, che sono le sostanze del nutrimento umano. Con questo sacramento Cristo conferisce a noi i benefizi della sua morte e della sua risurrezione, facendoci partecipi di tutti i suoi beni. Ne consegue che Cristo con la Santa Cena ha istituito non un sacrificio che si rinnova, ma un sacramento, cioè un ricordo del sacrificio fatto una volta sola: sacramento che Egli affidò alla Chiesa, affinché fosse distribuito e comunicato a tutti i membri sotto forma non solo del pane ma del vino, sacralmente per le mani del ministro. Ma questa distribuzione non è sacrifizio né immolazione, ma memoriale del sacrificio di Cristo una sol volta offerto, come intesero anche i primi Padri, non come transustanziazione o come un reale sacrifizio propiziatorio, come intendono gli scolastici ed i dottori moderni, violando le analogie della S. Scrittura.

Riguardo alla reale presenza di Cristo nel sacramento ed alla reale «manducazione» del suo corpo e del suo sangue, il Truchi afferma che veramente mangiamo e beviamo il suo corpo e beviamo il suo sangue attraverso i segni del pane e del vino distribuito dalle mani di un visibile ministro. Ma questa reale «manducazione» non è carnale; bensì spirituale e mistica, come testificò Cristo stesso, quando disse: «Lo spirito è quello che vivifica, la carne non giova a nulla. Le parole che dico sono spirito e vita». Ne consegue che questo mistero deve essere inteso spiritualmente e misticamente. Noi sappiamo che Cristo siede corporalmente e sostanzialmente alla destra di Dio fino al giorno, in cui verrà a giudicare i vivi ed i morti; ma che frattanto, senza una sua corporale discesa, il corpo di Cristo, per virtù dello Spirito Santo, anche se ciò sfugge ai sensi, si comunica realmente al nostro spirito senza mutazione né transustanziazione delle nature e che per questa comunicazione, essendo Cristo il capo della Chiesa, noi diventiamo membra del suo corpo, carne della sua carne ed ossa delle sue ossa. Come la sostanza del cibo si muta per la conservazione della natura nella sostanza del corpo cibato, così Cristo si muta nella nostra sostanza spirituale e noi nella sua, in modo che formiamo una cosa sola con Lui, se a Lui ci uniamo secondo la sua volontà e comunichiamo pienamente con Lui. Cristo infatti ha detto: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui ». Poiché dunque spirituale è questa presenza e questa «manducazione» del Corpo di Cristo, conviene che anche spiritualmente e misticamente sia celebrato da noi questo sacro rito. C'è infatti una «manducazione» duplice: una corporale, fatta per mezzo delle mani, dei denti e dello stomaco, e un'altra mistica e spirituale, che avviene nell' intimo dell'anima. Ora come gli strumenti della prima sono le mani, i denti e lo stomaco, così lo strumento della seconda è la viva fede, per mezzo della quale il Corpo di Cristo ci riveste della sua grazia e dei suoi frutti e ci rende capaci di servire degnamente e piamente il nostro Signore.

L'articolo 38 tratta del potere delle chiavi conferito da Cristo a S. Pietro ed a tutti i suoi discepoli. Esso si esercita anzitutto con la predicazione della Parola di Dio e con la confermazione dei sacramenti, poi con la censura, la quale può definirsi una disciplina ecclesiastica o spada spirituale, con cui i ministri prendono provvedimenti contro i protervi e ribelli a Dio. Per virtù di questo potere i criminali, gli empi e gli infedeli sono separati dalla comunità dei credenti e consegnati alla podestà del demonio, finché rinsaviscano, ed i peccatori pentiti sono riammessi nel grembo della Chiesa. Esso è di tale autorità che, qualunque cosa sia legata o sciolta in terra da i veri ministri, sarà ratificato in cielo, secondo la promessa di Cristo. Ma non è temporale né deve essere esercitato con la spada: è spirituale e dato da Dio ai suoi ministri non per la distruzione, ma per l'edificazione degli uomini.

L'ultimo articolo tratta del potere temporale e dell'obbedienza ai magistrati. Bisogna ubbidire ad ogni podestà umana e temporale, a re, imperatori, magistrati, giudici civili e a quanti sono ordinati per la conservazione della società umana, perché essi tengono il posto di ministri di Dio, portano la spada e mirano alla conservazione dei buoni e all'emendazione o all'eliminazione dei cattivi. Ma l'obbedienza non deve essere ispirata dalla paura, anzi cosciente, pronta ed intera, purché non sia comandato nulla contro la volontà di Dio, poiché, in questo caso, la S. Scrittura insegna che bisogna ubbidire piuttosto a Dio che agli uomini. Dato il compito delicato dei magistrati, dobbiamo continuamente raccomandarli a Dio, affinché sotto il loro governo noi possiamo condurre una vita tranquilla, servendo in piena fedeltà ed ubbidienza sia a Dio, sia ai nostri reggitori ed evitando ogni sedizione e tumulto.

La professione di fede si chiude con questa esplicita dichiarazione, che mirava a controbattere l'accusa di ribellione al re ed alle leggi, solita ad essere lanciata contro i riformati insieme con quella di eresia.

«In primis igitur Regem Christianissimum et invictissimum mihi a Deo constitutum, Carolum IX, inquam, deinde omnes ab eo legitime substitutos agnosco et toto animo suscipio, ante quorum pedes supplex ac humilis procumbens omne bonum illis imprecari non desino: quos Deus Optimus Maximus incolumes perpetuo servet et custodiat».

In conseguenza della sua professione di fede, il Truchi rinnova la protesta contro l'accusa di eresia e di nuova religione, sostenendo che l'accusa è ingiusta ed infondata, dal momento che egli può provare, come ha fatto, che la sua fede è del tutto conforme all' insegnamento di Cristo, alle Sacre Scritture ed alla dottrina apostolica e che la chiesa riformata tende a far rivivere sostanzialmente la chiesa primitiva od apostolica.

