Letteratura/Istituzione/2-16

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Indice generale

Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO XVI

IN CHE MODO GESÙ CRISTO HA SVOLTO IL SUO UFFICIO DI MEDIATORE PER ACQUISTARCI SALVEZZA: TRATTIAMO DELLA SUA MORTE, DELLA SUA RESURREZIONE E DELLA SUA ASCENSIONE

1. Quanto detto sin qui del nostro Signore Gesù Cristo deve farci prender coscienza di questo fatto: dannati, morti e perduti noi dobbiamo cercare giustizia, vita e salvezza in lui; come sottolinea san Pietro dicendo che non v'è sotto il cielo alcun altro nome dato agli uomini per il quale possano essere salvati (At. 4.12). Il nome "Gesù "infatti non gli è stato attribuito a caso o per capriccio umano, ma è stato recato dal cielo dall'angelo, araldo del decreto eterno ed inviolabile, che ne ha spiegato il motivo: egli era inviato per salvare il popolo riscattandolo dai suoi peccati (Mt. 1.21; Lu 1.31). Notiamo ancora una volta qui che l'ufficio di redentore gli è stato attribuito perché fosse anche nostro salvatore.

La redenzione sarebbe solo parziale se non ci accompagnasse con progresso continuo fino al termine della nostra salvezza. Per questo motivo non possiamo allontanarci neppur minimamente da Gesù Cristo senza che la nostra salvezza venga meno. Essa dipende interamente da lui; di sorta che chi non vi si riposa e non vi trova appagamento, si priva di ogni grazia. È degno di meditazione l'ammonimento di san Bernardo, il quale dice che il nome di Gesù non è solo luce ma anche cibo, olio e condimento senza il quale ogni cibo è asciutto, sale per dare sapore e gusto ad ogni dottrina che altrimenti sarebbe insipida, in breve, che è miele per la bocca, musica per le orecchie, gioia per il cuore, medicina per l'anima, e che tutte le discussioni che se ne fanno sono insulse se il suo nome non vi risuona.

Ma bisogna attentamente considerare in che modo Cristo ci ha procurato salvezza, affinché, persuasi che egli ne è l'autore e, avendo accettato tutto quello che può confermare saldamente la nostra fede, respingiamo quanto potrebbe distrarci in un senso o nell'altro. Nessuno può rientrare in se stesso e seriamente esaminarsi senza sentire che Dio gli è nemico e di conseguenza provare il bisogno di cercare il modo di placarlo, il che non può avvenire senza l'espiazione, bisogna che su questo punto vi sia una certezza sicura ed indubitabile. La collera di Dio minaccia tutti i peccatori fin quando non siano assolti: egli, in qualità di giudice, non può tollerare che la sua Legge sia violata, senza punire vendicando l'offesa recata alla sua maestà.

2. Prima di proseguire dobbiamo considerare come possano accordarsi questi due fatti: Dio, che ci ha prevenuti con la sua misericordia, ci è stato nemico fino a quando Gesù Cristo non ci ha riconciliati con lui. Come ci avrebbe dato nel suo figlio unigenito un pegno così singolare del suo amore, se già in precedenza non ci avesse rivolto un amore gratuito? C'è in questo apparenza di contraddizione ed io scioglierò il dubbio che può esservi.

Lo Spirito Santo si esprime normalmente nella Scrittura in questi termini: Dio è stato nemico degli uomini fin quando non sono stati reintegrati nella grazia per mezzo della morte di Cristo (Ro 5.10); sono stati maledetti fino a quando la loro iniquità è stata cancellata dal suo sacrificio (Ga 3.10-13); sono stati lontani da Dio finché non sono stati ricongiunti a lui mediante il corpo di Cristo (Cl. 1.21-22). Queste espressioni sono adattate alle nostre facoltà, allo scopo di farci meglio comprendere quanto miserabile sia la condizione dell'uomo senza Cristo. Se non fosse esplicitamente dichiarato che la collera e la vendetta di Dio e la morte eterna sono su noi, non comprenderemmo abbastanza chiaramente quanto eravamo poveri e sventurati senza la misericordia di Dio e non valuteremmo al suo giusto valore il dono che ci ha fatto liberandoci.

Ad esempio si dice a qualcuno: se Dio ti avesse odiato allorché eri peccatore e ti avesse respinto come ti meritavi, avresti dovuto aspettarti una terribile condanna. Ma per la sua gratuita misericordia ti ha conservato nella sua amicizia e non ha permesso che tu fossi allontanato da lui, e ti ha liberato in questo modo dal pericolo. L'uditore ne sarà in qualche modo colpito e sentirà in parte il proprio debito verso la bontà di Dio. Ma se gli si parla come parla la Scrittura dicendogli che era lontano da Dio a causa del peccato, destinato ad una morte eterna, soggetto alla maledizione, escluso da ogni speranza di salvezza, estraneo ad ogni grazia divina, servo di Satana, prigioniero sotto il giogo del peccato, destinato ad orribile rovina e confusione; ma che Gesù Cristo è intervenuto e assumendo su di se la pena che era prevista per i peccatori dal giusto giudizio di Dio, ha cancellato ed annullato con il suo sangue i vizi che erano la causa dell'inimicizia tra Dio e gli uomini; e che con questo pagamento Dio è stato soddisfatto e la sua collera placata; e che su questo fondamento si basa l'amore di Dio verso di noi, e questo è il legame che mantiene nella sua benevolenza e nella sua grazia, tutto questo non lo colpirà forse più vivamente, dato che in queste parole è espressa molto meglio la sventura da cui Dio ci ha liberati?

Insomma non essendo il nostro spirito in grado di accogliere con il desiderio, il rispetto e la riconoscenza dovute la salvezza offertaci dalla misericordia di Dio, a meno di essere spaventato dal timore della collera divina e della morte eterna, la sacra Scrittura ci rivela un Dio in qualche modo corrucciato, con la mano pronta a colpire finché siamo privi di Gesù Cristo, e ci insegna d'altra parte non esservi alcun segno della sua bontà e della sua paterna benevolenza all'infuori di Gesù Cristo.

3. Adoperando questo linguaggio Dio si adatta alle nostre limitate capacità. D'altronde questa è la verità: egli è la giustizia sovrana e non può gradire l'iniquità che vede in noi tutti. C'è dunque in noi materia per essere odiati da Dio. Per la nostra natura corrotta e per la nostra vita malvagia siamo tutti oggetto della collera divina, colpevoli di fronte al suo giudizio, nati per la dannazione. Ma Dio non vuol perdere quello che in noi gli appartiene e grazie alla sua benignità trova in noi qualcosa da amare. Sebbene siamo peccatori per colpa nostra, rimaniamo sempre sue creature; sebbene abbiamo meritato la morte, tuttavia ci ha creati per la vita. È così condotto dall'amore puro e disinteressato a riceverci nella sua grazia.

Ma se c'è un contrasto perpetuo e insanabile tra la giustizia e l'iniquità, fin quando rimaniamo peccatori egli non può accoglierci. Dio quindi abolisce ogni inimicizia, riconciliandoci completamente a se: offrendo l'espiazione operata dalla morte di Gesù Cristo, annulla tutto il male che è in noi, di sorta che possiamo apparire giusti al suo cospetto, mentre prima eravamo impuri e macchiati. Si può dunque affermare che Dio il Padre previene con il suo amore la riconciliazione che opera con noi per mezzo di Gesù Cristo; o piuttosto, che in quanto ci ha amati in precedenza (1 Gv. 4.19) , Ci riconcilia in seguito con sé. Ma fino a quando Gesù Cristo non interviene in nostro favore con la sua morte, l'iniquità rimane in noi; ed essa merita l'indignazione di Dio ed è maledetta e condannata da lui. Non abbiamo sicura la piena riconciliazione con Dio fino a quando Gesù Cristo non ci unisce a lui.

