Etica/Proprietà privata

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Proprietà Privata

di John W. Robbins

[Quanto segue è la traduzione del capitolo Private Property dal libro Ecclesiastical Megalomania di John W. Robbins]

Gli storici del pensiero economico sono a conoscenza, con la possibile eccezione dello pseudo-Aristotelico Economia, di solo poche, isolate affermazioni ad hoc su questioni economiche durante il millennio a cavallo della vita terrena di Gesù Cristo. Gran parte del dibattito si svolge nell’ambito di questioni politiche e morali, e non come temi a sé stanti su cui riflettere e analizzare a fondo1.

Cruciale per la comprensione del pensiero economico della Chiesa-Stato Romana, è quello di colui sarebbe diventato il filosofo ufficiale della Chiesa-Stato Romana, Tommaso d’Aquino, seppur non avesse scritto alcun trattato di economia2.

Saggi e trattati di economia non apparvero fino ai secoli XVI, XVII, XVIII quando, dopo la Riforma Protestante e l’avvento del capitalismo, le economie si erano sviluppate al punto di spingere alcuni osservatori a pensare che valeva la pena scrivere qualcosa a riguardo.

Questi attenti e acuti osservatori di quell’armonioso ordinamento di mercato, composto da uomini ma non ottenuto da alcuna pianificazione umana, apparso su grande scala al posto di quello localizzato e limitato che aveva fino allora caratterizzato l’Occidente, conclusero che questo fenomeno richiedeva una spiegazione. Era nata così la disciplina dell’Economia.

Gran parte di questi scrittori, tuttavia, non erano Cattolici Romani, e scrissero al di fuori della sfera di influenza della Chiesa-Stato Romana, anche perché non furono le economie dei paesi Cattolico Romani a svilupparsi più rapidamente ma quelle dei paesi Protestanti. Il pensiero economico della Chiesa-Stato Romana è rimasto fermo e coerente per secoli, attenendosi fedelmente ai primitivi ed erronei dogmi di Aristotele e dell’Aquinate. I suoi principi fondamentali sono rimasti sempre gli stessi, anche se la loro elaborazione e applicazione si sono diversificate nel tempo.

È stato il pensiero economico Cattolico Romano, come sviluppato dai papi nelle loro encicliche e dai vari concilii, ad aver contribuito, se non ne è stato la sola sorgente, durante la lunga egemonia storica della Chiesa-Stato Romana, a svariate forme di organizzazioni politiche ed economiche anticapitaliste. Tra queste forme si annoverano:

Feudalesimo e Socialismo delle corporazioni (gilde) durante in età medievale.

Fascismo in Italia, Spagna, Portogallo, Croazia e America Latina nel XX secolo.

Nazismo in Germania nel XX secolo.

Interventismo e Redistribuzionismo di Stato in occidente, e negli USA nel XX secolo, e

Teologia della Liberazione in America Latina e in Africa nel XX secolo

Per comprendere come il pensiero economico della Chiesa-Stato Romana abbia dato vita a tutti questi sistemi anticapitalisti dobbiamo cominciare con la discussione di Tommaso d’Aquino sulla proprietà privata, dato che essa è l’istituzione centrale delle società civilizzate, ed è stato il suo rigetto da parte della Chiesa-Stato Romana ad aver contributo all’avvento di diverse varietà di distruttivo anticapitalismo in tutto il mondo.

Per capire la dottrina tomista della proprietà privata dobbiamo prima comprendere la concezione tomista della legge. Secondo l’Aquinate ci sono quattro tipi di legge.