Se c'è dissenso fra le chiese cristiane per alcune cose accessorie e contingenti od in ciò, che fu posteriormente aggiunto dagli uomini alla dottrina di Cristo, questa non è ragione sufficiente per tacciare qualcuno di eretico, per allontanarlo dalla comunione della Chiesa e tanto meno per colpirlo con anatemi e con esecuzioni corporali.

Riguardo alle cose accessorie ed alle istituzioni di aggiunta umana il Truchi dichiara di accettare, come appendice della Parola di Dio, tutte quelle che sono conformi alla Sacra Scrittura e che mirano all'edificazione dei fedeli: ma di respingere tutte quelle, che non hanno il loro fondamento nel Vangelo o che gli sono diametralmente opposte o che, intrise di superstizioni, di vani spettacoli, di guadagno personale e di avarizia, distruggono tutta la verità delle Sacre Scritture. Possono tuttavia essere tollerate quelle che, pur non emanando direttamente dalla S. Scrittura e pur non avendo grande edificazione per i fedeli, tuttavia non sono empie e non intaccano la sostanza della dottrina cristiana, come certi riti e talune cerimonie. Che per le cose accessorie ed indifferenti alla sostanza della fede non si possa essere tacciati di eresia, lo dimostra la storia della chiesa primitiva ed apostolica, quando la chiesa, pur essendo una ed universale, ammetteva diversità di gerarchie, di riti, di cerimonie, di feste, di digiuni e di disciplina ecclesiastica, senza che per questo tali chiese fossero condannate come eretiche e scismatiche. Chi non ricorda le profonde differenze che esistevano tra la chiesa ambrosiana, non sempre formali romana e ravennate, o tra le chiese latine e quelle etiopiche ed orientali? Se dunque le chiese riformate concordano con le altre chiese cristiane nella sostanza della fede e della dottrina, conformandosi alla Parola di Dio ed all'insegnamento degli apostoli, e non dissentono che in cose indifferenti od aggiunte dagli uomini, perché dovrebbero essere tacciate come eretiche ed essere messe al bando e perseguitate? Assai meglio sarebbe che tutti i fedeli cristiani si unissero insieme per seguire quell'unica e medesima chiesa, di cui Cristo è solo capo ed universale pastore.

Il secondo scritto del Truchi, giunto fino a noi, è un trattatello polemico, a guisa di lettera, scritto in lingua italiana ed indirizzato ad una «Signora affettuosissima et Eccellentissima Madama». Dove e quando esso sia stato scritto e chi sia la nobildonna, alla quale è rivolto, non è possibile dedurre dal contesto della lettera. Si trattava di una nobile dama, che era ormai assai iniziata nelle dottrine e nella fede riformata, ma che, esitante a rompere definitivamente i legami dell'antica religione o desiderosa di dirimere in altri tali esitazioni [42], si era rivolta al ministro per avere da lui più chiare precisazioni.

Le due questioni, che in modo particolare angustiavano il suo animo, erano queste: «Quale sia la vera chiesa di Dio e di Cristo » e «Se la vera chiesa possa errare». Nella sua risposta il Truchi dà prova, come già nella «Professione di fede», di una perfetta conoscenza biblica e di una notevole cultura patristica, giacché passi della Bibbia, sia dell'Antico come del Nuovo Testamento, e citazioni tolte dagli scritti dei Padri e dei Dottori antichi, accompagnano continuamente le affermazioni dell'autore a provare il suo insegnamento prettamente cristiano ed apostolico.

Dopo aver mostrato come nel mondo siano sorti molti culti e molte religioni, in vari tempi ed in vari luoghi, coi quali gli uomini, in modo più o meno perfetto secondo la loro natura, le loro attitudini ed il loro grado di civiltà, si sforzano di rendere a Dio il servizio e l'omaggio che Gli sono dovuti, chiesa secondo il Truchi passa a definire che cosa s' intenda per il concetto cristiano. Secondo lui la chiesa è «una congregazione et raunanza di veri coltori di Dio guidati dal suo spirito per veramente servirlo et adorarlo in spirito et verità, secondo la Sua Parola per il mezzo dell'unico et solo suo figliuolo nostro mediatore ricevuto da noi per virtù della fede ». Essa non può avere altro fondamento che Cristo ed altra legge che la Parola di Dio: è santamente governata dallo Spirito di Dio, non desidera altro che servir Dio in spirito e verità e spera di essere salva per la fede nel solo mediatore Gesù Cristo. Quando diciamo che questa chiesa è santa, non intendiamo già dire che essa è santa per i suoi meriti e per le sue virtù, ma perché è purificata dalla fede in Colui che l'ha lavata e santificata con il suo sangue e che ha operato la remissione dei nostri peccati. E questa è offerta gratuitamente, senza riguardo alle opere di giustizia, a tutti i veri cultori di Dio, chiamati, per effetto della remissione, eletti o santi. La Parola di Dio c' insegna che sono chiamati santi tutti coloro, che si studiano di camminare in ogni santità e giustizia per tutto il tempo della loro vita, conformandosi all'immagine dell'uomo nuovo, cioè di Cristo, quantunque ogni giorno essi si trovino « coi piedi macchiati et infangati et talora ben lordamente, per la partecipazione di quei fanghi terreni », ai quali non poterono sottrarsi nemmeno coloro che furono chiamati « santi ed amici di Dio». C'erano in essi molte infermità e notevoli peccati; tuttavia non furono rigettati né da Dio né dalla chiesa, ma ebbero imputata la giustizia e coperti i loro falli mediante la penitenza e la fede in Cristo. Perciò possiamo dire che la chiesa di Dio è santa e che santi sono i suoi membri, quantunque si possano scorgere in essi molte macchie e molte imperfezioni.

Da questi santi si differenziano i santi canonizzati, che stanno in cielo, ed i santi terreni, che pongono la loro santità e la loro giustizia nelle buone opere anziché nel sangue e nella fede in Cristo.

Definita la vera chiesa di Cristo, il Truchi, servendosi di essa come di pietra da paragone, passa a confrontare tra loro la chiesa romana e la chiesa riformata, per stabilire quale delle due sia la vera chiesa di Dio nel tempo presente.