In realtà se vogliamo avere la sicurezza che Dio ci ama e ci è propizio, dobbiamo volgere gli occhi a Gesù Cristo e attenerci a lui: e in verità è solo per merito suo che non ci sono imputati i nostri peccati meritevoli dell'ira di Dio.

4. Per questo motivo san Paolo dice che l'amore con cui Dio ci ha amato prima della creazione del mondo, è sempre stato fondato in Cristo (Ef. 1.4). Questo insegnamento è chiaro e conforme alla Scrittura, e concilia i passi, in cui si afferma che Dio ci ha mostrato il suo amore offrendo alla morte il suo Unigenito (Gv. 3.16) , con quelli in cui si dichiara che egli ci era nemico prima che Gesù Cristo morendo operasse la conciliazione (Ro 5.10).

Per rassicurare quanti desiderano sempre una conferma della Chiesa antica citerò un passo in cui sant'Agostino espone molto bene tutto questo.

"L'amore di Dio "egli dice "risulta incomprensibile e immutabile. Non ha incominciato ad amarci dopo che siamo riconciliati con lui per mezzo della morte del suo figlio; ma ci ha amati prima della creazione del mondo, onde fossimo suoi figli assieme al suo figlio unigenito, prima che esistessimo del tutto. Quanto al fatto che siamo stati riconciliati mediante il sangue di Cristo, non dobbiamo intenderlo nel senso che Gesù Cristo abbia ristabilito le relazioni tra Dio e noi affinché Dio incominciasse ad amarci (quasi in precedenza ci odiasse). Siamo invece stati riconciliati con colui che ci amava già, che tuttavia provava inimicizia nei nostri riguardi a causa delle nostre iniquità. L'Apostolo è testimone che dico la verità: Dio, egli dichiara, conferma la sua misericordia verso di noi nel fatto che Gesù Cristo è morto per noi allorché eravamo ancora peccatori (Ro 5.8). Ci amava già quando eravamo suoi nemici a causa della nostra vita malvagia.

Così dunque, in modo ammirevole e divino, ci amava e ci odiava allo stesso tempo. Ci odiava in quanto non eravamo più come ci aveva fatti; ma l'iniquità non aveva distrutto completamente in noi la sua opera ed egli odiava in noi quello che avevamo fatto, ed amava quello che aveva fatto ". Queste le parole di sant'Agostino.

5. Se ora si domanda in qual modo Gesù Cristo, cancellati i peccati, abbia abolito la frattura esistente tra Dio e noi e, procurandoci giustizia, ce l'abbia reso amico e favorevole, si può rispondere in generale, che lo ha realizzato con la piena attuazione della sua obbedienza. Questo è dimostrato dalla testimonianza di san Paolo. "Come per la trasgressione di un solo uomo "egli dice "molti sono stati resi peccatori, così per l'ubbidienza di uno solo molti sono stati resi giusti " (Ro 5.19). Ed in un altro passo estende a tutta la vita di Gesù Cristo la grazia salvifica che ci libera dalla maledizione della Legge: "Quando il tempo della pienezza è venuto "egli dice "Dio ha mandato suo figlio, nato di donna, sottoposto alla Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge " (Ga 4.4). Per questo motivo Cristo stesso al proprio battesimo ha dichiarato che con questo atto adempieva una parte della giustizia perché compiva quanto gli era stato ordinato dal Padre (Mt. 3.15). Insomma, dopo che ha rivestito la forma di servo, egli ha incominciato a pagare il prezzo della nostra liberazione per riscattarci.

Tuttavia la Scrittura, per meglio determinare lo strumento della nostra salvezza, specifica accuratamente che essa risiede nella morte di Gesù Cristo; ed egli stesso dichiara di dare l'anima propria per la redenzione di molti (Mt. 20.28). Secondo la testimonianza di san Paolo, egli è morto per i nostri peccati (Ro 4.25). Giovanni Battista predicava che egli è venuto quale agnello di Dio per togliere i peccati del mondo (Gv. 1.29). In un altro passo san Paolo dichiara che siamo giustificati gratuitamente per mezzo della redenzione che è in Cristo, dato che egli è stato dato per riconciliarci nel suo sangue (Ro 3.24-25); che siamo giustificati nel suo sangue e riconciliati mediante la sua morte (Ro 5.9-10); che colui che ignorava il peccato è stato fatto peccato per noi, onde fossimo giustizia di Dio in lui (2 Co. 5.21). Non proseguo perché la lista delle citazioni è infinita e d'altronde dovrò menzionarne altre a suo tempo.

Il sommario della fede detto Simbolo degli Apostoli osserva un ordine esatto perché dopo aver fatto menzione della nascita di Gesù Cristo, subito dopo parla della sua morte e resurrezione, per mostrare che in esse risiede e si fonda la garanzia della nostra salvezza. Ma questo non esclude l'aspetto della obbedienza che Cristo ha dimostrato in tutta la sua vita. Anche san Paolo la prende in considerazione dal principio alla fine dicendo: si è annichilito, prendendo forma di servo e rendendosi obbediente al Padre fino alla morte, e alla morte della Croce (Fl. 2.7-8).

Il carattere volontario della sottomissione di Gesù Cristo è fondamentale in vista del carattere salvifico della sua morte per la nostra salvezza: il sacrificio non avrebbe contribuito per nulla alla giustizia se non fosse stato offerto con libera spontaneità. Per questo motivo il Signore Gesù, dopo aver dichiarato di dare la sua anima per le pecore, aggiunge specificatamente che nessuna gliela toglie, ma la offre da se (Gv. 10.15-18). Nello stesso senso Isaia dice che egli è come una pecora muta davanti al tosatore (Is. 53.7). L'evangelo racconta anche che è venuto incontro ai soldati (Gv. 18.4) e, davanti a Pilato, privandosi di ogni difesa, si è sottomesso alla condanna (Mt. 27.2). Non già che non abbia esperimentato in se grandi lotte ed esitazioni, dato che aveva assunto le nostre debolezze: la sottomissione che offriva al Padre doveva essere messa alla prova in modo doloroso e duro attraverso un esame che avrebbe ben volentieri evitato. E in questo si riscontra una testimonianza ancor maggiore del suo amore per noi: ha sostenuto gli orribili assalti e i tormenti mortali e tuttavia, nonostante questa angoscia, non ha avuto riguardi per se ma ha voluto procurare il nostro bene.

Comunque sia, questo deve essere chiaro: Dio non poteva essere debitamente placato se Cristo non si fosse sottomesso alla sua volontà seguendola fino in fondo e rinunciando ai propri sentimenti. L'Apostolo applica a questa sottomissione le affermazioni del Salmo: "È scritto di me nel libro della Legge che farò la tua volontà. Lo voglio, mio Dio, la tua Legge è nel mio cuore. Allora ho detto: Ecco, vengo! " (Eb. 10.5; Sl. 40.7-9)

Lo strumento della nostra salvezza è messo in rilievo e ci è presentato come realizzatosi nella morte di Gesù Cristo, in quanto le coscienze atterrite dal giudizio di Dio trovano riposo solamente in un sacrificio che cancella i peccati. La maledizione era pronta per noi e ci teneva avvinghiati allorché eravamo considerati colpevoli davanti al trono del Giudice: ad essa viene contrapposta la condanna di Gesù Cristo, pronunciata da Ponzio Pilato governatore della Giudea, affinché prendiamo coscienza del fatto che la pena di cui eravamo debitori è stata inflitta all'innocente, perché noi ne fossimo liberati. Non potevamo sfuggire all'orribile condanna di Dio. Gesù Cristo per liberarcene ha sopportato di essere condannato da un uomo mortale, anzi malvagio e miscredente.