Primo, la legge eterna che è il piano di Dio per l’universo e i suoi abitanti. Così, per esempio, fa parte della legge eterna il fatto che le pietre lanciate in aria ricadano al suolo, e che le piante crescano verso la luce. Secondo, la legge naturale/diritto naturale, che è la partecipazione delle creature razionali alla legge eterna. Così l’uomo è per natura un animale sociale. Quando gli uomini parlano fra di loro e vivono in società, non stanno facendo altro che quello che è naturale per loro, proprio come succede con le pietre e le piante. Terzo, la legge positiva/diritto positivo che sono le consuetudini, le leggi e i regolamenti fatti dai governanti nel tentativo di applicare la legge naturale a individui e società. Infine, la legge divina/diritto divino, come i Dieci Comandamenti. La proprietà privata, secondo Tommaso d’Aquino, non fa parte né del diritto naturale, né costituisce un diritto assoluto, ma è un’invenzione della ragione umana. È una creazione del diritto positivo ed è da questo regolamentata. Non è la proprietà privata ma il possesso comune di tutti i beni a fare invece parte del diritto naturale. Tommaso scrisse:

E in questo senso sono di diritto naturale «il possesso in comune e la libertà uguale per tutti»: poiché la spartizione dei beni e la servitù non furono introdotte dalla natura, ma dalla ragione dell‘uomo, in quanto utili alla vita umana3. La “comunanza dei beni”, scrisse Tommaso:

...viene attribuita al diritto naturale non perché questo imponga di possedere tutto in comune e nulla in privato, ma perché la distinzione delle proprietà non dipende dal diritto naturale, bensì da una convenzione umana la quale, come si è già notato [q. 57, aa. 2, 3], rientra nel diritto positivo. Per cui il possesso privato non è contro il diritto naturale, ma è un suo sviluppo dovuto alla ragione umana4. È importante tenere presente che secondo il pensiero economico della Chiesa Cattolica Romana, qui espresso dal suo più grande e solo filosofo ufficiale Tommaso d’Aquino, il comunismo (con la “c” minuscola) , quello che Tommaso chiamò “comunanza dei beni” – è parte del diritto naturale, mentre la proprietà privata è parte del diritto positivo. Anche se la proprietà privata non è contraria al diritto naturale, non è in sé stessa naturale, e non gode pertanto dello stesso status metafisico o etico della “comunanza dei beni”. Mentre gli uomini non possono mutare il diritto naturale, ed è anzi loro richiesto di conformarvisi, essi possono invece cambiare il diritto positivo, in qualunque modo essi ritengano opportuno e morale. Ora ci sono diverse cose che possono rendere opportuna una tale “comunanza dei beni”, ma ce n’è una che la rende moralmente imperativa: il bisogno. Tommaso scrisse:

In caso di necessità tutto è comune. Quindi non è peccato se uno prende la roba altrui, resa comune per lui dalla necessità5 Non solo questa presa dell’altrui proprietà non è peccato, ma non è neanche un crimine, secondo Tommaso

...uno può soddisfare il suo bisogno con la manomissione, sia aperta che occulta, della roba altrui… Servirsi della roba altrui presa di nascosto in caso di estrema necessità, a rigore di termini, non è un furto. Poiché tale necessità rende nostro ciò che prendiamo per sostentare la nostra vita… Nel caso di una tale necessità uno può anche prendere la roba altrui, per soccorrere il prossimo nell’indigenza6 Nella filosofia tomista, è il bisogno il criterio morale per il legittimo e corretto possesso della proprietà. Chiunque necessiti della proprietà dovrebbe possederla, è il bisogno a rendere propri i beni altrui. Il bisogno è il supremo e solo titolo morale alla proprietà. Né il possesso, né la creazione, né la produzione, né il divino comandamento (ad eccezione della proprietà della Chiesa-Stato Romana7) attribuisce titolo alla proprietà che sia immune alla prioritaria rivendicazione del bisogno.