Premesso che nel mondo vi sono molte chiese e religioni sorte in tempi e luoghi diversi, ma che una sola è la vera chiesa di Cristo, cioè «quella piantata da Cristo per la mano et instrumento dei suoi apostoli» e che è falsa l'opinione di coloro, i quali asseriscono che l'uomo si può salvare sotto qualsiasi titolo di chiesa, purché si sforzi di vivere pacificamente e «con esterna santità », il Truchi si sofferma ad esaminare minutamente le varie ragioni, per le quali la chiesa romana e quella riformata pretendono rispettivamente di essere la vera chiesa di Cristo.

La chiesa romana avvalora le sue pretensioni con queste ragioni:

1) perché fu fondata da quei due grandi luminari della pietà cristiana, che furono gli apostoli S. Pietro e S. Paolo;

2) perché tiene, da essi fino ai giorni nostri, una ininterrotta successione di Pastori, di Vescovi e di Papi;

3) perché fin da principio è stata celebrata ed autenticata dalla universalità della chiesa, da Concili, da monarchi ed imperatori;

4) perché tiene l'autorità delle chiavi, per virtù delle quali tutto ciò che ordina ed istituisce in terra, è buono ed irrevocabile anche agli occhi di Dio;

5) perché come vera chiesa fu celebrata ed autenticata negli scritti dei dottori della chiesa, antichi e recenti.

A sua volta la chiesa riformata pretende di essere la vera chiesa:

1) perché, riconosciuto « che la vera chiesa è quella ordinata da Dio per mezzo della Sua Parola contenuta tanto nel Vecchio quanto nel Nuovo Testamento e piantata e confermata da Cristo col suo sangue », essa può dimostrare di seguire fedelmente ed unicamente l'insegnamento di quella chiesa;

2) perché rigetta ogni falsa dottrina ed ogni invenzione umana contraria alla dottrina di Cristo e non accetta nessun'altra istituzione e nessun altro sacramento, che quelli ordinati da Cristo;

3) perché essa segue non solo le dottrine di S. Paolo e di S. Pietro, ma quelle di tutti gli altri apostoli e profeti conformi alla Parola di Dio;

4) perché, per governarla, ha pastori, anziani e diaconi stabiliti da Cristo con le stesse mansioni e con gli stessi uffici da Lui prescritti;

5) perché non prende autorità né dagli uomini, né dai tempi, né dai luoghi, né da alcuna successione o tradizione umana, ma soltanto da Cristo, che la comanda, e dalle leggi, ch' Egli stesso ha stabilito.

Alle pretensioni accampate dalla chiesa romana il Truchi oppone queste obiezioni: che la chiesa romana non può di diritto appellarsi ai SS. Pietro e Paolo come ai suoi fondatori, dal momento che non ne segue più la dottrina o l'ha corrotta con molte superstizioni, abusi, idolatrie e simonie; che per lo stesso motivo a nulla le serve il vanto della successione dagli apostoli, poiché è facile constatare la degenerazione attuale, confrontando fra loro i Vescovi, i Papi, i preti, gli statuti ed i dogmi di oggi con i Vescovi, gli statuti ed i dogmi della chiesa apostolica e primitiva: che l'autorità della chiesa di Dio non è data da nessuna sorta di uomini, siano essi pastori o monarchi, ma solo da Dio e da Cristo, per condurre gli uomini alla obbedienza della volontà di Dio e per togliere dal proprio seno ogni impurità ed ogni abuso. Nemmeno ha l'autorità delle chiavi, perché tale autorità fu data non solo a Pietro e a Paolo, ma a tutta la santa chiesa universale e perché la chiesa romana ha alterato lo scopo e la natura di questa istituzione, servendosene unicamente per anatemizzare e scomunicare Cristo nella sua dottrina evangelica e nei suoi membri, sciogliendo e legando contro le istruzioni di Cristo. Neppure vale la pretesa di essere stata celebrata ed autenticata dai Dottori antichi, poiché essa allora, nonostante le sue imperfezioni, riteneva ancora l'insegnamento di Cristo, mentre la chiesa di oggi, con l'introduzione del culto della Vergine e dei Santi, con la venerazione delle immagini e delle statue e con altre infinite idolatrie e nuovi dogmi, contrasta non solo con la chiesa di Dio, ma con la stessa chiesa primitiva, e perché, se i Dottori, che un tempo la celebrarono, fossero oggi viventi, essi la condannerebbero come sfacciata meretrice alle fiamme eterne.

La conclusione ovvia del Truchi è quindi che la vera chiesa dei suoi tempi non può essere che la chiesa riformata, come quella che conserva e restaura la Parola di Dio e che fonda la sua dottrina, la sua morale e le sue istituzioni in Cristo unico Salvatore e Mediatore, senza mescolarvi superstizioni ed invenzioni umane. Né vale rinfacciarle il suo séguito esiguo, perché non è la moltitudine che conta nella chiesa di Dio, ma la verità e la dottrina di Cristo, e perché ai seguaci visibili e militanti molte altre migliaia di persone sarebbero pronte ad aggiungersi, se cessasse la persecuzione. Ma se la religione riformata crede di essere la vera chiesa di Cristo, non pensa che siano fuori della speranza di salute tutti quelli che fanno professione della fede cattolica; afferma soltanto, per bocca di Dio, che sono dannati tutti quelli che non credono in Cristo. Perciò anche coloro, che vivono nella religione cattolica, per quanto essa sia inquinata da tante superstizioni ed idolatrie, possono essere salvati, se pongono la loro fede e speranza in Cristo. Ma resta fermo che tutti quelli, che in essa si sono salvati, si salvano o si salveranno, hanno trovata e troveranno la loro salvezza non nell'osservanza delle istituzioni umane o nei dogmi aggiunti dall'Anticristo, qualunque apparenza di pietà essi possano avere all'esterno, ma unicamente nella grazia di Cristo e nella fede in Lui. Anche oggi nella chiesa cattolica sussistono molti dogmi e molte istituzioni, che sono conformi alla Parola di Dio, e il Signore, che giudica diversamente da quanto giudicano gli uomini, saprà scegliere il momento opportuno per condurre i suoi al pentimento ed alla verità e per liberarli da ogni superstizione e da ogni condanna. Ma dannati saranno quelli, che rifiutano ostinatamente la grazia, che è loro offerta o che, per appagare le loro malsane passioni, disprezzano il ravvedimento e la remissione dei peccati, crocifiggendo Cristo un'altra volta.