Il nome di quel governatore non è riportato solo per ragioni di fedeltà storica, ma anche perché comprendessimo meglio l'affermazione di Isaia secondo cui il castigo per il quale abbiamo pace è stato scontato dal figlio di Dio e noi siamo guariti per le sue piaghe (Is. 53.5). Infatti non era sufficiente per cancellare la nostra condanna che Cristo sopportasse una morte qualsiasi: per soddisfare alle necessità della nostra redenzione è stato necessario scegliere un genere di morte per cui egli prendesse su di se quanto noi avevamo meritato, e ci liberasse dopo aver pagato il nostro debito. Se i briganti gli avessero tagliato la gola o fosse stato lapidato e ammazzato per sedizione, non vi sarebbe stato alcun elemento per soddisfare Dio. Ma nel fatto che egli sia condotto al tribunale come un criminale e nei suoi riguardi si osservi una certa formalità legale, interrogando i testimoni, e sia condannato dalla bocca di un giudice, si vede che è condannato al posto dei peccatori, per soffrire in loro vece.

Bisogna osservare, a questo proposito, due cose che erano state predette dai profeti e che recano una singolare consolazione alla nostra fede. Quando vediamo che Cristo è condotto al tribunale e alla morte e appeso tra briganti, riscontriamo l'adempimento della profezia citata dall'Evangelista: "È stato considerato alla stregua di un malfattore " (Is. 53.12; Mr. 15.28). Perché accade questo? Per pagare il debito dovuto dai peccatori e sostituirsi a loro: perché in verità non pativa la morte giustamente ma a causa del peccato. Quando al contrario vediamo che è stato assolto dalla bocca stessa che lo aveva condannato, Pilato infatti è stato costretto parecchie volte a riconoscerne pubblicamente l'innocenza, dobbiamo allora ricordare la dichiarazione di un altro profeta: ha pagato quel che non aveva rubato (Sl. 69.5).

Vediamo così raffigurata in Gesù Cristo la persona di un peccatore e malfattore; e tuttavia sappiamo che nella sua innocenza è stato caricato del peccato altrui e non del proprio. Ha sofferto sotto Ponzio Pilato, è stato condannato dalla sentenza legale del governatore del paese quale malfattore, e tuttavia mentre era condannato era anche riconosciuto giusto da costui, che affermava di non trovare in lui colpa alcuna (Gv. 18.38).

In questo consiste la nostra assoluzione: tutto ciò che poteva esserci imputato per condannarci davanti a Dio, è stato imputato a Gesù Cristo il quale ha riparato le nostre colpe (Is. 53.5-11). E dobbiamo ricordarci di questa assoluzione ogni qualvolta siamo assaliti da paure e da dubbi, tenendo presente che la vendetta di Dio è stata sopportata da Gesù Cristo e non deve più spaventarci.

6. Il tipo stesso di morte subita da Cristo non è senza significato. La croce era strumento maledetto non solo nella concezione umana ma anche per decreto della Legge di Dio (De 21.23). Quando Cristo vi è appeso, si rende soggetto alla maledizione. E doveva essere così: la maledizione che ci era dovuta fu trasferita su lui, onde ne fossimo liberati. Questo era stato già simboleggiato nella Legge. Infatti le vittime offerte per i peccati erano dette semplicemente: "peccato ": con questo si voleva indicare che ricevevano la maledizione che spettava al peccato. Quanto era dunque simboleggiato negli antichi sacrifici di Mosè, è stato adempiuto nella realtà da Gesù Cristo che è il modello e la sostanza dei simboli. Quindi per realizzare la nostra redenzione ha dato la propria anima in sacrificio di soddisfazione per il peccato, come dice il Profeta, affinché tutta la maledizione che ci era dovuta quali peccatori non ci fosse più imputata ma fosse attribuita a lui.

L'Apostolo lo afferma ancor più chiaramente quando dice: colui che non aveva mai conosciuto peccato è stato fatto peccato per noi, affinché in lui ottenessimo giustizia davanti a Dio (2 Co. 5.21). Il figlio di Dio, puro e netto da ogni colpa, ha preso su di se la confusione e l'ignominia delle nostre iniquità e, d'altra parte, ci ha coperto con la sua purezza. Questo è sottolineato anche in un altro passo in cui san Paolo dice che il peccato è stato condannato nella carne di Gesù Cristo (Ro 8.3). Il Padre celeste ha annientato la forza del peccato quando la maledizione del peccato è stata trasferita nella carne di Gesù Cristo. Con queste parole è dunque indicato che Cristo morendo è stato offerto al Padre quale vittima propiziatoria affinché, compiuta da lui la riconciliazione, noi non siamo più tenuti sotto l'orrore del castigo divino.

Ora possiamo comprendere il significato della dichiarazione del Profeta: tutte le nostre iniquità sono state poste su lui (Is. 53.6) , vale a dire che per cancellarne le macchie, le ha in primo luogo accolte sulla propria persona perché gli fossero imputate. La croce è stata dunque un simbolo: Gesù Cristo vi è stato appeso e in tal modo ci ha liberati dall'esecrazione della Legge, come dice l'Apostolo, ed è stato fatto esecrazione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chiunque è appeso al legno, e così la benedizione promessa ad Abramo è stata diffusa su tutti i popoli (Ga 3.13-14).

Anche san Pietro aveva in mente questo allorché scriveva che Gesù Cristo ha portato il fardello dei nostri peccati sul legno (1 Pi. 2.24) : nel segno visibile della croce infatti comprendiamo meglio che è stato sottomesso alla maledizione che avevamo meritata.

Non bisogna tuttavia pensare che abbia subìto la maledizione al punto di esserne travolto: al contrario, subendola ne ha spento la forza, l'ha spezzata e annientata. Di conseguenza la fede nella condanna di Cristo afferra l'assoluzione e nella sua maledizione trova benedizione. Ecco perché san Paolo celebra tanto il trionfo procuratoci da Gesù Cristo sulla croce, quasi la croce, che era colma di ignominia e di obbrobrio, fosse stata mutata in un cocchio regale e trionfale. Dichiara che l'atto d'accusa vi è stato appeso, che le sovranità dell'aria sono state dIs.rmate e che i diavoli sconfitti sono stati fatti pubblico spettacolo (Cl. 2.14-15). E non bisogna stupirsene: Gesù Cristo, sfigurato agli occhi del mondo, ha offerto se stesso mediante lo Spirito eterno (Eb. 9.14); donde un tale cambiamento di cose!

Siano sempre presenti alla nostra mente il sacrificio e la purificazione, affinché prendano ferma radice nei nostri cuori e vi rimangano impressi. Non potremmo avere fiducia se Gesù Cristo non fosse stato il prezzo del nostro riscatto, il redentore e propiziatore, se non fosse stato offerto in sacrificio. Per questo motivo la Scrittura, descrivendo lo strumento della nostra salvezza, menziona spesso il sangue. Il sangue di Gesù Cristo sparso non ha solamente servito di pagamento per riconciliarci con Dio, ma è stato anche un lavacro per purificare tutte le nostre impurità.

7. Il Simbolo continua dicendo che è morto e fu sepolto. Anche qui si può notare come Gesù Cristo si sia sottomesso dal principio alla fine a pagare per noi il prezzo della nostra redenzione. La morte ci teneva sotto il suo giogo: egli si è dato, con la sua potenza, per liberarcene. È questo che intende l'Apostolo quando dichiara: ha gustato la morte per tutti (Eb. 2.9). Morendo ha fatto sì che noi non dovessimo morire; oppure, per dire la stessa cosa in altri termini, con la sua morte ci ha procurato la vita.

