Storia/Matthew Henry
Matthew Henry
Commentatore ed espositore della Bibbia. Figlio di un ministro evangelico della Chiesa di Inghilterra, nacque poco dopo che suo padre fu espulso dal ministero come conseguenza del Decreto di Uniformità. Ragazzo studioso, la sua conversione avviene nel 1672. Studia a Londra, in un’accademia nonconformista, e poi diventa professore di Legge a Gray Inn. Considera poi di diventare ministro della Chiesa di Inghilterra, ma poi decide di essere un nonconformista e viene privatamente consacrato ministro presbiteriano. Il suo primo pastorato è a Chester (1687-1712) e poi a Hackney (1712-1714). Molto influenzato dai Puritani, egli fa dell’esposizione biblica il centro del suo ministero. Cominciava a lavorare ogni giorno alle 4 o alle 5 della mattina, e intendeva usare appieno per lo studio tutte le ore disponibili. Nel 1704 cominciò a comporre quella che sarebbe stata l’opera per la quale ancora oggi è conosciuto: il Commentario alla Bibbia. Riesce però ad arrivare solo alla fine del libro degli Atti. Il resto verrà composto dai suoi amici nel ministero, sulla base delle sue note e scritti. Il suo stile di esposizione biblica, molto dettagliato e spiritualizzato, ha influenzato da allora tutto il mondo evangelico. C. H. Spurgeon riconobbe la sua dipendenza da Henry, molti altri gli hanno negato questa cortesia. I problemi di critica testuale non rientravano nella sua sfera di interesse. Basti pensare che poteva scrivere 190 parole di commento, incluso uno schema di sermone in tre parti, su un versetto come: "Quando Esaù ebbe quarant'anni, prese per moglie Judith, figlia di Beeri, lo Hitteo e Basemath, figlia di Elon, lo Hitteo. Esse furono causa di profonda amarezza a Isacco e Rebecca".
Commentatore ed espositore presbiteriano della Bibbia. Figlio di un ministro evangelico della Chiesa di Inghilterra, nacque poco dopo che suo padre fu espulso dal ministero come conseguenza del Decreto di Uniformità. Matteo Henry nasce a Broad Oak, fattoria gallese ad Iscoid, Flintshire, il 18 ottobre 1662. Suo padre, Filippo Henry, rinomato ministro della Chiesa di Inghilterra, era uno delle migliaia che avevano rassegnato le dimissioni o erano stati espulso perché avevano "dissentito" alle condizioni imposte dal Decreto di Uniformità, ed erano stati così chiamati "dissenzienti". Sua madre era di antica e onorevole famiglia. Aveva una modesta eredità, cosi Filippo Henry fu in grado di vivere a Broad Oak ed esercitare un ministero senza compenso fra la gente del distretto. Matteo era il loro secondo figlio – così fragile alla nascita che era stato battezzato ad un giorno solo di vita per timore che non sopravvivesse una settimana. Come ragazzo era fisicamente debole, ma mentalmente e spiritualmente molto forte e si dimostra studente abile e diligente. Di lui si dice che abbia letto ad alta voce un capitolo della Bibbia quando aveva solo tre anni! La sua conversione avviene nel 1672.
A Broad Oak, Filippo Henry frequentemente ospitava ed istruiva un candidato al ministero, che lo ripagava fungendo da tutore per i figli dello Henry. Uno di questi studenti, un certo William Turner, ispirò a Matteo passione per la lingua latina, e nel suo commentario troviamo diverse citazioni da classici. Fino all’età di 18 anni, la sua educazione fu supervisionata dal padre, studioso ed insegnante molto valente. A causa di un sempre più grande lassismo nelle università di Oxford e Cambridge, Matteo fu inviato, nel 1680 all’accademia di Islington, a Londra (le "Accademie dissenzienti", stabilite nel 1662 e negli anni seguenti, mantenevano un alto grado accademico proprio quando le antiche università inglesi avevano tradito la loro fiducia e pregiudicatisi il rispetto degli educatori più seri, che desideravano libertà intellettuale). Ad Islington era preside il famoso Thomas Doolittle, e suo assistente Thomas Vincent. Come altri accademici, egli fu forzato, dalla persecuzione, a trasferirsi altrove per cinque volte ma, nonostante le interruzioni, questa era considerata la maggiore accademia presbiteriana. A Broad Oak, sebbene fosse di aiuto considerevole a suo padre nell’opera pastorale, egli si rese conto che vi erano scarse possibilità di ricevere "la vocazione" ad un pastorato stabilito. Il villaggio era remoto, severe erano le restrizioni per i ministri dissenzienti, e non aveva alcuna voglia di rimanere relativamente inattivo. Decide cosi di ritornare a Londra, al Gray Inn e studiarvi legge. Fu subito evidente che la sua considerevole memoria e la facile eloquenza gli avrebbero riservato un futuro di rilievo. A quel tempo era largamente influenzato dalla predicazione del dott. Stillingfleet e dal dott. Tillotson al Lawrence Jewry. In quel tempo egli pure aveva raccolto alcuni suoi amici in un piccolo gruppo che si incontrava per la preghiera e lo studio biblico, proprio come più tardi i Wesley avrebbero fondato lo Holy Club a Oxford.
Ritornando a Broad Oak, egli cominciò a predicare come candidato per il ministero. La gente che lo udiva a Chester era così impressionata da lui da chiedergli di diventare loro pastore. Dopo molto esame di sé stesso, egli decise di rispondere a questa "chiamata". Alcuni ministri di Londra lo consacrarono così privatamente il 9 maggio 1687, ma solo nel 1702 egli ottenne un documento per certificare la regolarità della sua ordinazione presbiteriana 15 anni prima. Fu pastore a Chester dal 1687 al 1712.
La sua prima moglie Katherine Hardware, muore di vaiolo dando alla luce un bambino. Più tardi sposerà la nipote del giudice Peter Warburton. Sebbene tre dei loro nove figli muoiono da piccoli, questo matrimonio è felice come il primo. Nessuna tragedia domestica poteva pregiudicare la bellezza della sua vita familiare. Essa era modellata secondo quanto aveva avuto esperienza a Broad Oak, dove la casa di suo padre era chiamata "una casa di Dio ed una porta del cielo". A Chester Matteo Henry conduceva la preghiera in casa sua all’inizio ed alla fine della giornata. Al mattino esponeva l’Antico Testamento, alla sera il Nuovo. Queste esposizioni, probabilmente, emendate dalle domande e commenti della sua famiglia e dei vicini, furono alla base del suo commentario.
Nei culti pubblici egli di solito pregava per mezz’ora, predicava per un’ora, e cantava Salmi, da una selezione preparata da lui stesso. I suoi sermoni erano espositivi, mai politici, ma sempre pratici nella loro applicazione ai problemi della vita quotidiana. Frequentemente contenevano riferimenti alla condizione della gente nelle Chiese riformate del continente, che soffrivano di dure persecuzioni.
Il sabato egli teneva lezioni di catechismo per bambini, in preparazione alla loro partecipazione alla Cena del Signore che, come lui sottolineava, era il compimento del loro patto battesimale.