La seconda questione è: «Se la chiesa di Dio possa errare ». Per evitare ogni equivoco, il Truchi ritiene necessario distinguere i due tipi di chiesa di Dio: quella ordinata da Dio e fondata su Gesù Cristo per mezzo della Parola e dello Spirito Santo, e considerata in se stessa, cioè senza riguardo alla sua forma esteriore o pratica: e la medesima considerata nella sua estrinsecazione visibile, cioè nelle sue forme umane o terrene.

La prima è evidente che non può errare, come non può errare Dio stesso, che l'ha stabilita. Infatti, chi ammettesse questo, farebbe Dio bugiardo, incostante e mancatore, ciò che sarebbe sacrilegio anche soltanto pensare.

Ma erra la chiesa di Dio nella sua estrinsecazione e nelle sue forme terrene ed erra tutte le volte che essa lascia il suo solo ed unico fondamento, Gesù Cristo. A riprova di questa affermazione il Truchi passa in rassegna tutta la storia del popolo ebreo, dai tempi più antichi all'avvento di Cristo, mostrando come la chiesa di Dio, identificata nel popolo di Israele, fu continuamente soggetta ad errori e traviamenti, non solo nei suoi costumi, ma anche nella sua dottrina e come essa alternò periodi di fede e di obbedienza a periodi di corruzione, di idolatria e di ribellione, sebbene uomini come Noè, Mosè, Giosuè, Giosafat e molti altri cercassero di porvi riparo e rimanessero fedeli alla legge di Dio. Tanta era la corruzione e l'infedeltà della chiesa, che, quando Cristo venne, essa lo respinse e lo crocifisse. La chiesa dunque di Dio ha errato nella sua forma terrena ed umana e può errare; e quelli stessi, che noi diciamo che non errarono, perché rimasero ubbidienti alla Parola di Dio, non errarono già perché non potessero errare, ma perché furono preservati dal peccare per la virtù della grazia di Dio.

E poiché a questa dimostrazione alcuni potrebbero obiettare che ha potuto errare la chiesa di Dio descritta nel Vecchio Testamento, ma che non può errare la chiesa del Nuovo Testamento guidata dallo Spirito Santo, e che, se essa può errare nella vita e nei costumi, non può tuttavia errare nella fede e nella dottrina, perché Cristo ha dichiarato che le porte dell' inferno non prevarranno contro di Lui, il Truchi ribatte, dichiarando che lo Spirito Santo governò tanto la chiesa del Vecchio quanto quella del Nuovo Testamento e che anche questa come quella errò nei costumi e nella dottrina tutte le volte che si dipartì dalla verità «ch' è la dottrina del Padre et del Figliuolo, cioè la sua parola del vecchio et nuovo Testamento et si appoggiò alle sue proprie inventioni, diverse et contrarie dalla dottrina dello Spirito Santo, lasciandosi guidare non dallo Spirito Santo, ma dal proprio ingegno ». Questi errori e queste deviazioni furono appunto la causa per cui la chiesa riformata si staccò dalla chiesa romana e propugna il ritorno integrale alla chiesa apostolica. Erra oggi la chiesa di Dio, quando dà all'acqua benedetta il potere di rimettere i peccati e di cacciare i maligni spiriti, quando introduce il culto delle immagini, l' intercessione dei santi, il purgatorio, le messe per i defunti, la transustanziazione e tante altre istituzioni e cerimonie, che sono apertamente contrarie alla Parola di Dio. Perciò ad essa non possono essere riferite le parole di Cristo, che le porte dell' inferno non prevarranno, perché tali parole sono dette della sola vera chiesa di Cristo, non della romana, che ha rinnegato Cristo e la Parola di Dio e che perseguita i veri cultori di Cristo. Per lo stesso motivo non può essere riferita alla chiesa romana neppure l'altra promessa di Cristo, ch'egli sarà con la sua chiesa fino alla consumazione del mondo, poiché non è chiesa di Cristo quella «<< che vive nelle soverchie delitie, ricchezze, trionfi, comodità, piaceri, lussurie, ignoranza, ambitioni et tutte le vanità et dissolutioni, e che insieme dà a morte i membri di Cristo e chiunque confessa la sua verità, anatemizzando Christo di nuovo e la sua Parola ». La promessa di Cristo è per i poveri cristiani e confessori di Cristo perseguitati in tanti modi e dati a crudelissimi tormenti. Essi soli costituiscono la vera chiesa di Cristo. «In questa chiesa, che è la casa di Dio vivente, colonna et fondamento di verità, che sono gli eletti et veri coltori di Cristo, il Signor Christo per la sua parola et con la virtù del suo Spirito Santo vi sarà sino alla consumazione del mondo, et non punto con quella moltitudine de'giganti, da quai sempre è stato scacciato et dato a morte».

Rispondendo all'ultima obiezione, che cioè la chiesa è santa e che perciò non può errare, il Truchi mostra che, se la chiesa non potesse errare, Cristo non l'avrebbe esortata a chiedere ogni giorno la remissione dei peccati. Tuttavia la chiesa non cessa di essere santa e santi possono essere detti i suoi membri, perché essi, sebbene pecchino, sono santificati e giustificati per la fede in Cristo e per la grazia e misericordia di Dio, non già per i propri meriti e le proprie buone opere. La conclusione della dimostrazione del Truchi è quindi questa: che la chiesa di Dio terrena può errare ed erra. Ma da questa premessa scaturiscono, per forza di dilemma, due importanti deduzioni. Infatti, se si ammette che la chiesa erra ed ha errato nei costumi come nella dottrina, ne consegue che la chiesa, essendo peccaminosa, ha bisogno costante di essere corretta ed emendata per riacquistare l'antica verità e purezza, ciò che appunto si sforzano di fare i Riformatori: se, per contro, si ammette che essa non può errare, allora si deve dire che la chiesa romana, la quale da tanti secoli palesemente erra, come è stato dimostrato, non è punto la vera chiesa di Cristo, ma quella dell'Anticristo « che perseguita la verità et la dottrina di Christo: la gran babilonia, madre di tutte le fornicationi».

