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Meglio non pensarci? No, pensiamoci e prepariamoci
Vi piacciono i vostri compleanni? Quando vi chiedono l’età, dichiarate senza problemi il numero dei vostri anni, oppure non lo fate volentieri, preferendo magari, se proprio è necessario, menzionare solo il vostro anno di nascita? Io mi pongo in quest’ultima categoria.... Lo devo ammettere: la consapevolezza del passare del tempo ed il termine della mia vita talvolta mi angoscia e sicuramente questo sentimento è incoerente con la mia professione di fede cristiana. Capita anche a voi? A questo dobbiamo porre rimedio.
Forse che in questo sono troppo influenzato dal comune sentire di chi non vive nella prospettiva di Cristo? Forse che questi pensieri sorgono in me perché, a causa della mia attuale occupazione, passo molto tempo con anziani e disabili? Forse, ma il problema è reale: la nostra generazione teme la morte e di “queste cose” non ne vuole neppure parlare, è “tabù”! Noi, i morenti li nascondiamo dalla vista! Le passate generazioni “ci pensavano” e ci pensano molte popolazioni oggi perché sono circondate da persone che muoiono, fra le quali molti dei loro cari e per diversi motivi. Alla morte ci pensano e se ne preparano. Perché, invece, noi “nascondiamo la testa sotto la sabbia” e rifiutiamo di affrontare il problema presumendo erroneamente che le cose “vadano a posto da sole”?
Sì, la maggior parte dei nostri contemporanei (e molti fra coloro che pur si dicono cristiani), vivono come se la loro vita terrena si dovesse prolungare in modo indeterminato godendo di salute e benessere. Quando, poi, si risvegliano alla realtà e, a parte dalle malattie e dagli incidenti fatali (sempre “dietro l'angolo”) considerano lo scorrere implacabile degli anni, soprattutto negli anni prossimi “alla pensione”, di fronte al lento deterioramento del nostro corpo, all’indebolimento dei nostre capacità e sensi, nella consapevolezza che il momento della nostra morte inevitabilmente si avvicina, ci invade appunto. un senso di inconfessabile angoscia. Come lo affrontiamo? A malapena cerchiamo di soffocarlo “non pensandoci” e, così diciamo, “vivendo giorno per giorno”, traendo “il meglio” di ogni ora che ci è donata e lasciamo che le cose “vadano come vadano”. Tutto questo è “cristiano”? No.
Magari razionalizziamo lo scorrere della nostra vita. Riconosciamo che essa comporta “un termine naturale”, un momento stabilito, e che dobbiamo essere soddisfatti quando vediamo che “il nostro compito” (lo scopo della nostra vita) è stato realizzato e “possiamo andarcene in pace”, uscendo definitivamente di scena, “scomparendo nel nulla”, nella permanenza delle sole nostre opere, del “nostro contributo”, dei nostri discendenti, del nostro ricordo (spesso comunque labile). È questo “cristiano”? Non completamente.
C'è chi vede la morte come “un'ingiustizia” (soprattutto quando riteniamo di essere indispensabili e che “il nostro compito” non è terminato), parliamo di “innocenti” che non la meriterebbero. Quando ci tocca da vicino ce la prendiamo più o meno esplicitamente con Dio. È “cristiano” tutto questo? No. “...che diremo? Che Dio è ingiusto quando dà corso alla sua ira? (Parlo alla maniera degli uomini.)” (Romani 3:5). Chi siamo noi per giudicare sulla base dei nostri criteri ciò che è giusto? Non è forse vero che “il salario del peccato è la morte” (Romani 6:23)? Sì, ma, però...
Come cristiani questa paura della morte (più o meno confessata) è umanamente comprensibile, ma non è giustificabile in presenza di una fede vivente nella promesse del Signore Gesù e certamente questo non era il sentimento delle passate generazioni di cristiani fedeli. Il Signore Gesù, infatti, è Lui che ci libera dalla paura della morte e ci porta a relativizzare la nostra esistenza terrena, assicurandoci di nuove dimensioni della nostra esistenza personale, per grazia di Dio, in comunione con Lui. La lettera agli ebrei dice: “Poiché dunque i figli hanno in comune sangue e carne, egli pure vi ha similmente partecipato, per distruggere, con la sua morte, colui che aveva il potere sulla morte, cioè il diavolo, e liberare tutti quelli che dal timore della morte erano tenuti schiavi per tutta la loro vita. Infatti, egli non viene in aiuto ad angeli, ma viene in aiuto alla discendenza di Abraamo” (Ebrei 2:14-16).
L’apostolo Paolo “non vedeva l’ora” di essere con il Signore terminando la sua esistenza terrena. Egli diceva: “Sappiamo infatti che se questa tenda che è la nostra dimora terrena viene disfatta, abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta da mano d'uomo, eterna, nei cieli” (2 Corinzi 5:1); “Siamo dunque sempre pieni di fiducia, e sappiamo che mentre abitiamo nel corpo siamo assenti dal Signore (poiché camminiamo per fede e non per visione); ma siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore” (2 Corinzi 5:6-8). Non deve essere forse pure questo il nostro atteggiamento? Dovremmo poter dire: “Gli anni passano, io invecchio. Si sta avvicinando il felice momento in cui sarò per sempre con Colui che mi ama e che io amo”. Abbiamo il coraggio di dirlo? E, soprattutto, accompagniamo anche altre persone (giovani o vecchie che siano) a vedere la vita dalla prospettiva biblica agendo sulla base del messaggio dell'Evangelo?
Se, di fronte a tutto questo ancora qualcuno magari dicesse: “Questi discorsi sono morbosi e insani”, “meglio non pensarci”, beh, io dico, “No, parliamone e, soprattutto prepariamoci per quel momento affidando la nostra vita al potere rigenerante del Salvatore Gesù Cristo. Per farlo, non aspettiamo “gli anni della pensione”, perché le”fatalità” sono sempre possibili”. “Tocca ferro”? O qualche altro gesto superstizioso? Che irresponsabile sciocchezza!
Non è forse saggio “pensare a queste cose” nella prospettiva del messaggio del Nuovo Testamento? “Le parole dei saggi sono come degli stimoli, e le collezioni delle sentenze sono come chiodi ben piantati; esse sono date da un solo pastore” (Ecclesiaste 12:13).