A differenza di noi, egli si è dato alla morte, per esserne inghiottito: non per esserne completamente divorato, però, ma per divorarla, affinché non avesse più il potere che aveva nel passato su noi. Ha accettato di esserne soggiogato, non per esserne oppresso e vinto, ma per rovesciare il potere che essa esercitava su noi. Infine è morto per distruggere colui che domina la morte, cioè il Diavolo, e per liberare quanti vivevano in servitù, durante tutta la vita, per timore della morte (Eb. 2.15). Ecco il primo frutto arrecatoci dalla sua morte.

Il secondo è questo: con la sua forza essa mortifica le nostre membra terrene, di sorta che esse non siano più attive, e uccide in noi il vecchio uomo, affinché perda la sua forza e non porti frutti.

A questo fine tende anche la menzione della "sepoltura "di Gesù Cristo. Associati ad essa, noi siamo sepolti quanto al peccato. L'Apostolo dice che siamo innestati in una morte simile a quella di Cristo e seppelliti con lui nella morte del peccato (Ro 6.4-5); per la sua croce siamo crocifissi per il mondo e il mondo per noi (Ga 2.19; 6.14); siamo morti con lui (Cl. 3.3) e ci esorta a imitare l'esempio della sua morte, dichiarando anzi che in essa è contenuta una forza che deve apparire in tutti i cristiani, se non vogliono rendere inutile ed infruttuosa la morte del loro redentore.

Di conseguenza una doppia grazia ci è offerta nella morte e nel seppellimento di Gesù Cristo: vale a dire la liberazione dalla morte e la mortificazione della nostra carne.

8. A questo punto non bisogna dimenticare la "discesa agli inferi "che molto reca alla nostra salvezza. Dagli scritti degli Antichi risulta che questo articolo non aveva diffusione generale nella Chiesa. l; necessario tuttavia riconoscergli la sua funzione per chiaramente spiegare la dottrina che stiamo esponendo, dato che contiene un mistero molto utile e da non sottovalutare. Si può pensare che l'articolo è stato aggiunto subito dopo l'epoca apostolica e che è entrato nell'uso poco per volta.

Comunque stiano le cose, non v'è dubbio che è stato desunto dalla convinzione comune a tutti i veri credenti. Tutti i Padri antichi infatti fanno menzione della discesa di Cristo agli inferi, pur interpretandola diversamente. Non ha molta importanza il sapere da chi e quando l'articolo è stato inserito nel Simbolo. Preoccupiamoci piuttosto di dare qui un riassunto completo e intero della nostra fede, a cui non manchi nulla e in cui non si inserisca nulla che non sia dedotto dalla Parola di Dio.

Alcuni tuttavia sono trattenuti dai loro scrupoli di includere l'articolo nel Simbolo; ma si vedrà dalla nostra spiegazione che ometterlo significherebbe privarsi di molti frutti della morte e della passione di Gesù Cristo.

Le interpretazioni che se ne sono date differiscono. Alcuni ad esempio pensano che non si dica qui nulla di nuovo ma semplicemente si ripeta con altre parole quanto era stato precedentemente detto della sepoltura, dato che spesso nella Scrittura la parola "inferno "indica il sepolcro. Riconosco che hanno ragione per quanto concerne il significato del termine e che spesso inferno indica sepolcro. Ma vi sono due considerazioni che si oppongono a questa opinione e mi sembrano sufficienti per refutarla.

Sarebbe stato del tutto superfluo ripetere con parole oscure quanto era già stato dimostrato con parole chiare e semplici, e che d'altronde non presentavano alcuna difficoltà in se. Quando si uniscono due locuzioni per esprimere la stessa cosa, è opportuno che la seconda sia una spiegazione della prima. Ma dire: Cristo è stato sepolto significa che è disceso agli inferi, non spiega nulla! Inoltre non è verosimile che in un sommario comprendente gli elementi principali della nostra fede in modo riassuntivo, la Chiesa antica abbia voluto includere affermazioni così superflue e immotivate e che non avrebbero trovato posto neanche in una stesura più diffusa. Non ho dubbi che chi consideri da vicino la cosa, mi darà ragione.

9. Altri danno una interpretazione diversa: Cristo è sceso, essi dicono, presso le anime dei padri defunti per portare loro il messaggio della redenzione e liberarle dalla prigione in cui erano tenute rinchiuse.

Per rendere più accettabile il frutto della loro immaginazione, tirano per i capelli qualche testimonianza, come quella del Salmo: "Ha spezzato le porte di rame e ha rotto i chiavistelli di ferro " (Sl. 107.16. Così in Zaccaria: "Ha liberato i prigionieri dai pozzi in cui non c'era acqua " (Za. 9.2). In realtà il Salmo racconta la liberazione di quelli che viaggiando in paesi stranieri, erano stati presi prigionieri: e Zaccaria paragona l'esilio del popolo, che era come sepolto a Babilonia, ad un fosso asciutto e profondo. È come dire che la salvezza di tutta la Chiesa sarà come l'uscire dal fondo dell'inferno.

Non so perché si è immaginato trattarsi di una caverna sotterranea, a cui si è attribuito il nome di "limbo "! Questa favola è stata sostenuta da autori rinomati e ancor oggi si trova chi la difende come un articolo di fede, ma non per questo cessa di essere una favola! È puerile voler rinchiudere le anime dei trapassati in una prigione. Inoltre che bisogno c'era che Gesù Cristo scendesse per strapparvele? Ammetto senza difficoltà che Gesù Cristo le ha illuminate con la potenza del suo Spirito affinché sapessero che la grazia, da esse gustata solo in speranza, era rivelata al mondo.

Non è inopportuno riferire a questo punto l'affermazione di san Pietro secondo cui Gesù Cristo è venuto e ha predicato agli spiriti, che non erano in una prigione, a mio avviso, ma che era no all'erta come su una torre (1 Pi. 3.19). La logica del testo ci conduce ad arguire che i credenti morti prima di quel tempo erano con noi partecipi della stessa grazia: l'intenzione dell'Apostolo è infatti di estendere la portata della morte di Gesù Cristo ai morti, allorché le anime fedeli hanno goduto direttamente la visita che avevano atteso con grande preoccupazione e perplessità; mentre al contrario i reprobi hanno appreso di essere esclusi da ogni speranza. Se san Pietro non parla distintamente degli uni e degli altri, non bisogna credere che li mescoli insieme indifferentemente: vuole semplicemente mostrare che tutti hanno percepito la potenza della morte di Gesù Cristo.

10. Lasciando da parte il Simbolo, cerchiamo una interpretazione più sicura della discesa di Gesù Cristo agli inferi, che la parola di Dio ci presenta come avvenimento buono e santo e pieno di grande consolazione.

Nulla sarebbe stato ottenuto se Gesù Cristo avesse sofferto la sola morte corporale. È: stato necessario che portasse nell'anima il rigore della vendetta divina per sopportare la sua collera e soddisfare la sua giusta condanna. Di conseguenza è stato necessario che combattesse contro le forze dell'inferno e lottasse corpo a corpo contro l'orrore della morte eterna.

Abbiamo menzionato l'affermazione del Profeta secondo cui la punizione per cui abbiamo pace è stata da lui scontata: è stato percosso per i nostri peccati, ha sofferto per le nostre iniquità (Is. 53.5). Con ciò si indica che Cristo è stato come un garante o una cauzione per i nostri delitti, si è offerto come debitore principale, quale colpevole per sopportare ogni punizione prevista per noi, onde ne fossimo liberati: con questa sola eccezione, che non ha potuto essere trattenuto dai legami della morte (At. 2.24). Non bisogna quindi meravigliarsi se si afferma che è sceso agli inferi: ha infatti sopportato la morte con cui l'ira di Dio colpisce i malfattori.