La lettera si chiude con l'augurio che Dio protegga il piccolo gregge dei veri cultori di Cristo, affinché presto il suo nome sia proclamato e riconosciuto ovunque e si stabilisca su tutta la terra il regno di Dio, di cui «il Cielo ne mostra già la preparata allegrezza, qualunque ne sia la ritardanza».

Tale è la fede, la morale e la dottrina, che il Truchi tramandò per mezzo dei suoi scritti ed insegnò nella sua predicazione e praticò per tutto il resto della sua vita. Si potrà dissentire da molte sue affermazioni, anche dal contenuto integrale delle sue dottrine; ma non si può non riconoscere in lui una fede robusta, ardente e sincera, accompagnata non solo da una solida cultura biblica, patristica e teologica [43], che lo eleva su buona parte del clero cattolico del suo tempo, ma da una profonda esperienza della società e della chiesa contemporanea, da una polemica dialettica e suasiva, anche se nei suoi scritti non manchino le intemperanze di linguaggio solite ad usarsi nelle controversie religiose del secolo e se l'ardore del neofita lo porti ora ad una troppo esclusiva esaltazione della religione riformata, ora ad una troppo integrale condanna della chiesa romana.

E poiché tale, approssimativamente, fu anche la fede e la dottrina degli altri ministri, che predicarono nel Marchesato durante la seconda metà del Cinquecento, può riuscir facile spiegare come la Riforma poté incontrare così largo favore in molte terre saluzzesi e resistere così a lungo a tanti assalti del potere civile e religioso. Di fronte ad un sereno esame dei principi religiosi, morali e civili, affermati dagli scritti del Varaglia e del Truchi, cadono anche molte delle volgari accuse, che alcuni scrittori cattolici del Cinquecento - e talora anche di tempi più recenti lanciarono contro il movimento riformato saluzzese, dipingendolo nella sua generalità come seminatore ed esaltatore di empietà religiose e morali e come sovvertitore di ogni autorità umana e divina. Poiché non è giusto dalle intemperanze o dalle aberrazioni, che si possono riscontrare in singoli od in pochi, dedurre che tale sia stata la costante norma di vita e di pensiero di tutto il moto riformato saluzzese.

Note

[I] Edito in PASCAL, Margherita di Foix ed i Valdesi di Paesana, in loc. cit., pp. 40-43.

[2] Nessun articolo, ad esempio, tratta esplicitamente di Dio e dei suoi attributi, della natura umana e divina di Cristo, della immortalità delle anime, della risurrezione dei corpi ecc.: dottrine considerate corrispondenti nelle due fedi.

[3] G. VOLPE, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, Firenze, Vallecchi, 1926.

[4] Riproduciamo nel testo originale l'art. 63: «Dicunt esse venturum quendam regem Bohemorum, quem dicunt fore de eorum secta, cum exercitu magno subjugaturum provincias, civitates et loca, distructurumque Ecclesias, et interficiet omnes ecclesiasticos et debet auferre dominia temporalia et tollere pedagia, et cunctas angarias amovere et solum ponere grossum unum pro persona, et facere omnia comunia et cuncta submittere suae legi».

[5] Evidente allusione ai rapporti, che i Valdesi del Piemonte trattenevano con i fratelli di Boemia, ed al re Ladislao, che si diceva tutelasse la loro setta. Sulla fine del secolo XV la tradizione vuole che venisse in Piemonte una missione di due barbi, mandati dai Valdesi di Boemia, per rinsaldare i vincoli religiosi. Cfr. EM. COMBA, Hist. des Vaudois, Firenze, 1901, cap. XVI e gli studi critici di A. MOLNAR, Luc de Prague et les Vaudois d' Italie, in « Bull. Soc. Studi Valdesi», n.o 90, 1949, pp. 40-64, e Les Vaudois et la Réforme tchèque, ibidem, n.º103, 1958, PP. 37-51.

[6] Cfr. ALBERTO CATTANEO, De ortu et de lectione Valdensium, in Historiae regum a Pharamundo ad Ludovicum XII epitome, pubbl. da D. GODEFROY, in Hist. de Charles VIII, Paris, 1684, pp. 277 e segg.; P. ALLIX, Some remarks upon the ecclesiastical History of the Ancient Churches of Piemont, London, 1690, pp. 297-307; S. MORLAND, The history of the Evangelical Churches of the Valleys of Piemont, London, 1658, pp. 215-222; G. LÉGER, Hist. Génér. des Églises Évangéliques des Vallées du Piémont, cit., II, 21-23; J. CHEVALIER, Mémoire histor. sur les hérésies en Dauphiné avant le XVIe siècle, ecc., Valence, 1890, pp. 41, 77, 84; EM. COMBA, Hist. des Vaudois d' Italie depuis leur origine jusques à nos jours, P. I: Avant la Réforme, Paris-Turin, 1887, pp. 157-166.

[7] CLAUDE DE SEYSSEL, Adversus errores et sectam Waldensium disputationes, per quam eruditae et piae, Parisiis, 1520. Cfr. J. CAPPEL, La doctrine des Vaudois représentée par C. Seyssel, archevèque de Turin et Claude Coussord, théologien de l'Université de Paris, Sedan, 1618; A. CAVIGLIA, Claudio di Seyssel (1450-1520). La vita nella storia dei suoi tempi, Torino, 1928; EM. COMBA, Hist. des Vaudois, Parigi, 1901, P. I: De Valdo à la Réforme, pp. 648-653.