La concezione di Tommaso d’Aquino non era originale, naturalmente. Egli l’aveva ricevuta dai teologi della chiesa primitiva, che a loro volta l’appresero dalla filosofia Greca e Romana. Nelle Pseudo-Clementine vi leggiamo che “I possedimenti sono un peccato per tutti noi8”. Giovanni Crisostomo (354-407) scrisse nella sua omelia su 1 Timoteo 4:

… considera insieme a me l'economia del piano di salvezza di Dio: egli ha fatto sì che alcuni beni fossero in comune, affinché anche da questi potesse nascere una sorta di timore riverenziale nei suoi riguardi, e cioè l'aria, il sole, l'acqua, la terra, il cielo, il mare, la luce e gli astri: egli ci ha partecipato questi beni come a dei fratelli… Ebbene, osserva come in relazione a questi beni comuni non sussista alcuna contestazione, ma tutto è accettato pacificamente. Infatti, non appena uno tenta di usurpare qualcuno di questi beni e cerca di appropriarsene, ecco che allora subito sorge la rivolta, come se la natura mal sopportasse il fatto che, mentre Dio ha posto tutte insieme per noi le cose, non invece tentiamo di dividerle, di farle tutte nostre fino al punto di dire questa fredda espressione: “Questo è mio, questo è tuo”. Da qui le lotte, da qui le inimicizie! Prova ne è il fatto che, quando non c’è nulla di tutto questo [la proprietà privata] non sorge né lotta, né contestazione. Dobbiamo concludere quindi , che noi abbiamo ricevuto in sorte non la proprietà, ma la comunanza dei beni, e ciò è secondo natura.9 Basilio, vescovo di Cesarea, in Cappadocia (329-379) chiese:

Dove hai tu preso qualche cosa per immetterla nella vita? – I ricchi fanno come chi, per aver occupato una sola volta un posto a teatro, respinge coloro i quali vogliono entrare, perché considera come sua proprietà personale ciò che è messo a disposizione di tutti indistintamente. I ricchi s’impadroniscono di ciò che è di tutti e se l’appropriano in forza del diritto del primo occupante. Se ciascuno prendesse soltanto di che sovvenire alle proprie necessità e lasciasse il superfluo all’indigente nessuno sarebbe ricco, nessuno sarebbe povero, nessuno sarebbe nella miseria...10 Ambrogio, vescovo di Milano (339-397), anche se polemizzò contro lo Stoicismo di Cicerone, concordava comunque con gli stoici riguardo la proprietà:

La natura infatti profuse a tutti i suoi doni; perché Dio comandò che tutto si producesse a comune beneficio di tutti e che la terra fosse in certo qual modo comune possesso di tutti. La natura dunque ha generato il diritto comune, la presa di possesso [usurpatio] da parte degli uomini il diritto privato11 Nel quinto secolo avanti Cristo, il commediografo greco Aristofane (445-388 a.C.), nel suo Le donne al parlamento, mise queste parole sulle labbra di Prassagora, la protagonista:

??Le sostanze in comune, porre, dico io, conviene,e che ognun le partecipi, ne ritragga il suo vitto. Né vo' ch'uno a palate quattrini abbia, un sia guitto; questo abbia terre a iosa, quello invece nemmanco da scavarsi la fossa; questo si vegga al fianco una folla di schiavi, quello non n'abbia uno neppur per fargli coda! Ma la vita accomuno di tutti, ora, e i diritti per tutti uguali io vo'.

Era opinione comune tra i Greci e i Romani (come anche in più antiche culture) che c’è stata un’epoca nella quale gli uomini vivevano nell’innocenza e tutte le cose erano in comune. Nelle Georgiche Virgilio scrisse che “nemmeno era lecito per legge divina delimitare o dividere con un confine il campo ; tutto quello che raccoglievano lo mettevano in comune, e la terra spontaneamente produceva tutto con molta liberalità, senza che alcuno lo sollecitasse.”12

Hengel così commenta le concezioni dei teologi della chiesa primitiva:

Questa tesi che la proprietà privata venne in esistenza a seguito della Caduta ebbe una grande influenza nella storia della chiesa. La si ritroverà in seguito tra i teologi Francescani e ancora in Zwingli e Melantone… Naturalmente tali “teorie della proprietà”, ben diffuse nella chiesa primitiva, non hanno uno specifico fondamento nel Nuovo Testamento. Si poteva altrettanto bene ricorrere alla filosofia e alla legge naturale per la tesi di Gregorio Nazianzeno secondo la quale la proprietà privata, le ricchezze e la povertà sono conseguenza della Caduta.13 Ed è davvero difficile distinguere la concezione della proprietà di Gregorio Nazianzeno da quella Stoica di Seneca:

La filosofia ci ha insegnato il culto del divino, l’amore per l’umano, e da lei abbiamo appreso che l’autorità suprema risiede presso gli dei e che fra gli uomini sussiste una comunanza di vita e di destino. Ciò rimase per un certo tempo inviolato, finché l’avidità non lacerò il tessuto sociale e fu causa di indigenza … In un contesto egregiamente ordinato irruppe l’avidità, e questa, mentre ardeva per il desiderio di distrarre qualcosa dal patrimonio comune e di appropriarsene, rese estraneo ogni bene, riducendosi in strettezze da una condizione di incommensurabile ricchezza14... Purtroppo né i teologi della chiesa primitiva né l’Aquinate ci hanno informato in cosa consista il bisogno o su come questo possa essere accertato. Inoltre, parrebbe che la stessa persona bisognosa e le pubbliche autorità siano i giudici competenti a decidere se qualcuno necessiti i beni del suo prossimo o meno. Infatti, nessuno può sapere quanto sia affamato un altro, né di quanta assistenza medica o quante informazioni necessiti, quindi è la stessa persona che può essere il solo giudice del proprio bisogno. Ma è proprio per rimediare a questa stortura che le autorità pubbliche devono intervenire, come le successive encicliche rendono chiaro. La sola persona tuttavia che si ritrova a non essere giudice e a non avere autorità morale in materia sembra essere il titolare della proprietà che viene alienata.

Ed è da queste dottrine della naturale “comunanza dei beni” e il primato morale del bisogno che scaturirono tutte le forme di organizzazioni sociali anticapitaliste che la Chiesa-Stato Romana ha promosso e sostenuto nello scorso millennio. La dottrina Cattolico Romana della proprietà privata riecheggia nello slogan comunista ottocentesco “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, si riverbera nello slogan novecentesco dei liberal americani “I diritti umani sono più importanti dei diritti di proprietà”, ed era il credo della Great Society di Lyndon Johnson: “Prenderemo da chi ha e daremo a chi non ha, che ne ha un grande bisogno”.

Essa appare nella letteratura del fascismo, del Nazismo, della teologia della liberazione, dell’interventismo statale e del socialismo. I collettivisti di ogni genere concordano con Tommaso d’Aquino che coloro che detengono proprietà sono moralmente e legalmente obbligati a cedere i loro beni a chi è nel bisogno. I collettivisti convengono con l’Aquinate che chi si trova nello stato di necessità è moralmente e legalmente giustificato ad appropriarsi dei beni del prossimo suo. Dovessero mai esitare o essere incoerenti, potrebbero magari non difendere direttamente il saccheggio o l’esproprio, ma appoggiare l’azione indiretta mediante la tassazione, la regolamentazione e l’esproprio statale.

Queste nozioni Tomistiche – ovvero che la proprietà privata è semplicemente un costrutto della ragione umana e dello Stato, e che il bisogno conferisce al bisognoso titolo ai beni altrui – sono la ragione ad esempio per cui i vescovi Cattolici Romani brasiliani pronunciarono nel 1998 che il saccheggio non è né un peccato né un crimine15. I bisogni dei razziatori gli conferiscono titolo ai beni che arraffano. Secondo la dottrina cattolico romana i saccheggiatori sono, per diritto naturale e divino, i legittimi possessori di quei beni.