Alcuni replicano, in modo fatuo e ridicolo, che così l'ordine sarebbe pervertito, non essendo ragionevole aggiungere alla sepoltura quanto dovrebbe precederla. In realtà dopo aver esposto le sofferenze sopportate da Gesù Cristo nel cospetto degli uomini, il momento è opportuno di aggiungere in conseguenza la condanna invisibile ed incomprensibile che egli ha sostenuto nel cospetto di Dio: onde fossimo avvertiti che non solo il suo corpo è stato dato quale prezzo del nostro riscatto, ma che vi è stato un altro prezzo, più degno e più prezioso, nel sopportare i tormenti spaventosi riservati ai dannati ed ai perduti.

2. In questo senso san Pietro dice che Gesù Cristo, risuscitando, è stato liberato dai dolori della morte, dai quali non poteva essere tenuto schiavo o sottomesso (At. 2, Z4). Non nomina semplicemente la morte ma dichiara che il figlio di Dio è stato colto da tristezza ed angoscia, generate dalla maledizione di Dio: questa infatti è la sorgente e il principio della morte. Che significato avrebbe avuto, se si fosse offerto alla morte senza angoscia né tormento, ma come in un gioco? La vera testimonianza della sua misericordia infinita è stata nel non fuggire quella morte di cui provava un estremo orrore.

Non v'è dubbio che l'Apostolo insegni la stessa cosa quando dice nell'epistola agli Ebrei che Gesù Cristo è stato liberato dal suo "timore " (Eb. 5.7) : altri traducono "venerazione "o "pietà "ma la grammatica e la materia quivi trattata mostrano non essere traduzione appropriata. Gesù Cristo dunque, avendo pregato con lacrime e forti grida, è stato esaudito essendo liberato dal timore: non per essere esentato dalla morte ma per non esservi inghiottito come peccatore, perché rappresentava quivi le nostre persone. E non si può immaginare abisso più spaventoso che il sentirsi abbandonato da Dio, non ricevere risposta alle invocazioni e non potersi aspettare da lui altro che perdizione e volontà di distruzione. Gesù Cristo è giunto a questo, al punto che è stato costretto a gridare, tanto era oppresso dall'angoscia: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? " (Mt. 27.46; Sl. 22.2). Secondo alcuni questa esclamazione sarebbe stata pronunciata piuttosto in funzione degli altri e non per sentimento personale: ma questo non è verosimile perché si vede chiaramente che essa sgorga da una profonda amarezza interiore.

Non dobbiamo tuttavia dedurre da questo che Dio sia mai stato nemico o avversario ostile del suo Cristo. Come potrebbe il Padre adirarsi con il Figlio diletto, nel quale afferma di essersi compiaciuto (Mt. 3.17) ? E come Cristo potrebbe con la sua intercessione placare il Padre nei riguardi degli uomini, se questi fosse corrucciato con lui? Diciamo invece che ha sostenuto il peso della vendetta di Dio in quanto è stato colpito e afflitto dalla sua mano e ha sperimentato tutte le manifestazioni dell'ira e della punizione di Dio contro i peccatori. Per questo sant'Ilario dice che con questa discesa abbiamo ottenuto che la morte sia ora abolita; e in altri passi non si esprime diversamente dalla nostra tesi dicendo, ad esempio che la croce, la morte e gli inferi sono la nostra vita; che il figlio di Dio è negli inferi, ma l'uomo è esaltato fino al cielo.

Perché ricorrere a testimonianze di un uomo quando lo stesso Apostolo afferma la stessa cosa, dicendo che dalla vittoria del nostro Signore Gesù otteniamo il frutto della liberazione dalla servitù cui eravamo sottomessi per il timore della morte? È stato dunque necessario che Gesù Cristo vincesse i timori che naturalmente feriscono e tormentano tutti i mortali, e questo poteva avvenire solo nella lotta. Che la tristezza di Cristo non sia stata comune, o vissuta alla leggera, sarà dimostrato successivamente.

Riassumendo: Gesù Cristo combattendo contro la potenza del Diavolo, contro l'orrore della morte, contro i dolori dell'inferno, ha vinto e trionfato, affinché non temessimo più, in morte, quelle minacce che il nostro principe ha annientato e distrutte.

12. Vi sono spiriti ribelli che si oppongono a questo insegnamento: gente ignorante, certo, ma spinta dalla malizia più che dalla stupidità, che cerca solo di abbaiare. Dicono che reco ingiuria a Gesù Cristo, non essendo ammissibile che egli abbia dubitato della salvezza della propria anima. Con la calunnia si spingono più in là e affermano che attribuisco al figlio di Dio una disperazione incompatibile con la fede.

In primo luogo, per quanto riguarda il timore e lo spavento di Gesù Cristo, esso è così chiaramente esposto dagli evangelisti che metterlo in questione da parte di queste canaglie è stolto. È detto che prima della sua morte è stato turbato nello spirito e afflitto dall'angoscia: quando è stato arrestato ha incominciato ad essere fortemente spaventato. il stolto dire che era finzione. Come dice sant'Ambrogio, deve riconoscere francamente la tristezza di Gesù Cristo chi non si vergogna della sua croce. Se infatti la sua anima non avesse partecipato al castigo che ha sopportato, sarebbe stato solamente redentore dei corpi. Egli ha combattuto per rialzare quelli che caduti a terra non potevano rialzarsi.

Questo è ben lungi dallo sminuire la sua gloria celeste. Dobbiamo anzi ammirare la sua bontà, che splende in modo ammirevole nel fatto che non ha sdegnato accogliere su di se le nostre infermità. L'Apostolo trae motivo di consolazione dal fatto che il nostro mediatore ha esperimentato le nostre debolezze per averne compassione ed essere più propenso a soccorrerle (Eb. 4.15).

Gli avversari affermano che si fa torto a Gesù Cristo attribuendogli una sofferenza che di per se è imperfetta. Vogliono essere più savi dello Spirito di Dio, che armonizza le due cose: infatti Gesù Cristo è stato tentato in tutto e per tutto come noi, senza tuttavia commettere peccato. Non dobbiamo dunque trovare strana la debolezza di Gesù Cristo. Egli l'ha accettata non perché costrettovi dalla violenza o dalla necessità, ma perché indottovi dalla sua misericordia e dal puro amore verso di noi. E tutto quello che ha sofferto spontaneamente per noi non sottrae nulla alla sua potenza.

Questi schernitori non riconoscono che questa debolezza di Gesù Cristo è stata priva di ogni macchia o vizio perché si è mantenuta entro i limiti dell'obbedienza a Dio. Misurano il figlio di Dio con il metro della nostra natura corrotta, nella quale non si può scorgere una retta moderazione, dato che tutte le sue passioni sono smodate ed eccessive nel loro impeto. Vi è al contrario una grande diversità: Egli infatti, integro e senza macchia diimperfezione, ha nutrito sentimenti talmente moderati da non potervi trovare alcun eccesso. Ha potuto quindi essere simile a noi nel dolore, nel timore e nello stupore, e tuttavia differire per questa nota.

Messi con le spalle al muro, trovano un altro cavillo: Cristo ha temuto la morte, dicono, tuttavia non ha temuto la maledizione e la collera di Dio, riguardo alle quali si sentiva sicuro. Chiedo ai lettori quanto onorevole sarebbe per Cristo l'essere stato più timoroso e codardo di molti uomini senza fegato. Briganti e malfattori mettono il freno tra i denti per andare alla morte, molti la sprezzano al punto che sembra essere per loro un gioco, altri la sopportano placidamente. Se il figlio di Dio ne è stato agghiacciato e quasi sconvolto, dove sono andate a finire la sua perseveranza e la sua forza d'animo? Gli evangelisti raccontano di lui quello che sembra incredibile e contro natura, che cioè, per la intensità del suo spavento gocce di sangue sono cadute dal suo viso. Non si può pensare che si sia dato in spettacolo di fronte alla gente, dato che pregava segretamente il Padre in un luogo appartato. E ogni dubbio è fugato se si considera che gli angeli devono scendere dal cielo per consolarlo in modo nuovo ed inconsueto. Che vergogna sarebbe per il figlio di Dio l'esser stato così effeminato da tormentarsi in questo modo per una morte normale, fino al punto di sudare sangue e di poter essere tranquillizzato solo dagli angeli!