[8] ALLIX, op. cit., pp. 318-331; EM. COMBA, Hist. des Vaudois, ediz. 1901, P. I, 558-585: Processus inquisitoris contra Barbam Martinum; I. DOELLINGER, Beiträge zur Sektengeschichte des Mittelalters, München, 1890, II, 365-67: Processus contra Valdenses a. 1506; E. ARNAUD, Hist. des Persécutions endurées par les Vaudois du Dauphiné au XIIIe, XIVe et XVe siècle, in «Bull. Soc. Hist. Vaud. », n.º 12 (1895), pp. 79-124.

[9] Cfr. J. OECOLAMPADII ET H. ZWINGLI, Epistolarum libri IV, Basileae, 1536, fol. 198; AB. SCULTETUS, Annalium Evangelii passim per Europam decimoquinto salutis partae saeculo renovati decades II, Heidelbergae, 1620, pp. 295-315; GILLES, op. cit., cap. V; LÉGER, op. cit., I, 105, 162, 190-95; HERZOG, Die romanischen Wald, ihre vorreformatorischen Zustände und Lehren, ihre Reformation in 16. Jahrhundert und die Kückwirkungen derselben, hauptsächlich nach ihren eigenen Schriften, Halle, 1853, pp. 333-376; HERZOG, Ein Wichtiges Document betreffend die Einführung der Reformation bei den Waldenser, in «Zeitschrift für die historisches Theologie », a. 1866, pp. 311-338; Eм. COMBA, Hist. des Vaudois, 1901, P. I, pp. 602-609; ERN. COMBA, I Valdesi prima del sinodo di Cianforan, in Boll. Soc. di Stor. Vald. », n.º 58, a. 1932, pp. 7-33: T. BALMA, La ville de Strasbourg et les Vaudois, in « Boll. Soc. Stor. Vald. », n.º 67 (1937), pp. 72-79; G. GONNET, La Protesta Valdese da Lione a Chanforan (disp. della Fac. Vald. di Teologia), Roma, 1951-52; IDEM, Beziehungen der Waldenser zu den oberdeutschen Reformatoren von Calvin, in Zeitschr. f. Kirchengesch. », a. 1953. (4, F. II, B. 64, H 3); IDEM, Valdensia, in Revue d' Hist. et de Philosoph. relig. publiée par la Faculté de Théol. Prot. de l'Univers. de Strasbourg », a. 33, (1953), n.º 3, pp. 236-39; IDEM, I rapporti tra i Valdesi franco-italiani e i Riformatori d'oltralpe prima di Calvino, in loc. cit. pp. 1-63.

[10] GUST. VINAY, Il Valdismo alla vigilia della Riforma, in «Boll. Soc. di Stor. Vald.», n.º 63 (1935), pp. 65-69; GONNET, Valdensia, in loc. cit., pp. 65-69.

[11] Sulla parte larghissima, che frati apostati, mercanti e soldati ebbero nella diffusione della Riforma nelle terre saluzzesi. cfr. i capitoli precedenti.

[12] V. cap. III.

[13] Per le vicende e le dottrine del Pallavicino, cfr. la nota bibliografica n.º 9 del cap. III.

[14] V. cap. III e la nota bibliografica n.º 20 e cap. IV nota 9.

[15] È scritta in idioma romanzo-valdese ed è conservata nella Bibliot. di Dublino (C. 5. 18, fol. 21-24) in 14 art. È stata riprodotta da vari storici e tradotta in varie lingue: italiana, francese, inglese e tedesca. Cfr. H. P.P. PERRIN, Hist. des Vaudois, Genève, 1619, I, 79-87; MORLAND, op. cit., pp. 30-34; P. BOYER, Abrégé de l' Histoire des Vaudois, La Haye, 1691, pp. 15-21; J. BREZ, Hist. des Vaudois, Paris, 1796, pp. 231-235; W. JONES, The History of the Waldenses, London, 1816, II, 44-46; LÉGER, op. cit., I, 92-95; W. DIETERICI, Die Waldenser und ihre Verhältnisse zu dem Brandenburgisch-Preussischen Staate, Berlino, 1831, pp. 363367; MONASTIER, op. cit., II, 316-322; LUZZI, I simboli della Chiesa Valdese, Firenze, 1906; ERN. COMBA, Storia dei Valdesi, Torre Pellice, 1950, pp. 102-105; G. GONNET, I rapporti tra i Valdesi franco-italiani e i Riformatori d'oltralpe prima di Calvino, in loc. cit.

[16] Cfr. PERRIN, op. cit., I, 158-160; GILLES, op. cit., I, 48-52; LÉGER, op. cit., I, 95 e segg.; HERZOG, Die Romanischen Waldenser, in loc. cit., 5-60: A. REVEL pp. 381-388; EM. COMBA, Il sinodo di Chanforan e le sue conclusioni, in “Rivista cristiana”, Firenze 1876, a. IV, pp. 265-69; A. Revel, I simboli della Chiesa Valdese, in «Riv. Crist. », a. 1878, pp. 7-14; LUZZI, op. cit., in loc. cit., pp. 6-8; JALLA, Le Synode de Chanforan, in « Boll. Soc. Stor. Vald. », n.° 58, pp. 34-48; ERN. COMBA, Stor. dei Valdesi, 1950, pp. 105-112; GONNET, La Protesta Valdese, in loc. cit., pp. 406-423 e Waldensia, in loc. cit., pp. 239 e segg.; IDEM, Le premier Synode de Chanforan de 1532, in « Bull. Soc. Hist, du Protest. Franc. 2; IC année [oct. dec. 1533), p. 201-221; IDEM, I rapporti tra i valdesi franco-italiani e i Riformatori d’oltralpe prima di Calvino, in loc. cit.

[17] LENTOLO, op. cit., pp. 81-84; GILLES, op. cit., I, 95-99.

[18] LENTOLO, op. cit., pp. 126-145; GILLES, op. cit., I, 125-138.

[19] V. Bull. Soc. Hist. Vaud., n.º 9, già cit.