Sebbene avesse forti opinioni personali su dottrine cardinali, egli non era intollerante, e visitava tutti coloro che erano nel bisogno, non importa a quale denominazione appartenessero. Predicava sei giorni la settimana in diverse comunità in un raggio di trenta miglia, ma non voleva mai mancare dal suo pulpito la domenica a Chester. La sua influenza in città crebbe rapidamente, e fu costruito un nuovo locale di culto per ospitare la vasta assemblea che ora si riuniva per ascoltarlo.
Dopo essere guarito da una seria malattia nel 1704, egli comincia le sue Note al Nuovo Testamento, base del suo commentario, che si concludevano come sempre faceva nel suo diario, con la frase: "Il Signore mi aiuti ad avere in tutto questo sempre grande umiltà". Riesce però ad arrivare solo alla fine del libro degli Atti. Il resto verrà composto dai suoi amici nel ministero, sulla base delle sue note e scritti. Il suo stile di esposizione biblica, molto dettagliato e spiritualizzato, ha influenzato da allora tutto il mondo evangelico. I problemi di critica testuale non rientravano nella sua sfera di interesse. Basti pensare che poteva scrivere 190 parole di commento, incluso uno schema di sermone in tre parti, su un versetto come: "Quando Esaù ebbe quarant'anni, prese per moglie Judith, figlia di Beeri, lo Hitteo e Basemath, figlia di Elon, lo Hitteo. Esse furono causa di profonda amarezza a Isacco e Rebecca". Molto influenzato dai Puritani, egli fa dell’esposizione biblica il centro del suo ministero.
Sei anni più tardi, nel 1710, una "chiamata" gli pervenne da una comunità in Silver Street, Hackney, Londra. Era riluttante a lasciare Chester, ma sentiva che la sua opera sul commentario avrebbe avuto grande beneficio dall’aver accesso a Londra a molta letteratura. "Mi rattristo molto a lasciare Chester", diceva, "ma guardo a Te, o Signore".
Cominciava a lavorare ogni giorno alle 4 o alle 5 della mattina, e intendeva usare appieno per lo studio tutte le ore disponibili. Non sorprende che il voler adempiere ad una vasta opera di ministero e, al tempo stesso, di scrivere un grande commentario sull’intera Bibbia, lo avessero molto provato fisicamente. Era preoccupato per la scarsa qualità della vita religiosa in Inghilterra, e questo aumentava la sua debolezza. Nel 1714, visitando a Chester un suo amico, morì di apoplessia a Nantwich. Aveva solo 52 anni, e questa sembrava una tragica fine, ma uno dei suoi parenti disse: "Io credo che gli sia stato molto gradevole avere un così breve passaggio dal suo lavoro alla sua remunerazione finale". Avere esercitato un ministero così vigoroso ed intenso, essere stato pastore con tale introspezione nei problemi della gente, ed avere prodotto una tale opera monumentale come il suo Commentario, sono realizzazioni stupefacenti. Per circa tre secoli innumerevoli persone sono state illuminate ed ispirate dalla sua interpretazione delle Scritture. Le sue parti essenziali sono passati indenni allo scorrere del tempo, come pure al test dell’umana esperienza. La spiegazione di tutto questo certamente sta nella sua comunione con il Maestro e il suo costante interesse per i bisogni più profondi di coloro che gli erano stati affidati. C. H. Spurgeon riconobbe la sua dipendenza da Henry, molti altri gli hanno negato questa cortesia.
Dal diario di Matteo Henry, 1 gennaio 1704 riprendiamo questo testo, che testimonia dello spirito con cui visse ed operò.
"Questo primo giorno dell’anno, in cui io pur mi sento debole e afflitto da molte infermità, sulle mie ginocchia io torno a consacrare me stesso nuovamente, con tutto me stesso, tutto ciò che io sono, tutto ciò che io possiedo, tutto ciò che io posso fare, a Dio il Padre, al Figlio, ed allo Spirito Santo, il mio Creatore, Padrone, Reggitore e Benefattore. Che tutti i miei sentimenti siano governati dalla grazia divina, e tutti i miei affari determinati dalla divina Provvidenza, tanto che io giammai venga meno nel glorificare Iddio in questo mondo, e nell’essere glorificato con Lui in un mondo migliore.
Confermando e ratificando ogni mia passata consacrazione di me stesso a Dio, lamentando quanto il mio cuore e la mia vita non ne sia stata all’altezza, dipendendo dai meriti del Redentore per rendere questo come ogni altro servizio, a Lui accettevole, e dalla grazia del Santificatore che sola mi può mettere in grado di onorare questi impegni, io torno a legare la mia anima con un vincolo al Signore, dedicandomi interamente a Lui, soprattutto perché, per quanto riguarda gli eventi dell’anno che sto per entrare, non conosco ciò che mi potrà avvenire.
Se quest’anno sarà per me un anno di salute e conforto, io mi affido alla grazia di Dio affinché essa mi preservi dalla sicurezza carnale, per essere in grado, in tempo di prosperità, di servire Iddio con gioia. Se le opportunità d’essere ministro dovessero quest’anno continuare, io affido i miei studi ed opera ministeriale, in casa e fuori, alla benedizione di Dio, avendoli nuovamente consacrati al Suo servizio ed onore, desiderando di tutto cuore, per la misericordia del Signore, essere in essi fedele e coronato da successo.
Se quest’anno io dovessi essere in qualsiasi modo tentato da dubbi al riguardo del mio dovere, io mi affido alla conduzione divina, con desiderio sincero, pregando a che Iddio mi faccia conoscere ciò che debbo fare, e con la determinata risoluzione, per la grazia Sua, di seguire ogni Sua direttiva con integrità di cuore.
Se quest’anno io dovessi essere afflitto nel mio corpo, famiglia, nome o condizione, io affido tutto a ciò che Dio disporrà. Che la volontà di Dio sia fatta. Prego solo che la grazia di Dio possa accompagnarsi alla divina provvidenza in tutte le mie afflizioni, affinché io sopporti ed usi bene ogni cosa.
Se quest’anno dovesse essere disturbato e molestato nell’esercizio del mio ministero, se dovessi essere messo a tacere, o dovessi in qualche modo soffrire per avere bene operato, io affido la mia anima alla protezione di Dio, mio fedele Creatore, dipendendo da Lui affinché mi guidi nella mia vocazione a soffrire, e risolva ogni problema, preservandomi da ogni trappola che mi possa confondere. Dipenderò da Lui affinché mi sostenga e mi conforti nelle mie sofferenze, e che da esse Egli possa trarne maggiore gloria. Io accetterò tutto quanto la Sua volontà vorrà stabilire".
Caratteristiche del commentario di Matteo Henry
Il commentario sulla Bibbia, di Matteo Henry è, in molti sensi, unico nel suo genere. Ha continuato ad essere utile per circa tre secoli e, nonostante che le conoscenze siano aumentate, le sue introspezioni nelle verità spirituali ed eterne continuano a rendere quest’opera essenziale ed inestimabile per l’insegnamento.