Consideriamo anche la preghiera che ha ripetuto tre volte: "Padre, se è possibile, allontana da me questo calice " (Mt. 26.39). Sarà facile concludere che questo nasce da una indicibile amarezza e che dunque Gesù Cristo ha sostenuto un combattimento più aspro e difficile che contro la morte comune.

Ne consegue che i pasticcioni miei avversari parlano temerariamente di cose che non conoscono, perché non hanno mai compreso o valutato quel che significhi essere riscattati dal castigo di Dio. La nostra sapienza consiste nel valutare rettamente quanto la nostra salvezza sia costata al figlio di Dio.

Qualcuno potrà domandare a questo punto se la supplica rivolta al Padre di essere liberato dalla morte, si deve interpretare, nel caso di Gesù Cristo, come la discesa agli inferi; risponderò che questo ne era un inizio. Da questo si può anche dedurre quanto orribili siano stati i tormenti che ha dovuto patire, tenendo presente che egli sapeva di rispondere alla giustizia di Dio quale colpevole dei nostri misfatti.

Sebbene per qualche tempo la potenza divina del suo spirito sia stata nascosta, per dar luogo alla debolezza della carne, fino a che avesse realizzato la nostra salvezza, tuttavia dobbiamo sapere che la tentazione sopportata a causa del timore e del dolore è stata di natura tale da non contraddire la fede. In questo si è realizzata l'affermazione già citata di san Pietro secondo la quale era impossibile che Cristo fosse tenuto prigioniero dalla morte (At. 2.24) dato che, sentendosi abbandonato da Dio, non è venuto minimamente meno alla fiducia che aveva nella bontà del Padre. Questo è dimostrato dalla preghiera in cui esclama, per la violenza del dolore: "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato? " (Mt. 27.46). Sebbene sia infinitamente angosciato, non cessa tuttavia di invocare come suo Dio, colui dal quale si lamenta di essere stato abbandonato.

Questo confuta l'errore di Apollinare, antico eretico, e di quelli che sono stati definiti i monoteliti. Apollinare ha inventato che lo Spirito eterno era al posto dell'anima di Gesù Cristo, di modo che questi era solo uomo a metà. Quasi Gesù Cristo avesse potuto cancellare i nostri peccati altrimenti che obbedendo a suo Padre! E dove si sarebbe trovato il proposito e la volontà di obbedire se non nell'anima? Quella di Gesù Cristo è stata turbata, affinché le nostre avessero pace e riposo, essendo liberate dal timore e dall'inquietudine.

Quanto alla tesi dei monoteliti che hanno voluto far credere che Gesù Cristo avesse una sola volontà, noi constatiamo che egli non ha affatto voluto con la natura umana quanto voleva con quella divina. Tralascio dal far notare che supera la paura di cui abbiamo parlato in virtù di un sentimento opposto. Apparentemente sussiste una profonda contraddizione nelle sue parole: "Padre, liberami da quest'ora! Ma è per questo che sono giunto a quest'ora. Padre, glorifica il tuo figlio " (Gv. 12.27). In questa perplessità non v'è alcuna intemperanza, né ribellione, del tipo di quelle che si verificano in noi anche quando ci sforziamo di trattenerci.

13. Segue la "risurrezione dai morti ", senza la quale quanto detto sin qui sarebbe imperfetto. Dato che nella croce, nella morte e nel seppellimento di Gesù Cristo non v'era che debolezza, bisogna che la fede vada oltre per essere appieno fortificata. Nella sua morte abbiamo certo il completo adempimento della salvezza, dato che per essa siamo riconciliati con Dio, la giusta condanna divina è stata soddisfatta, la maledizione è stata annullata e noi siamo stati liberati da tutte le pene che avremmo dovuto scontare: tuttavia non è affermato che in virtù della sua morte, ma piuttosto della sua risurrezione, siamo stati risuscitati ad una speranza viva (1 Pi. 1.3). Risuscitando si è dimostrato vincitore della morte, la vittoria della nostra fede è perciò basata sulla sua resurrezione.

Che cosa questo significhi è mostrato più chiaramente dalla asserzione di san Paolo secondo la quale egli è morto per i nostri peccati ed è risuscitato per la nostra giustificazione (Ro 4.25); il che equivale a dire che mediante la sua morte il peccato è stato tolto, mediante la sua risurrezione la giustizia è stata instaurata. Come avrebbe potuto liberarci dalla morte soccombendo ad essa? Come avrebbe potuto acquistarci la vittoria, se fosse stato sconfitto nel combattimento? Noi dunque attribuiamo la realtà della nostra salvezza in parte alla morte di Cristo ed in parte alla sua risurrezione e diciamo che, mediante la morte, è stato distrutto il peccato e la morte è stata cancellata; mediante la risurrezione la giustizia è stata stabilita e la vita ha ripreso il sopravvento; e questo in modo che la morte ha il suo significato in funzione della risurrezione.

Per questo motivo san Paolo ci insegna che Gesù Cristo è stato dichiarato figlio di Dio nella risurrezione (Ro 1.4). È allora infatti che ha manifestato la sua potenza celeste che costituisce uno specchio evidente della sua divinità e un fermo sostegno della nostra fede. In un altro passo dice che egli ha sofferto per la debolezza della carne ed è risuscitato per la potenza dello Spirito (2 Co. 13.4). Nello stesso senso, trattando il problema della perfezione dice: "Mi sforzo di conoscere Cristo

e la potenza della sua risurrezione " (Fl. 3.10). Del resto aggiunge subito dopo che si sforza di essere fatto partecipe e associato alla morte di Cristo. Con questo concorda l'affermazione di san Pietro: Dio lo ha risuscitato dai morti e lo ha glorificato onde la nostra fede e la nostra speranza fossero radicate in Dio (1 Pi. 1.21). Non vuol dire che una fede basata sulla morte di Gesù Cristo zoppichi, ma che la potenza di Dio che ci conserva nella fede, si manifesta in modo particolarmente evidente nella risurrezione.

Ricordiamoci dunque che ogniqualvolta è fatta menzione della sola morte di Cristo vi è incluso anche quanto si riferisce alla risurrezione; e che d'altra parte altrettanto avviene quando e la sola risurrezione è menzionata, perché essa implica quanto si riferisce specialmente alla morte. Gesù Cristo risuscitando ha vinto la palma della vittoria per essere la risurrezione e la vita. Di conseguenza san Paolo ha ragione di sostenere che la fede sarebbe annientata e l'Evangelo non sarebbe che inganno e menzogna se non fossimo ben persuasi nei nostri cuori della risurrezione di Gesù Cristo (1 Co. 15.17). Per il qual motivo in un altro testo, dopo essersi gloriato della morte di Gesù Cristo contro il timore della dannazione, aggiunge che colui che è morto è anche risuscitato e compare davanti a Dio quale intercessore per noi (Ro 8.34).

Abbiamo dinanzi insegnato che la mortificazione della nostra carne dipende dalla partecipazione alla croce di Cristo. Bisogna anche rilevare che un frutto corrispondente proviene dalla sua risurrezione. Come dice l'Apostolo, siamo stati innestati nella similitudine della sua morte onde, fatti partecipi della sua risurrezione, camminassimo in novità di vita (Ro 6.4). Perciò in un altro passo, riflettendo al fatto che se siamo morti con Cristo dobbiamo mortificare le nostre membra terrene, afferma che se siamo resuscitati con Cristo dobbiamo cercare le cose celesti (Cl. 3.1-5). Con queste parole ci esorta ad una nuova vita, sull'esempio di Cristo risuscitato, e insegna anche che, per la sua potenza, possiamo essere rigenerati nella giustizia.