[20] Sugli antitrinitari, Alciati e Biandrata, le cui vicende assai spesso s'intrecciano, cfr. A. POSSEVINO, Commentario di Transilvania, edito dal BASCAPÈ in «Le relazioni fra l'Italia e la Transilvania nel sec. XVI », Roma, 1931, pp. 49 e segg.; BAUM, CUNITZ e REUS, Opera Calvini, cit., pass. (specie i vol. XVIII-XIX); SANDIUS, Bibliotheca Anti-trinitariorum, catalogus scriptorum et succincta narratio de vita eorum auctorum, Freistadt, 1684; P. GUICHARD, Hist. du Socinianisme, Paris, 1723; BAYLE, Dictionnaire (1740), sotto Alciati e Biandrata, t. I; BURIAN, Dissertatio historico-critica de duplici Ingressu in Transylvaniam Georgii Blandratae, Albo-Carolinae, 1806; M. V. MALACARNE, Commentario delle opere e delle vicende di G. Biandrata, nobile saluzzese, Padova, 1814; HEBERLE, Aus dem Leben von G. Blandrata, in « Tübinger Zeitschrift für Theologie », 1840, fasc. III-IV, pp. 151 e segg.; F. TRECHSEL, Die protestantischen Antitrinitarier vor Fautus Socin, Heidelberg, 1844; T. MACCRIE, Storia della Riforma in Italia nel sec. XVI, Genova, 1858; J. GABEREL, Hist. de l'Église de Genève depuis le commencement de la réformation jusques à nos jours, Ginevra, 1858, II, cap. VI, pp. 224-258; ROGET, Hist. du peuple de Genève, Ginevra, 1879; FAZY, Procès de Valentin Gentilis et de Nicolas Gallo, in «Mémoires de l'Institut Genevois », Ginevra, 1879, XIV, pp. 1-103; C. CANTÙ, Eretici d' Italia, Torino, 186567; TH. DE BEZE, Hist. Eccles. des Églises Réformées de France, Toulouse, 1882; COVELLE, Livre des bourgeois de l'ancienne république de Genève, Ginevra, 1897; GROSHEINTZ, L'église italienne à Genève au temps de Calvin, Lausanne, 1904; J. GALIFFE, Le refuge italien de Genève, Ginevra, 1881; GAUTIER, Hist. de Genève, Ginevra, 1901, IV, 233-35, 284-86; VOTSCHKE, Geschicte der Reformation in Polen, Lipsia, 1911; MOELLER, Der Antitrinitarie Johan Pau Alciat, in «Hist. Vierteljahr Schrift. »>, a. XI, (1908), pp. 460-483; PASCAL, Gli Antitrinitari Piemontesi, cit.; DOUMERGUE, Jean Calvin, t. VI, 1926; F. RUFFINI, Il giureconsulto chierese Matt. Gribaldi Mofa e Calvino, Roma, 1928; F. CHURCH, I riformatori Italiani (trad. D. Cantimori), Firenze, 1935; D. CANTIMORI, Profilo di G. Biandrata Saluzzese, in «B. S. B. S. », a. 1936, t. XXXVIII, n.º 3-4, PP. 352-402; CANTIMORI e FEST, Per la storia degli eretici Italiani del sec. XVI in Europa, Roma, 1937; CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, Firenze, 1939; G. PIOLI, Fausto Socino: Vita - Opere Fortuna. Contributo alla storia del liberalismo religioso moderno, Modena, 1952.

[21] MACCRIE, op. cit., p. 170 e segg.; CANTÙ, op. cit., III, disc. XLV; EM. COMBA, Un sinodo anabattista a Venezia nel 1550, in «Riv. Crist. », a. XIII, pp. 21-24, Firenze, 1885; IDEM, I nostri Protestanti, Firenze, 1897, II, p. 484 e segg.; MORSOLIN, L'accademia dei Sociniani in Vicenza, in «Atti dell' Ist. Veneto », t. V, a. 1878-79, serie V, pp. 457-493; TRECHSEL, op. cit., II, 391-408; BENRATH, Wiedertäufer im Venetianischen um die Mitte des 16. Jahrhundert, in «Theol. Studien und Kritiken », t. XLVIII (1885); IDEM, Geschichte der Reformation in Venedig, Halle, 1886.

[22] Abbiamo pubblicato gli atti del processo nel nostro studio cit. piemontesi. in loc. cit.

[23] CANTIMORI, Profilo di G. Biandrata, in loc. cit., p. 373, dice che la Sinodo fu tenuto a Ksiaz, il PIOLI, op. cit., p. 24, a Pinczow.

[24] È riprodotta dal CANTIMORI, op. cit., pp.

[25] Tra gli scritti del Biandrata pubblicati nel 1568 merita speciale menzione quello intitolato Antithesis pseudochristi cum vero illo ex Maria nato, Albae Juliae, 1568. In esso il B. mette a confronto il Cristo eterno del papa con il Cristo uomo, povero, perseguitato. Il primo ricco, protetto da re e magistrati, difeso da schiere di teologi e di filosofi, distribuisce oro, onori, porpora, ma non si cura del cuore umano, pago che i fedeli riconoscano il papa e la Chiesa e danna all' inferno gli apostati dalla chiesa romana e quelli che non pagano le decime. Di fronte a lui sta il Cristo uomo, nato povero, che ha sempre patito miserie e persecuzione; che non ebbe Concili, né filosofi, né re a sua difesa; che non ha chiese, ma semplici apostoli che lo predicano per le strade. I suoi anche oggi perseguitati. Solo il Cristo vero uomo non attirò i discepoli con allettamenti e con promesse di onori e beni materiali: povero, prese la sua croce, si circondò di poveri, insegnando loro a chiedere a Dio il pane necessario. Non pretende decime, non ha servi, non magistrati armati, non usa la spada, ma tutti vivifica e consola. Cfr. CANTIMORI, op. cit., in loc. cit., pp. 388-89; IDEM, Testi e documenti per la storia degli eretici italiani del sec. XVI in Europa, cit., pp. 95 e segg.; PIOLI, op. cit., p. 233.