E’ un’opera pratica e devozionale, scritta da un uomo che è stato considerato come fra i più grandi commentatori di tutti i tempi. Non è stata prodotta da un uomo chiuso nel suo studio ed interessato solo a questioni accademiche, ma è il risultato di esperienze pastorali e personali. Nei culti di famiglia in casa di suo padre, e più tardi nelle sue preghiere quotidiane con la propria famiglia, come pure in casa dei suoi vicini, egli non solo studiava le Scritture, ma imparava come applicarle nel migliore dei modi a giovani ed anziani, ricchi e poveri.
Matteo Henry descrisse così la sua opera: "esposizioni metodiche e pratiche… in abito semplice e domestico". Suo scopo, diceva, era "di promuovere la conoscenza delle Scritture, al fine di riformare il cuore e la vita degli uomini". Riconoscendo i problemi testuali e cronologici implicati, non era dogmatico nelle sue interpretazioni, ma concordava con Agostino che la Parola di Dio "ha abbastanza in essa di facile comprensione da nutrire anche il più incolto e condurlo a vita eterna", ma abbastanza pure da richiedere l’industriosità e l’umiltà del più grande fra gli studiosi. Scriveva con fiducia e autorità sui principi base di fede e di condotta, ma con tale modestia da guadagnarsi il generale rispetto. "Io non basto a me stesso", diceva, "ma per la grazia di Dio io sono quel che sono, e confido che quella grazia continuerà ad essere sufficiente anche per me".
Affrontando questo compito immane, adempiendo nello stesso tempo, un’intensa vita pastorale, egli chiedeva ai suoi amici di pregare affinché "gli potesse essere data intelligenza… tanto da essere trovato come fedele servitore di Gesù Cristo, perché sono l’ultimo che possa chiamarlo Maestro".
Con un profondo senso di vocazione egli aveva intrapreso quest’opera non come uno che voglia essere ricordato dai posteri come studioso – sebbene avesse familiarità con i classici e la patristica – ma piuttosto come pastore ansioso di guidare il suo gregge. Ecco perché l’opera è di grande valore, non solo storicamente come descrittiva del punto di vista puritano, ma come un’esposizione stimolante della misericordia e giustizia di Dio, e come affidabile guida per la condotta di tutti coloro che vogliono seguire la Sua volontà.
Sorprende forse che George Whitefield avesse letto quattro volte questo commentario – letteralmente in ginocchio – e parlasse sempre de "il grande Matteo Henry", a cui doveva così tanto. L’influenza diretta dei suoi scritti sui leader religiosi del 18° secolo era sentita indirettamente da molte delle grandi personalità del periodo ed essa a loro volta è passata fino a noi. Gli inni di William Cowper, per esempio, erano stati indubbiamente ispirati dallo spirito e persino dal frasario di Matteo Henry.
Nel leggere il commento di Matteo Henry a Le. 8:35, si possono riconoscere le parole che Charles Wesley più tardi usò nel suo grande inno: "A charge to keep I have". Persino diverse frasi del commentario di Henry sono diventate epigrammi popolari nella lingua inglese. Ciò che però più conta è che la sua interpretazione della Parola di Dio ha aiutato a creare ed a rafforzare gli standard di moralità mediante i quali il cristiano modella e dirige la sua vita.
I decreti di Uniformità (Acts of Uniformity)
Misure prese dal parlamento inglese in materia ecclesiastica. Sono da considerarsi in numero di quattro.
1) Il decreto del 1549. Questo statuto di Edoardo VI impone alla Chiesa di Inghilterra l’uso del primo Book of Common Prayer (libro di liturgia). Per il clero che non vi si sarebbe conformato, erano imposte diverse sanzioni: multa ed imprigionamento per la prima infrazione, sospensione del salario ed imprigionamento per la seconda, e prigione a vita per la terza. Il decreto pure dichiarava che tutti i culti (eccetto che nelle università e nella devozione privata) dovessero svolgersi il lingua inglese.
2) Il decreto del 1552. Altro statuto di Edoardo VI, ma emanato sotto il protettorato di Northumberland in un tempo di crescente conservatorismo politico e religioso. Stabiliva l’obbligo di usare il Book of Common Prayer in versione riveduta, ed estendeva le sanzioni del decreto precedente fino ad includere l’assenza dai culti e la partecipazione a conventicole private. I decreti del 1549 e del 1552 furono entrambi abrogati dalla regina cattolica Maria di Tudor, nell’ottobre 1553.
3) Il decreto del 1559. Stabiliva il compromesso adottato dalla regina Elisabetta sulla situazione religiosa e regolò la disciplina della Chiesa di Inghilterra per i prossimi 90 anni. Abrogava tutta la legislazione della regina Maria, che aveva ristabilito il Cattolicesimo, e stabiliva l’uso di un’edizione leggermente modificata del Book of Common Prayer del 1552. Le sanzioni venivano ristabilite, e i paramenti sacri dovevano essere quelli stabiliti nel 1549. La regina stessa veniva stabilita come Capo della Chiesa, riservandosi il privilegio di introdurre ulteriori necessarie cerimonie e riti – provvedimento questo poi fortemente contestato dai puritani.
4) Il decreto del 1662. La più importante delle leggi che ristabiliva l’istituzione della Chiesa di Inghilterra, stabilito dal parlamento dei cavalieri di Carlo II, in seguito alla Restaurazione, e il primo di questi atti fu il decreto di repressione sistematica conosciuto come il Clarendon Code. Imponeva l’universale adozione di una forma leggermente riveduta del Prayer Book elisabettiano, ricevendo il consenso regale il 19 maggio. Prima del giorno di S. Bartolomeo (24 agosto) tutti i ministri di culto dovevano pubblicamente dovevano dare il loro "consenso ed assenso non finto" al Prayer Book, e ricevere la consacrazione da parte del vescovo, se questa non era ancora stata per loro eseguita. Doveva pure essere fatto un giuramento di fedeltà e di ripudio del National Covenant. Questi provvedimenti condussero alla grande espulsione (Great Ejection) di circa 2000 ministri presbiteriani, indipendenti e battisti, il che condusse alla definitiva separazione fra Anglicani e Puritani, e la susseguente nascita del Nonconformismo inglese. Per quanto riguarda i dissenzienti, l’atto fu reso praticamente non operativo dall’Atto di Tolleranza di William e Mary (1689), ma rimaneva in vigore per la Chiesa di Inghilterra, sebbene fosse più tardi modificato in diverse direzioni – in modo particolare durante l’episcopato di A. C. Tait. Storicamente, gli ecclesiastici "aperti" lo hanno valorizzato come base di unità e pluralismo all’interno della Chiesa stabilita, e gli evangelici lo hanno considerato una salvaguardia dei 39 articoli. I ministri della "Chiesa alta", specialmente i più estremisti, lo trovavano però vessatorio e restrittivo.