Il terzo vantaggio che ricaviamo da questa risurrezione è questo: rappresenta una caparra che ci rende più certi della nostra; la risurrezione di Cristo è il fondamento e la sostanza della nostra, come è insegnato diffusamente nella prima ai Corinzi.

Bisogna anche notare per inciso che egli è detto essere risuscitato "dai morti ": questa espressione sottolinea la realtà della sua morte e della sua risurrezione, come se fosse detto che ha sofferto la stessa morte degli altri uomini e ha ottenuto l'immortalità nella medesima carne mortale che aveva assunto.

14. Né è superfluo l'articolo seguente: "salì al cielo "dopo essere risuscitato. Sebbene Cristo abbia incominciato a manifestare la propria gloria e la propria potenza alla risurrezione, spogliandosi della condizione servile propria della vita mortale e dell'ignominia della croce, tuttavia ha veramente manifestato il proprio dominio quando è salito al cielo. È questo che l'Apostolo intende quando dice che egli è salito per adempiere ogni cosa (Ef. 4.10) : con una apparente contraddizione di termini indica esservi un consenso tra le due affermazioni, dato che Gesù Cristo si è allontanato da noi in modo da esserci ancora più utile di quando soggiornava sulla terra, dove abitava in una sede inadeguata.

Per questo motivo san Giovanni, dopo aver ricordato che Gesù Cristo invita chi ha sete a bere l'acqua di vita, aggiunge poi che lo Spirito Santo non era ancora stato dato perché Gesù Cristo non era ancora stato glorificato (Gv. 7.37-39). Il Signore stesso lo ha dichiarato ai suoi discepoli: "Vi è utile che io me ne vada, perché se non me ne vado il Consolatore non verrà affatto ", (Gv. 16.7). Egli consola i suoi discepoli del dolore che avrebbero potuto provare, per la sua assenza corporale, dichiarando che non li lascerà orfani ma ritornerà a loro, in modo invisibile ma migliore; allora infatti avranno la conoscenza del dominio che gli è dato e dell'autorità che eserciterà e questo sarà sufficiente per loro non solo a vivere ma anche a morire bene e felicemente. Infatti constatiamo che ha sparso le grazie del suo Spirito più largamente, ha affermato più solennemente la sua sovranità, ha manifestato più evidentemente la sua potenza, sia aiutando i suoi che abbattendo i nemici. Ricevuto nel cielo ci ha privati della sua presenza fisica (At. 1.9) ma non ha cessato dall'assistere i credenti che ancora camminano sulla terra ed anzi governa il mondo con una potenza ancor più diretta che nel passato.

La sua promessa di essere con noi fino alla fine del mondo (Mt. 28.20) ' è stata dunque realizzata per mezzo della sua ascensione: come il corpo è stato innalzato su tutti i cieli, così la sua forza effettiva si è estesa al di là di tutti i limiti del cielo e della terra.

Illustro volentieri questa affermazione con le parole di sant'Agostino, piuttosto che con le mie: "Gesù Cristo "egli dice "doveva andare mediante la morte alla destra del Padre, per giudicarvi i vivi e i morti con la sua presenza corporale. Con la sua presenza spirituale doveva essere tra i suoi discepoli, dopo l'ascensione ". In un altro passo si esprime ancor più chiaramente: "La grazia invisibile ed infinita di Gesù Cristo "egli dice "ha adempiuto la promessa fatta agli apostoli di essere con loro fino alla fine dei secoli. Ma il fatto che si è incarnato, che è nato dalla Vergine, che è stato imprigionato dagli Ebrei, che è stato appeso alla croce e poi ne è stato deposto per essere seppellito sotto terra: il fatto che si è manifestato dopo la risurrezione adempiono la sua affermazione: Non mi avrete sempre con voi (Mt. 26.2). Perché? Perché con la presenza del suo corpo ha conversato con i discepoli per quaranta giorni e alla loro presenza è salito al cielo e non è più qui (At. 1.3e 9). Ed è seduto alla destra di Dio suo Padre. Ed è ancora qui, dato che la presenza della sua maestà non si è ancora allontanata. Abbiamo quindi Gesù Cristo sempre con noi con la presenza della sua maestà. Quanto alla presenza della sua carne, egli dice ai suoi discepoli: Non sarò sempre con voi. Per alcuni pochi giorni la Chiesa lo ha avuto presente nella carne; ora essa lo possiede mediante la fede, ma non lo vede con gli occhi".

15. Per questo motivo subito viene aggiunto che è "seduto alla destra del Padre ". La similitudine è presa dalla vita dei sovrani, i cui luogotenenti sono come assessori con l'incarico di governare. Similmente Cristo, in cui il Padre vuole manifestare la sua potenza e mediante cui vuole esercitare la sua sovranità, è detto seduto alla destra del Padre.

Con questa espressione si deve intendere che è stato stabilito sovrano del cielo e della terra e che ne ha preso solennemente possesso: e non solo per una volta, ma ne mantiene il possesso fino a quando tornerà nel giorno del giudizio. L'Apostolo dichiara che il Padre lo ha costituito alla propria destra su ogni signoria e autorità e potenza e dominazione e su ogni nome nominato non solo in questo secolo ma anche nel futuro (Ef. 1.20; Fl. 2.9); e gli ha sottomesso ogni cosa e lo ha stabilito quale capo supremo nella Chiesa (Ef. 1.22).

Ecco il significato dell'affermazione che Gesù Cristo è seduto: le creature celesti come quelle terrestri onorano la sua maestà, sono governate dalla sua mano, obbediscono al suo beneplacito e sono soggette alla sua potenza. Né gli apostoli affermano altro dicendo: ogni cosa è stata sottomessa al suo imperio (At. 2.30e 3.21; Eb. 1.8). Si ingannano quindi coloro che pensano che con questa espressione si intenda indicare semplicemente la beatitudine in cui Gesù Cristo è stato accolto.

Poco importa che santo Stefano, negli Atti, dichiari di averlo visto in piedi (At. 7.56). Si parla qui non della posizione del corpo ma della maestà del suo dominio; essere seduto non significa altro che presiedere al governo celeste.

16. La nostra fede ne ricava diversi insegnamenti. Comprendiamo che il Signore Gesù, con la sua ascensione al cielo, ci ha aperto la strada che Adamo aveva chiuso. Egli vi è infatti entrato con la nostra carne e, per così dire, a nome nostro: di conseguenza, dice l'Apostolo, siamo già in qualche modo seduti con lui nei luoghi celesti (Ef. 2.5-6). Vale a dire che non ne abbiamo solo una speranza ma attraverso il nostro capo ne abbiamo già il possesso.

Inoltre riconosciamo che il suo risiedere presso il Padre ridonda a nostro vantaggio. Essendo entrato nel santuario, che non è costruito da mano umana, vi dimora in qualità di nostro avvocato ed intercessore (Eb. 7.25e 9.2; Ro 8.34); richiama gli occhi del Padre con la propria giustizia, di sorta che li storna dalla visione del nostro peccato; ci riconcilia il suo cuore, di sorta che la sua intercessione ci permette di accedere al trono divino; ci procura grazia e clemenza facendo in modo che il Padre non ci spaventi, come deve spaventare ogni peccatore.