[26] Il triteismo professato dal Gribaldi e dal Gentili ammetteva nella Trinità tre veri Dei: il Padre, sommo, eterno creatore; il Figlio e lo Spirito Santo, ma come tre spiriti o sostanze spirituali, non già qualità, i quali non possono numericamente essere considerati come uno. L' unitarismo ammetteva un solo Dio, cioè il Padre, e Gesù, Messia divinamente concepito e ispirato, messaggero della vera religione e della retta morale, ma puro uomo. Cfr. PIOLI, op. cit., pp. 27-28.

[27] In loc. cit., pp. 399-400.

[28] DOELLINGER, loc. cit.; EM. COMBA, Hist. des Vaudois, 1901, I, pp. 652-53; ERN. COMBA, Il Sinodo di Chanforan, Boll. Soc. Stor. Vald., n.º 58, p. 26. Un valdese inquisito nell'anno 1506 « dixit quod confessus fuit omni anno a suo curato, tamen non detexit nec confessus fuit quod fuisset Valdensis».

[29] Vedi la nota 9 di questo capitolo. 30 Cap. III, all'anno 1548-49

[30] Cap. III, all’anno 1548-49.

[31] L'abbiamo analizzata nel cap. III. La lettera è pubblicata nel cap. III. La lettera è pubblicata nel Bull. Soc. Hist. Vaud. », n.º 9 (1890).

[32] Cfr. GILLES, op. cit., I, 100-105, 412 e segg.; LÉGER, op. cit., II, 52; JALLA, Stor. della Rifor. in Piem., I, 271; PASCAL, Una breve polemica tra il riformatore Celso Martinengo e Fra Angelo Castiglioni da Genova, in « Bull. Soc. Hist. Vaud.», 1915, n.º 35, PP. 77-89.

[33] Notizie sulla vita e le opere del Lentolo (1525-1599) si trovano nella prefazione della Historia delle grandi e crudels persecuzioni, edita nella introduzione ai Sofismi mondani, da T. GAY, Torre Pellice, 1906, editi dallo stesso Gay, Torre Pellice, 1907, sotto il titolo di Sofismi mondani trattato scritto nel 1560 da Scipione Lentolo, ora copiato alla Bibl. di Berna ed edito da Teofilo Gay colla biografia dell'Autore. Il trattatello comprendeva i fol. 112-120 del manoscritto della Historia. DE SIMONE, op. cit., pass.

[34] Sulla congrega riformata di Carignano, anteriormente all'anno 1560, in cui fu scritto il trattato a confutazione dei Nicodemiti, cfr.: LENTOLO, Historia ecc., pp. 117-120, e Sofismi Mondani, pp. 17-18; JALLA, op. cit., I, 126-130.

[35]  Per questa emigrazione a Ginevra verso la metà del sec. XVI, v. il cap. III e le opere ivi indicate.

[36] FICK, Le livre du Recteur, Ginevra, 1860; BORGEAUD, Hist. de l'Université de Genève-L'Académie de Calvin, Ginevra, 1900; JALLA, op. cit., 1. 379, 381. STELLING-MICHAUD, op. cit., pp. 81-83.

[37] I ministri riformati, adunati il 15 settembre 1563 in Angrogna ed il 18 aprile al Villar, in Val Luserna, decidono «que les ordonnances établies à Genève seront suivies par nous d'aussi près que possible ». JALLA, Synodes Vaudois, in «Bull. Soc., Hist. Vaud. », n.º 20, 1903, PP. 98-102. pp. 98-102. Le « Ordonnances ecclésiastiques de l'Église de Genève » furono stampate a Ginevra da Artus Chauvin nel 1561 e 1562, e in Opera Calvini, X, col. 91-120, Su questi rapporti con la riforma francese e ginevrina, cfr. il recente ed ottimo studio di G. PEYROT, Influenze franco-givevrine nella formazione delle discipline ecclesiastiche valdesi alla metà del XVI secolo, nel vol. cit. «Ginevra e l'Italia», pp. 217-25.

[38] Le lettere del Varaglia e gli atti del suo processo ci sono stati tramandati da LENTOLO nella cit. Historia delle grandi persecutioni, pp. 87-113.

[39] Queste notizie sommarie sul Truchi saranno completate nei capp. segg. Su di lui v. JALLA, op. cit., I, 220, 270-71, 275, 305, 312-14, 371 e Synodes Vaudois, in «Bull. Soc. Hist. Vaud. », n.º 20, cit.

[40] Sono conservati a Ginevra presso la Societé du Musée Historique de la Réformation (Archives Tronchin, vol. 63, ancienne série, C., n.º 1). Il 1° doc. comprende 21 pp., il 2° pp. 38.

[41] Il titolo esatto è il seguente: «Christianae ac Catholicae Fidei professio apud Illustrissimum ac Excellentissimum Galliae Cisalpinae Proregem D. Ludovicum Biragum: a Francisco Truchio, ob reformatae religionis Verbi Dei ministerium vincto edita: anno MDLXVIII et circiter nonas Maias exibita. Captivitatis vero suae anno secundo».

[42] Infatti nella chiusa della lettera il Truchi scrive: « Ecco, Eccell. Madama, quello che a certe poche hore habbiamo potuto cavare dal nostro debole ingenio et dalle molte occupationi, pregando Nostro Signore a darle tal successo che o sia in Vostra Eccellentia o chi si voglia altra persona che sia impedita da difficoltà di tale soggetto, per questo debol instromento possi essere rivocata nel sentiero della verità, ch'è il conoscere la vita eterna et ogni nostra vera felicità in uno solo Dio et Padre et nel suo Figliuolo, che ci ha mandato, et nella virtù del suo Santo Spirito, un solo Dio, a cui sia honor et gloria nei secoli de' secoli. Amen».

[43] Può stupire che, essendo nelle prigioni del castello, il Truchi potesse comprovare la sua professione di fede con tante precise citazioni marginali tratte dalla Bibbia e dalla patristica, ricorrendo alla sola memoria. E poiché neppure si può credere che nel carcere avesse a disposizione i libri che cita, è logico supporre che o le citazioni marginali furono inserite in seguito, a liberazione avvenuta, o che la professione di fede già era stata sostanzialmente abbozzata prima dell'arresto e non fu che rimaneggiata nel carcere.