Il codice di Clarendon
Il parlamento, detto Cavalier o dei Pensioner si riunì la prima volta l’8 maggio 1661. Emanò una serie di severi statuti conosciuti appunto come il Codice di Clarendon. Essi erano il Corporation Act (1661), il Act of Conformity(1661), il Conventicle Act (1664) e il Five Mile Act (1665). Loro scopo era quello di rimuovere dal ministero della Chiesa, come pure dai governi nazionale locale, tutti coloro che non sottoscrivessero alla liturgia e dottrina della Chiesa di Inghilterra. Il suo nome deriva dal principale proponente, Sir Edward Hyde, Earl of Clarendon (1609-74), che fu Lord Cancelliere sotto Carlo II, ma che comunque non ne è il solo responsabile.
PREFAZIONE AL COMMENTARIO BIBLICO SCRITTA DALLO STESSO MATTHEW HENRY
Sebbene la mia principale preoccupazione sia di poter dare buona testimonianza di me stesso a Dio ed alla mia stessa coscienza, ci si aspetta forse che io offra al mondo qualche spiegazione circa quest’ardita impresa. Mi sforzerò di farlo con chiarezza, come colui che crede che se in quel grande giorno si chiederà conto d’ogni oziosa o malvagia parola che gli uomini avranno detto, a maggior ragione si chiederà conto d’ogni oziosa o malvagia riga che avranno scritto. E forse sarebbe utile, in primo luogo, esporre i grandi e sacri principi sui quali mi fondo e dai quali sono governato in questo sforzo di spiegare e valorizzare i sacri scritti; sforzo che offro umilmente al servizio di coloro che con me sono d’accordo su questi sei principi (credendo che in effetti esso sarà gradito solo a loro):
I. Che la religione è la sola cosa utile; e che conoscere, amare e temere Dio Creatore, osservando i suoi comandamenti (Ec 12:15) con ogni devoto sentimento e con una sana condotta, è il tutto dell’uomo. Questa è la conclusione del ragionamento (il quod erat demostrandum di tutto il discorso) cui giunge il più saggio fra gli uomini, nel suo Ecclesiaste, dopo stringenti ed ampie riflessioni. Mi si consenta, quindi, di porre questa affermazione come un postulatum, una premessa non discutibile, il fondamento di tutta l’opera. In generale, è utile, per l’umanità, che nel mondo ci sia la religione: essa è assolutamente necessaria alla tutela dell’onore degli esseri umani e, cosa non meno importante, alla conservazione dell’ordine delle loro società. La pietà è necessaria anche a ciascuno di noi in particolare; altrimenti non corrisponderemmo all’obiettivo della nostra creazione, non otterremmo il favore del nostro Creatore, non potremmo vivere bene adesso, e felici per sempre. Un uomo che pur essendo fornito della forza della ragione, tramite la quale può conoscere, servire, glorificare, e gioire del suo Fattore, vive senza Dio nel mondo (Ef 2:12), è sicuramente l’essere più spregevole e miserabile sotto il cielo.
II. Che la divina rivelazione è necessaria alla vera religione, alla sua esistenza ed al suo sostegno. La fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio, non può raggiungere alcuna perfezione solo nella contemplazione delle opere di Dio: essa deve provenire dall’ascolto della parola di Dio (Ro 10:17). Senza quel soprannaturale disvelamento che egli fa di se stesso, dei suoi pensieri e della sua volontà, l’anima razionale, avendo ricevuto il fatale colpo della caduta, non riesce a produrre e a nutrire una corretta conoscenza del grande autore della sua stessa esistenza, né può provare la giusta riverenza o manifestare la giusta fede in lui, cose che sono insieme il suo dovere e la sua gioia. Fino al punto in cui può giungere, la luce naturale è senz’altro di grande utilità, ma la divina rivelazione è necessaria a correggere i suoi errori, ovviare alle sue insufficienze, aiutare laddove la conoscenza naturale non può più soccorrere. Questo vale soprattutto per quello che riguarda la via ed il modo attraverso il quale l’uomo si rialza dallo stato della caduta, riguadagnando il favore del suo Creatore; favore che non può non essere consapevole di aver perduto, realizzando per triste esperienza che il suo stato presente è peccaminoso e miserabile. La ragione ci mostra la ferita, ma nulla di meno della divina rivelazione potrà rivelarci il rimedio nel quale possiamo confidare. L’esempio e la natura di quelle nazioni della terra che (a parte qualche piccola reminiscenza della divina istituzione dei sacrifici trasmessa loro attraverso i padri) non possono affidare le loro pratiche religiose che al governo della luce naturale, mostrano chiaramente quanto la divina rivelazione sia il necessario fondamento della religione. Infatti, coloro che non ebbero la parola di Dio ben presto hanno persero Dio stesso, diventando insensati nei loro ragionamenti su di lui, ed incredibilmente indegni ed assurdi nell’adorazione e nel culto. È vero, gli ebrei, che avevano il beneficio della rivelazione divina, caddero talvolta nell’idolatria, e consentirono corruzioni molto grossolane; tuttavia, con l’aiuto della legge e dei profeti, si ravvidero e si riformarono. Al contrario, la migliore e più osannata filosofia dei pagani nulla poté contro la volgare idolatria, nonostante si proponesse di abolire almeno qualcuno di quei riti barbari e ridicoli, scandalo e condanna del genere umano. Che gli uomini, dunque, deisti o atei, affermino ciò che vogliono: coloro che osannando quelli della ragione, disprezzano gli oracoli di Dio e li reputano superflui, minano le fondamenta d’ogni religione, e fanno tutto ciò che possono per interrompere il dialogo fra l’uomo e il suo Creatore, ponendo quella nobile creatura allo stesso livello delle bestie che periscono.