In terzo luogo questo articolo ci permette di comprendere la potenza di Gesù Cristo, in cui risiedono la nostra forza e il nostro vigore, il nostro aiuto e la fierezza che abbiamo di fronte all'inferno. Salendo al cielo ha condotto i suoi avversari prigionieri (Ef. 4.8) e avendoli dIs.rmati, ha arricchito il suo popolo e ogni giorno continua ad arricchirlo di grazie spirituali È: dunque seduto in alto e di là, riversando su noi la sua potenza, ci vivifica spiritualmente, ci santifica con il suo Spirito allo scopo di abbellire la sua Chiesa con doni preziosi, di conservarla con la sua protezione, di reprimere e confondere i nemici della croce e della nostra salvezza: e infine ottenere ogni potere nel cielo e sulla terra, allorché avrà vinto e distrutto tutti i suoi nemici, che sono anche i nostri, e avrà ultimato l'edificazione della sua Chiesa (Sl. 110.1).

Ecco la realtà del suo regno e la potenza che il Padre gli ha data fino a che avrà realizzato l'ultimo atto venendo a giudicare i vivi e i morti.

17. I servi di Gesù Cristo hanno fin da ora sufficienti elementi per riconoscere la presenza del suo potere. Ma il suo regno è ancora nascosto e velato dalla umiltà della carne e giustamente dunque la fede e indirizzata alla sua presenza visibile, che manifesterà all'ultimo giorno. Discenderà infatti in forma visibile, come lo si è visto salire (At. 1.2; Mt. 24.30) e apparirà a tutti nella maestà indicibile della sua sovranità, nella luce dell'immortalità, e la potenza infinita della sua divinità, in compagnia dei suoi angeli.

Ci è ordinato quindi di attendere il nostro redentore per il giorno in cui separerà le pecore dai capri, gli eletti dai reprobi (Mt. 25.31-33) , e nessuno, vivente o morto, potrà sfuggire al suo giudizio. Il suono della tromba sarà udito in tutti gli angoli del mondo e tutti gli uomini saranno chiamati a comparire di fronte al suo trono di giudice, sia quelli che saranno allora in vita che quelli che erano precedentemente deceduti.

Alcuni intendono la frase: "i vivi e i morti ", nel senso di: "i buoni ed i malvagi ". Alcuni degli antichi erano in dubbio sul significato da dare a queste parole: ma il primo significato è da preferire, essendo più semplice, meno ricercato, e nello stile delle espressioni abituali della Scrittura.

Né esso contraddice la dichiarazione dell'Apostolo secondo la quale è stabilito che ogni uomo muoia una volta sola (Eb. 9.27). Infatti quelli che saranno in vita quando il giudizio verrà, non moriranno secondo l'ordine naturale, tuttavia subiranno un mutamento tale, al posto della morte, da potersi giustamente definire "morte ". È certo che non tutti riposeranno a lungo, quel che la Scrittura definisce dormire, ma tutti saranno mutati e cambiati (1 Co. 15.51). Che cosa vuol dire questo? Che la loro vita mortale sarà abolita in un istante e trasformata in una nuova natura. Nessuno può negare che questa abolizione della carne debba essere definita "morte ".

Rimane vero tuttavia che i vivi ed i morti saranno chiamati in giudizio. I morti che sono in Cristo risusciteranno i primi; poi i sopravvissuti compariranno davanti al Signore, nel cielo, come dice san Paolo (1 Ts. 4.16).

È probabile che questo punto sia tratto dalla predicazione di san Pietro, secondo la redazione di san Luca (At. 10.42) , e dalla solenne dichiarazione di san Paolo a Timoteo (2Ti 4.1) , in cui si parla esplicitamente dei vivi e dei morti.

18. Ricaviamo una grande consolazione dal sapere che il potere di giudicare è dato a colui che ci ha fatti partecipi della sua autorità di giudice (Mt. 19.28) : egli non salirà sul trono per condannarci! Un principe così clemente distruggerebbe il suo popolo? Il capo disperderebbe le sue membra? L'avvocato condannerebbe quelli che difende? L'Apostolo si compiace del fatto che nessuno possa condannare, quando Gesù Cristo intercede per noi (Ro 8.33); è ancor più certo che Cristo, essendo il nostro intercessore, non ci condannerà certamente, dato che ha preso in mano la nostra causa ed ha promesso di sostenerci. l: motivo di grande sicurezza il sapere che compariremo in giudizio davanti al nostro redentore, dal quale aspettiamo la salvezza.

Inoltre si afferma così che colui che ci promette ora, attraverso l'Evangelo, la beatitudine eterna, ratificherà un giorno la sua promessa pronunciando il giudizio. Il Padre ha dunque glorificato il Figlio attribuendogli autorità per giudicare, e, in tal modo, ha inteso consolare la coscienza dei suoi servi, che potrebbero vacillare per l'orrore del giudizio qualora non avessero una speranza fondata.

Ho seguito fin qui l'ordine del Simbolo detto apostolico perché potessimo vedere, nei suoi articoli, come in un quadro, gli elementi fondamentali della nostra salvezza e, in questo modo, comprendere anche in quale direzione dobbiamo volgerci per ottenere salvezza in Gesù Cristo.

Ho già detto che non bisogna preoccuparsi troppo di conoscere l'autore di questo sommario. Gli antichi di comune accordo lo attribuivano agli Apostoli, sia che lo ritenessero messo per iscritto da loro, sia che volessero autenticare la dottrina che sapevano provenire da loro, tramandata fedelmente di mano n mano. Indubbiamente si tratta di una confessione accettata senza esitazioni fin dalla prima origine della Chiesa, anzi dal tempo degli apostoli. E anche verosimile che un sommario del genere non sia stato composto da un individuo privato, dato che fin dal principio ha ottenuto una sacra autorità tra i credenti. Il punto essenziale e fuori discussione è questo: tutta la storia della nostra fede vi è riassunta in ordine e modo tale che non c'è più bisogno di cercare altrove, e nulla vi è contenuto che non sia provato da sicure testimonianze scritturali

Sapendo questo, sarebbe inutile ricercare faticosamente chi ne sia l'autore e discutere con chi fosse in disaccordo con noi, a meno di non essere così difficili da accontentare da non accettare di essere istruiti dallo Spirito di Dio nella verità infallibile, qualora non sappiamo quale bocca l'ha proferita e quale mano l'ha scritta.

19. Vediamo quindi che la totalità ed i singoli elementi della nostra salvezza sono rinchiusi in Gesù Cristo; bisogna perciò guardarsi dal farne derivare la minima porzione da altra fonte Se cerchiamo salvezza, il nome stesso "Gesù "ci insegna a cercarla in lui. Se cerchiamo i doni dello Spirito Santo, li troveremo nella sua consacrazione. Se cerchiamo forza, è situata nella sua sovranità. Se vogliamo trovare dolcezza e benignità, la sua natività ce la presenta: in essa egli è stato reso simile a noi per imparare ad essere pietoso. Se domandiamo redenzione, la sua passione ce la dà. Nella sua condanna, troviamo la nostra assoluzione. Se desideriamo che la maledizione ci sia allontanata, lo otteniamo nella sua croce. La soddisfazione, l'abbiamo nel suo sacrificio; la purificazione, nel suo sangue; la nostra riconciliazione è avvenuta mediante la sua discesa agli inferi. La mortificazione della nostra carne si trova nel suo sepolcro; la novità di vita, nella sua risurrezione, nella quale abbiamo anche la speranza dell'immortalità. Se cerchiamo l'eredità celeste, ci è assicurata dalla sua ascensione. Se cerchiamo aiuto e conforto e abbondanza di ogni bene, l'abbiamo nel suo regno. Se vogliamo presentarci al giudizio con tranquillità, possiamo farlo poiché è il nostro giudice.

In lui insomma è il tesoro di tutti i beni e da lui dobbiamo attingere per essere saziati, non altrove. Chi non fosse soddisfatto di lui e ondeggiasse qua e là da una speranza all'altra, pur continuando a guardare soprattutto a lui, non terrebbe la strada giusta volgendo altrove una parte almeno dei propri pensieri. Del resto questa sfiducia non può penetrare nel nostro cuore, se abbiamo coscienza delle sue ricchezze.