III. Che la divina rivelazione non può essere rinvenuta né può trovare coerenza che nelle e con le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, dove, in effetti, essa si trova. È vero, anche prima della parola scritta c’era una religione ed una divina rivelazione; ma argomentare per questo che le Scritture non siano adesso necessarie, sarebbe assurdo come affermare che il mondo potrebbe benissimo fare a meno del sole, visto che nella creazione quello fu formato, come la stessa luce, tre giorni prima di questo. Nel momento in cui furono date, le divine rivelazioni ricevettero conferma per mezzo di visioni, miracoli e profezie; ma era necessario che fossero trasmesse, insieme alle prove ed alle dimostrazioni che le accompagnavano, a luoghi remoti ed alle età future, e che ciò avvenisse per mezzo della forma scritta, il più sicuro sistema di comunicazione, attraverso il quale è preservata e propagata la conoscenza d’ogni cosa memorabile. Abbiamo motivo di ritenere che anche i dieci comandamenti, sebbene promulgati con tanta solennità sul Monte Sinai, sarebbero stati perduti e dimenticati già da molto tempo, se fossero stati affidati solo alla tradizione e non fossero mai stati messi per iscritto: ciò che rimane è ciò che viene scritto. La Scrittura non è redatta come un sistematico trattato di teologia, secundum artem – secondo i canoni, ma sfruttando molte forme letterarie (storie, leggi, profezie, canti, lettere, ed anche proverbi), in tempi diversi e da molte mani, come la Divina Saggezza ritenne opportuno. Lo scopo viene di fatto raggiunto; alcune cose vengono senz’altro date per presupposte e scontate, ed altre sono specificatamente rivelate e rese note. Tutto l’insieme ci trasmette sufficiente conoscenza circa le verità e le leggi della santa dottrina che dobbiamo professare e dalla quale dobbiamo essere diretti. È certo che ogni scrittura è ispirata da Dio (2 Ti 3:16) e che degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo (2 P 1:21), ma chi può pretendere di spiegare l’ispirazione? Nessuno conosce le vie dello Spirito, né come si formarono i pensieri nei cuori di coloro che furono ispirati, non più di come possiamo conoscere il modo in cui l’anima vive nel corpo, o di come si formino le ossa in seno alla donna incinta (Ec 11:5). Possiamo tuttavia essere certi del fatto che non solo il benedetto Spirito preparò e qualificò per tale servizio i redattori di quelle pagine, mettendo nel loro cuore il proponimento di scriverle, ma venne anche in soccorso della loro intelligenza e memoria, quando dovettero registrare le cose delle quali avevano conoscenza diretta, proteggendo efficacemente dagli errori e dalle sviste. Per quanto riguarda i fatti che essi stessi non potevano conoscere se non per rivelazione (vedi, ad esempio, Ge 1 e Gv 1), lo stesso benedetto Spirito ne diede loro chiara e soddisfacente conoscenza. E non v’è dubbio che quando ciò si rese necessario per il fine prefissato, essi furono diretti dallo Spirito anche nella scelta del linguaggio e delle espressioni da usare. Infatti, si trattava di parole insegnate dallo Spirito (1 Co 2:13) e Dio stesso disse al profeta: «Riferisci loro le mie parole» (Ez 3:4).Tuttavia, quando ci accostiamo alla legge, non è essenziale per noi discernere quanta libertà ci si prese, dal punto di vista letterale, nel redigerla: una volta ratificata, la norma diventa atto del legislatore, ed obbliga i suoi destinatari ad osservarne il vero scopo e significato. La Scrittura dimostra la propria autorità ed origine divina sia ai savi che agli ignoranti. Ai meno saggi ed eruditi, tali caratteri vengono ampiamente palesati dai miracoli narrati da Mosè e dai profeti, da Cristo e dagli apostoli, prodigi che confermano la sua autenticità e la validità delle norme che essa contiene: immaginare che il sigillo divino sia stato apposto sopra una bugia sarebbe un’intollerabile affronto alla Verità eterna. Ma ai più saggi ed avveduti, ai più prudenti e riflessivi, essa raccomanda se stessa per le sue innate eccellenze: caratteri che servono a dimostrarne l’origine divina. Se guardiamo con attenzione, coglieremo facilmente l’impronta di Dio ed il sigillo suo. Una mente correttamente disposta in umile e sincera soggezione al proprio Fattore scoprirà senza difficoltà l’impronta della sapienza di Dio, nelle meravigliose profondità dei suoi misteri; l’impronta della sua sovranità, nell’autorevole maestà dello stile; l’impronta dell’unità, nella meravigliosa armonia e simmetria delle varie parti; l’impronta della santità, nella purezza senza macchia dei suoi precetti; e l’impronta della sua bontà, nel chiaro disegno complessivo, inteso al benessere ed alla felicità dell’umanità in questo e nell’altro mondo. In altre parole, è un’opera che si raccomanda da sé. Quindi, sia atei che deisti, anche se si vantano orgogliosamente della loro ragione, come se la saggezza dovesse morire con loro, incorrono nella più grossolana e disonorevole assurdità che si possa immaginare. Infatti, se la Scrittura non è la parola di Dio, non v’è alcuna divina rivelazione nel mondo, né alcun disvelamento dei pensieri di Dio riguardo ai nostri doveri ed alla nostra felicità: e quindi, per quanto un uomo possa essere desideroso ed ansioso di fare la volontà del suo Creatore, sarà irrimediabilmente destinato a perire ignorandola, visto che non c’è altro libro che si assuma il compito di esporla. Questa è una conclusione che in nessun modo possiamo conciliare con l’idea che abbiamo della divina bontà. Oltre a ciò (ed anche questa non è assurdità meno grossolana) se le Scritture non sono la divina rivelazione, allora sono sicuramente un grande inganno tramato ai danni di tutto il mondo. Ma un tale pensiero non avrebbe alcun fondamento. Infatti, degli uomini malvagi non avrebbero mai scritto un libro tanto buono, né Satana poteva essere così astuto da aiutare a cacciare Satana; e uomini sinceri non avrebbero mai fatto una cosa tanto empia, quale quella di contraffare il sigillo celeste, usandolo per legittimare il prodotto dei propri pensieri, per quanto santi tali pensieri protessero essere. No, queste non son parole di un indemoniato (Gv 10:21).
IV. Che le scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento sono state specificamente pensate per il nostro insegnamento. Se fosse stata una rivelazione utile solo a quelli nelle cui mani fu data da principio, noi, che, che ne siamo così lontani, non dovremmo più preoccuparcene. Al contrario, quelle parole furono sicuramente intese ad essere d’utilità e ad avere valore normativo nei confronti di tutti quelli che, in ogni luogo ed età, ne fossero venuti a conoscenza, anche fino agli estremi confini del mondo (Vedi Ro 15:4). Sebbene non ci troviamo sotto la legge (in tal caso, essendo colpevoli, dovremmo inevitabilmente perire per effetto della sua maledizione), non si tratta di statuti superati. Al contrario, è la permanente dichiarazione della volontà di Dio riguardante il bene ed il male, il peccato ed il dovere. La sua pretesa d’ubbidienza è come sempre pienamente in vigore. A noi come a loro (cui all’inizio fu trasmessa) è stata annunziata una buona novella (quella della legge rituale), in maniera molto più chiara (Eb 4:2). I racconti dell’Antico Testamento furono scritti per nostra ammonizione e direzione (1 Co 10:11), e non solo per nostra informazione o per il diletto dei curiosi. I profeti, anche se sono morti da così lungo tempo, continuano a profetizzare, attraverso i loro scritti, sopra molti popoli e nazioni (Ap 10:11), e le esortazioni di Salomone parlano a noi come ai suoi stessi figli. Il soggetto della Sacra Scrittura è universale e perpetuo, e quindi, è di interesse generale.
Il suo scopo è:
1. Ridare vita alle leggi di natura, universali e perpetue, le cui vestigia (o meglio, rovine) che si trovano nella coscienza naturale ci esortano a ricercarne altrove una più evidente esposizione.
2. Rivelare la legge della grazia, universale e perpetua, nella quale abbiamo motivo di sperare, se consideriamo la generale benevolenza usata da Dio nei confronti dei figli degli uomini, manifestata nel fatto di averli posti in una situazione migliore di quella in cui si trovano i demoni.
Allo stesso modo, la divina autorità, che in questo libro comanda la nostra fede ed ubbidienza, è universale e perpetua, e non conosce limiti, né di tempo, né di spazio. Da questo deriva che ogni nazione ed età cui questi sacri scritti vengono trasmessi è obbligata a riceverli con la stessa venerazione e lo stessa pia considerazione che essi comandavano quando furono introdotti la prima volta. Sebbene Dio, in questi ultimi giorni, abbia parlato a noi mediante il suo Figliuolo, non dobbiamo tuttavia pensare che quello che egli disse in molte volte e in molte maniere ai padri (Eb 1:1) non sia più di alcuna utilità per noi, o che l’Antico Testamento non sia altro che una vecchia storia senza attualità. No. Noi siamo stati edificati sul fondamento dei profeti, così come su quello degli apostoli, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare (Ef 2:20), nella quale si incontrano ed uniscono entrambi i lati di questo benedetto edificio. Cristo e gli apostoli fecero spesso riferimento e si appellarono a quelle istituzioni dell’antica comunità ebraica, ordinandoci di investigarle e tenerle presenti. Come i funzionari di Giosafat (2 Cr 17:9), i predicatori del vangelo portavano con sé questo libro della legge dovunque andassero, e se ne servivano ampiamente quando parlavano a coloro che avevano conoscenza della legge (Ro 7:1). La famosa traduzione dell’Antico Testamento in lingua greca, realizzata dai Settanta, fra 200 e 300 anni prima della nascita di Cristo, fu per le nazioni una felice preparazione al vangelo, realizzata tramite la diffusione della conoscenza della legge. Infatti, così come il Nuovo Testamento spiega e completa l’Antico, e quindi lo rende più utile a noi di quanto non fosse alla comunità ebraica, allo stesso modo, l’Antico Testamento conferma ed illustra il Nuovo e mostra che Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre.
V. Che le Sacre Scritture non furono pensate solo per il nostro insegnamento, ma costituiscono il corpo delle regole stabilite per governare la nostra fede e la nostra vita pratica, quelle norme dalle quali, al tempo presente, dobbiamo essere diretti, e fra breve, giudicati. Questo non è solo un libro di generiche meditazioni (tali possono essere gli scritti degli uomini saggi e buoni), ma è un’autorità sovrana e normativa, lo statuto del regno di Dio, che dobbiamo osservare in virtù del patto di fedeltà che abbiamo giurato a lui, nostro Signore supremo. Sia che ascoltiamo, sia che non ascoltiamo (Ez 2:5), occorre che ci si dica che questo è l’oracolo che dobbiamo consultare e dal quale dobbiamo essere condotti, la pietra di paragone che ci misura e che prova le nostre dottrine, la regola alla quale dobbiamo guardare per adeguare ad essa ogni sentimento e condotta e per prendere tutte le decisioni. Questa è la testimonianza, la legge chiusa e sigillata fra i discepoli, quella parola che, se non parliamo in accordo ad essa, è perché non vi è per noi alcuna aurora (Is 8:16,20 – trad. King James). Farci governare dalla luce interiore, che per natura non è che tenebra, e che quando sia toccata dalla grazia non può che essere una copia della parola scritta, alla quale deve conformarsi, sarebbe come porre il giudice al di sopra della legge. Lasciare che le tradizioni della chiesa rivaleggino con le Scritture non sarà certo meglio: sarebbe come se si permettesse all’orologio, che ognuno può regolare avanti o indietro a proprio piacimento, di correggere il sole, fedele misuratore del tempo e dei giorni. Se tali assurde posizioni prendono piede, migliaia di persone le abbracciano, come ben sappiamo per nostra triste esperienza.
VI. Che per tali ragioni è dovere di tutti i cristiani studiare con diligenza le Scritture, ed è compito dei ministri guidarli ed assisterli in questo. Questo libro di libri, per quanto possa essere utile in se stesso, non produrrà alcun bene a noi, se non acquistiamo familiarità con esso, leggendolo e meditandolo giornalmente, in modo da comprendere in esso i pensieri di Dio, applicando a noi stessi le cose che apprendiamo, per nostra direzione, rimprovero, conforto, secondo l’occasione. È nel carattere dell’uomo santo e felice di trovare diletto nella legge del Signore. A riprova di questo, egli si intrattiene con essa come col suo abituale compagno, e ne trae suggerimenti come dai suoi più saggi e fidati consiglieri. Infatti, su quella legge medita giorno e notte (Sl 1:2). Ci dobbiamo preoccupare di essere versati nelle Scritture e di renderci tali attraverso la lettura costante e l’attento studio, rivolgendo a Dio fervide richieste per ricevere il dono promesso dello Spirito Santo, il cui ufficio è di rammentarci tutte le cose dette da Cristo (Gv 14:26), di modo che possiamo avere a portata di mano l’una o l’altra buona parola, che ci sia utile nel parlare a Dio, nelle conversazioni con gli uomini, nel resistere a Satana e nella meditazione personale. In tal modo saremo resi capaci, insieme al buon padrone di casa, di tirar fuori da questo tesoro, cose nuove e cose vecchie (Mt 13:52), per la gioia e l’edificazione nostra e degli altri. Se c’è qualcosa che può rendere l’uomo di Dio, compiuto in questo mondo, che possa perfezionare un semplice cristiano o un ministro, che possa appieno fornirlo per ogni opera buona (2 Ti 3:17), non può che essere questa. Dobbiamo anche preoccuparci di essere potenti nelle Scritture proprio come era Apollo (At 18:24). Questo vuol dire che dobbiamo avere piena dimestichezza con il loro vero scopo e significato, in modo da comprendere ciò che leggiamo, senza interpretarlo o applicarlo male, ma, attraverso la guida del benedetto Spirito, essendo condotti in tutta la verità (Gv 16:13), attendendo a queste cose con fede e con l’amore (2 Ti 1:13), intendendo ogni parte della Scrittura secondo lo scopo per cui fu concepita. Senza lo Spirito, la lettera, della legge o del vangelo, giova a ben poco. I ministri di Cristo, quindi, sono ministri dello Spirito per il bene della chiesa; il loro servizio consiste nello spiegare ed applicare correttamente le Scritture. Perciò, essi devono affinare la loro conoscenza, le loro dottrine, devozioni, direzioni, ammonizioni, e dunque il loro stesso linguaggio e la loro attitudine. Nei primi e più puri anni della chiesa, spiegare le Scritture era il modo più frequente di predicare. Che cosa dovevano fare i leviti, se non insegnare gli statuti a Giacobbe (De 33:10), e cioè, non solo leggerli, ma anche darne il senso, per far capire al popolo quel che s’andava leggendo (Nehemia 8:8) E come avrebbero potuto capire, senza alcuno che li guidasse (At 8:31) Così come i ministri saranno difficilmente creduti, se dietro di loro non c’è la Bibbia, allo stesso modo, difficilmente si potrà comprendere la Bibbia, se non ci sono ministri che la spiegano; ma se pur disponendo di entrambi, periamo nell’ignoranza e nell’incredulità, il nostro sangue ricadrà sul nostro stesso capo.
Essendo quindi profondamente convinto di queste cose, ne concludo che qualunque aiuto offerto ai buoni cristiani nel loro studio delle Scritture è un servizio che in verità viene reso alla gloria di Dio e a vantaggio del suo regno fra gli uomini. Questo è ciò che mi ha indotto a questa impresa, nella quale sono andato avanti con debolezza, con timore e con gran tremore (1 Co 2:3), temendo di trattare cose troppo alte per me, e che un’impresa tanto lodevole dovesse ricevere danno da una maldestra gestione. A chi voglia sapere come mai mi sia avventurato in un lavoro così imponente, io, così basso ed oscuro, inferiore al minino di tutti i servi del mio Signore per istruzione, giudizio, felicità d’espressione ed ogni altra dote necessaria a questo genere di fatica, non posso dare altra spiegazione che questa: è sempre stata mia abitudine, nel poco tempo che mi rimane libero dalla preparazione per il pulpito, di dedicarmi al commento di varie parti del Nuovo Testamento, non solo per mia utilità, ma ancor più per mio diletto. Non saprei, infatti, come impiegare in modo più soddisfacente i miei pensieri ed il mio tempo. Trahit sua quemque voluptas – Ogni studioso ha qualche materia prediletta, che gli dà gioia al di sopra d’ogni altra. E questa è la mia. È quell’apprendimento che era la mia felicità sin da quando, ragazzo, ero educato dal mio onorato padre, la cui memoria mi sarà sempre molto cara e preziosa: egli mi ricordava spesso che un buon conoscitore dei testi sacri è un buon teologo, e che dovevo leggere gli altri libri sempre sotto la luce di questo, in modo da essere quanto più possibile capace di comprendere ed applicare la Scrittura. Mentre ero intento in tali cose, fu pubblicato il commentario del signor Burkitt (prima dei Vangeli, poi degli Atti degli Apostoli), che ebbe molto successo fra le persone avvedute e che sicuramente continuerà, per la benedizione di Dio, a rendere un grande servigio alla chiesa. Poco dopo che egli aveva finito quel lavoro, piacque a Dio di chiamarlo presso il suo riposo. A seguito di ciò, fui incoraggiato da parte di alcuni amici, mentre io stesso v’ero propenso, a tentare analoga impresa con l’Antico Testamento, nella forza della grazia di Cristo. Questo commento che riguarda il Pentateuco viene umilmente offerto come un saggio. Se troverà favore e sarà ritenuto in qualche modo utile, è mio proponimento, in dipendenza dell’aiuto divino, continuare, fino a quando Dio mi darà vita e salute, secondo quello che mi sarà consentito dagli altri miei impegni. So che nella nostra lingua abbiamo molti sussidi di questo genere, che abbiamo ogni motivo di apprezzare e per i quali dobbiamo essere molto grati a Dio: ma la Scrittura è un soggetto che non può mai essere esaurito. Semper habet aliquid relegentibus – ogni volta che la leggiamo, troviamo sempre qualcosa di nuovo. Dopo che Davide ebbe ammassato un grande tesoro per la costruzione del tempio, disse tuttavia a Salomone: «Tu ve ne potrai aggiungere ancora» (1 Cr 22:14). La conoscenza della Scrittura è un tesoro tale da poter sempre essere incrementato, fino a quando tutti noi non giungiamo alla perfezione. La Scrittura è un campo, o una vigna, che richiede il lavoro di molte mani ed intorno alla quale si può impiegare una grande diversità di doni e di operazioni, ma, notiamo, sempre per il medesimo Spirito (1 Co 12:4,6) e per la gloria di un medesimo Signore. Gli studiosi di lingue e degli antichi usi sono stati molto utili alla chiesa (la benedetta affittuaria di questo campo) con le loro approfondite e complesse ricerche circa i vari prodotti, la conformazione delle piante, gli interessanti studi che hanno prodotto al riguardo. Per la fede, la critica filologica è stata molto più utile della filosofia delle accademie teologiche, ed ha gettato, sulle sacre verità, molta più luce di quanto quella non abbia fatto. Anche i dotti polemisti hanno reso un grande servizio, nel difendere il giardino del Signore contro i violenti attacchi delle potenze delle tenebre, sostenendo vittoriosamente la causa delle Sacre Scritture contro gli oltraggiosi cavilli degli atei e dei deisti, e le beffe profane di questi nostri ultimi giorni. È giusto che costoro siano onorati e lodati, come in effetti sono, in tutte le chiese. Tuttavia, la fatica dei vignaioli e dei contadini, i poveri del paese, coloro ai quali viene affidata la terra per raccoglierne i frutti (1 R 25:12), non è meno necessaria e di beneficio alla casa di Dio, in quanto consente che ciascuno riceva la sua giusta porzione, a suo tempo, del prezioso prodotto della conoscenza. Questa è la fatica alla quale ho posto mano, secondo la mia capacità. E così come i semplici predicatori e i divulgatori non diranno mai degli eruditi che non c’è bisogno di loro, così, si spera che quegli occhi e quei capi non diranno alle mani e ai piedi: «Non ho bisogno di voi» (1 Co 12:21).
Ultimamente, gli studiosi hanno ricevuto grande utilità nei loro studi su questa parte dei sacri scritti, in virtù dell’eccellente e validissimo lavoro di quell’uomo grande e buono, il vescovo Patrick, al quale le età future non mancheranno di attribuire un posto fra i tre più grandi commentatori, in forza della sua vasta cultura, del solido giudizio e della felicissima applicazione di tali virtù agli studi, continuata anche quando era già avanzato di età e di onori. Dio sia benedetto per lui. Le “English Annotations”, del sig. Pool (che contenendo così tante impronte diverse, possiamo supporre siano il prodotto di molte mani) sono di ammirevole utilità, specialmente nella spiegazione di certe espressioni scritturali, di cui aprono il senso, facendo i riferimenti ai passi paralleli, ed eliminando le difficoltà che possono sorgere. Quindi sono stato conciso su tutti quei punti che sono già stati ampiamente discussi, e mi sono impegnato, per quanto ho potuto, a non includere quello che si poteva trovare in quelle fonti. Infatti, non volevo actum agere – fare quello che già era stato fatto, né (se m’è consentito prendere in prestito le parole dell’apostolo), gloriarmi … di cose bell’e preparate (2 Co 10:16). Quelle “annotazioni” sono di più facile consultazione quando si utilizzano, secondo l’occasione, per spiegare l’una o l’altra delle parole o frasi alle quali si riferiscono e che ci si propone di approfondire, ma un’esposizione come la presente, posta sotto forma di discorso continuo ed organizzato per capitoli, è più facile e pratica da leggere di seguito, sia per lo studio personale, sia per l’insegnamento. Credo che il tener conto della connessione di ciascun capitolo (là dove possibile) con quello che precede, l’esposizione dello scopo generale e dello sviluppo del racconto o del discorso, il compendio delle varie parti fatto in modo che si possano tutte abbracciare con una sola occhiata, saranno caratteristiche che contribuiranno molto alla comprensione e daranno piena percezione del proposito generale, anche se qua e là ci possono essere parole ed espressioni difficili che neppure i migliori esperti riescono bene a spiegare. Questo è quello che ho cercato di fare.
Tuttavia, noi non ci preoccupiamo solamente di capire quello che leggiamo, ma anche di utilizzarlo per qualche buon fine, di esserne toccati e trasformati. La parola di Dio è destinata ad essere non solo una lampada al mio piè, ossia, l’oggetto della nostra contemplazione, ma anche una luce sul mio sentiero (Sl 119:105), per dirigerci sulle vie del dovere ed impedirci di allontanarcene per via. Quindi, mentre studiamo le Scritture, non dobbiamo solo domandarci «Che significa questo?», ma anche «Che significa questo per noi?». Quale buon uso possiamo farne? Come possiamo applicarlo a qualcuno degli scopi di quella vita divina e celeste che, per la grazia di Dio, abbiamo deciso di vivere? È a domande di questo genere che mi sono proposto di rispondere. Giacché la pietra è stata rimossa dalla bocca del pozzo, attraverso la spiegazione letterale del testo, ci sono poi quelli che vogliono bere essi stessi ed abbeverare le loro greggi? O si lamentano che il pozzo è profondo e che non hanno nulla per attingere e quindi non possono avere cotest'acqua viva (Gv 4:11) Forse alcuni di loro qui potrebbero trovare una secchia, o dell’acqua già attinta per loro. In quanto a me, sarei ben felice di avere solo il compito dei Gabaoniti: attingere acqua per tutta la raunanza, dal pozzo della salvezza (Gs 9:21).
L’obiettivo della mia esposizione è di dare quello che ritengo il senso vero, e di renderlo quanto più possibile accessibile a tutti, non mettendo in difficoltà i miei lettori con le diverse vedute degli scrittori, il che sarebbe stato come riproporre la “Latin Synopsis” del sig. Pool, dove tutto questo è ampiamente fatto, per nostra soddisfazione ed utilità. Per quanto riguarda le osservazioni pratiche, non mi sono obbligato a tirar fuori dottrine da ogni versetto o paragrafo, ma mi sono sforzato di inserire nella spiegazione quegli appunti o quelle note che ho ritenuto utili a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia (2 Ti 3:16), cercando, in ogni cosa, di promuovere la santità pratica e di evitare accuratamente materie di contrasto o dispute di parole. Solo il successo della potenza della religione nei cuori e nelle vite dei cristiani riuscirà a fare piazza pulita dei nostri mormorii, trasformando il deserto in campo fruttifero. E poiché il nostro Signore Gesù Cristo è il vero tesoro nascosto nel campo dell’Antico Testamento, ed è l’Agnello ucciso sin dalla fondazione del mondo (Ap 13:18 – trad. King James), sono stato attento ad osservare cosa Mosè, cui tante volte egli si appellò, scrisse di lui. Negli scritti dei profeti ci imbattiamo nella maggior parte delle promesse più chiare ed esplicite riguardanti il Messia e la grazia del vangelo, ma qui, nei libri di Mosè, troviamo una maggiore quantità di tipi, oggetti o persone che rappresentano colui che doveva venire, ombre raffiguranti la realtà dell’essenza di Cristo (Ro 5:14). Coloro che vivono in Cristo vi troveranno cose molto istruttive e coinvolgenti, che saranno di grande impulso alla fede, all’amore, alla santa gioia. Questo è quello che soprattutto cerchiamo nelle Scritture: la loro testimonianza di Cristo e della vita eterna (Gv 5:39). Né si può dubitare della correttezza di quest’applicazione delle istituzioni rituali a Cristo ed alla sua grazia, argomentando sul fatto che coloro alle quali tali cose furono primieramente date non potevano discernerne il senso o l’utilità. Semmai, questa è una ragione per cui dovremmo essere molto grati, giacché il velo che era davanti a loro quando leggevano l’Antico Testamento è stato abolito in Cristo (2 Co 3:13:14:18). Sebbene essi non potessero fissare lo sguardo nella fine di ciò che doveva sparire, questo significa solo che noi, essendo stati felicemente forniti di una chiave che ci consente di penetrare questi misteri, possiamo contemplare come in uno specchio, la gloria del Signore. E tuttavia, forse, nei loro rituali i giudei pii videro del vangelo molto più di quello che noi stessi possiamo pensare. Se non altro, essi vissero la generale attesa di benedizioni che dovevano ancora venire, contando sulle promesse fatte ai padri, con una fede simile a quella che noi oggi viviamo riguardo alla felicità del cielo. Tutto ciò, anche se di queste cose non potevano avere una percezione molto più chiara e distinta di quella che noi stessi possiamo avere del mondo a venire. Le nostre idee circa lo stato futuro sono forse altrettanto scure e confuse, con così poca verità e alquanto lontane d’essa, come quelle che essi stessi coltivavano circa il regno del Messia. Ma Dio richiede soltanto una fede proporzionata alla rivelazione che egli dà. Ad essi, dunque, non si può chiedere conto, se non per la luce che hanno ricevuto, mentre da noi si può pretendere di più, in ragione della luce ben più grande che abbiamo nel vangelo, per effetto del quale, possiamo trovare di Cristo, anche nell’Antico Testamento, molto di più di quello che essi stessi poterono riconoscere.
Se qualcuno pensa che talvolta le nostre osservazioni possano prendere spunto da particolari troppo minuti, ricordi quella massima rabbinica: Non est in lege vel una liters a qua non pendent magni montes – La legge non contiene una sola lettera che non possa sostenere il peso di una montagna intera. Siamo certi che nella Bibbia non c’è una sola parola oziosa. Vorrei che il lettore non solo leggesse il testo biblico, per intero, prima di leggere il commento, ma, riguardasse di nuovo i vari versetti ai quali via via si fa riferimento nell’esposizione, per avere una migliore comprensione di quello che va leggendo. E se ne avrà il tempo, troverà utile andare a guardare i passi ai quali talvolta, per amore di brevità, si fa soltanto un semplice riferimento, confrontando cose spirituali a cose spirituali.
Lo scopo dichiarato dalla Mente Eterna, in tutte le operazioni dei suoi proponimenti e della sua grazia, è di rendere la sua legge grande e magnifica (Is 42:21), o meglio, di magnificare la sua parola oltre ogni rinomanza (Sl 138:2), di modo che quando preghiamo «Padre, glorifica il tuo nome», intendiamo dire, fra l’altro «Padre, magnifica le Sacre Scritture». Possiamo essere certi che ad una tale preghiera, fatta con fede, sarà data la stessa risposta che il nostro benedetto Salvatore ricevette quando egli stesso pregò similmente, avendo particolare riguardo all’adempimento delle scritture che riguardavano la sua passione: E l'ho glorificato, e lo glorificherò di nuovo (Gv 12:28)! A questo grande progetto desidero umilmente essere in qualche modo utile, nella forza della grazia in virtù della quale sono quello che sono, sperando che tutto ciò che potrà essere fatto per rendere la lettura delle Scritture più facile, piacevole ed utile, sarà benevolmente accettato da colui che sorrise ai due soldi gettati dalla vedova nella cassetta. E se l’obiettivo non fosse raggiunto che per pochi, riterrei i miei sforzi ampiamente ricompensati, anche se da parte di altri il mio lavoro dovesse essere disprezzato e vilipeso.
Non ho altro da aggiungere, se non raccomandare me stesso alle preghiere dei miei amici, e raccomandare loro alla grazia del Signore Gesù, mentre indegnamente riposo su di essa, aspettando, per suo mezzo, la gloria che ha da essere rivelata.
Chester, 2 ottobre 1706
M.H.