Il Cardinale Cajetano (1469-1514) illustrò alcune delle implicazioni della concezione Tomistica della proprietà:

Così questo può fare il principe in virtù del suo ufficio, affinché sia preservata l'equità nelle ricchezze da quanti non vogliono dispensare il superfluo di natura e persona, ossia distribuirlo agli indigenti, come ad esempio togliendo l'amministrazione delle ricchezze di cui è incaricato a chi si è arricchito indegnamente. Infatti secondo la dottrina dei Santi, le ricchezze superflue non sono vere ricchezze se non nel modo in cui sono concesse da Dio, affinché abbia il merito di una buona amministrazione. Si fonda quindi in questo caso il dovere secondo la legge divina circa l'equità stessa delle ricchezze, le quali siano unite alla produzione di un bene valido, la sovrabbondanza non dispensata ma conservata è impegnata contro l'interesse di entrambi: infatti è impegnata sia contro chi la conserva, perché è sua come se ne fosse amministratore; e contro l'interesse degli indigenti, perché ciò che deve passare a loro uso è invece impegnato. E come disse Basilio, ciò è degli stessi indigenti per debito, sebbene non di fatto. E perciò si fa torto agli indigenti non distribuendo le cose superflue. La qual ingiustizia il principe, che è il custode del diritto, per il suo ufficio può e deve rimuovere, come si osserva chiaramente16 L’elargizione delle ricchezze al bisognoso non è, nel pensiero tomistico, semplicemente un obbligo morale privato, per quanto sia fondamentale e importante, ma è invece un obbligo legale pubblico che è appropriatamente implementato dalle autorità pubbliche. Nei prossimi capitoli verrà ampiamente acclarato che questa è la posizione ufficiale adottata dalla Chiesa-Stato Romana.

Note

1 Si veda Joseph Schumpeter, History of Economic Analysis, New York: Oxford Univesity Press, 1954.

2 “Una completa e autorevole esposizione del pensiero economico medievale si può trovare negli scritti di San Tommaso d’Aquino (1225-1274), una grande figura dello Scolasticismo medievale il cui sistema di pensiero sarebbe diventato, ed è ancora oggi, la filosofia ufficiale Cattolica” (Henry William Spiegel, The Growth of Economic Thought, Revised editionn. Durham: Duke University Press, 1983, p. 57)

3 Questione 94, La Legge Naturale, Art. 5, Se la legge naturale possa mutare, Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica. Sola trad. italiana: Volume 2 - Seconda Parte, Prima Sezione, p. 734. Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1996.

4 Questione 66, Il Furto e la Rapina, Art. 2, Se sia lecito a un uomo possedere in proprio qualcosa. Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica. Sola trad. italiana: Volume 3 - Seconda Parte, Seconda Sezione, p. 524, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1996.

5 Questione 66, Il Furto e la Rapina, Art. 7, Se sia lecito a un uomo possedere in proprio qualcosa. Ibid. p. 529.

6 Ibid. p. 529.

7 “La Chiesa cattolica ha il diritto nativo, indipendentemente dal potere civile, di acquistare, possedere, amministrare ed alienare beni temporali per conseguire i fini che le sono propri” – Canone 1254.

“La Chiesa ha il diritto nativo di richiedere ai fedeli quanto le è necessario per le finalità sue proprie” – Canone 1260, Codice di Diritto Canonico ed Ecclesiastico, dal sito ufficiale del Vaticano.

8 Capitolo XV, Articolo IX

9 Giovanni Crisostomo, Commento alla prima lettera a Timoteo, pp 214, 215 . Traduzione, introduzione e note a cura di Gerardo Di Nola. Roma, Città Nuova, 1995

10 Come citato da Igino Giordani, Il messaggio sociale del Cristianesimo, pp 936-937, Città Nuova editrice, Roma, 2001

11 Ambrogio da Milano, De Officiis, 1, 18, come citato da L. Bettazzi, T. Lupo, Linee generali di storia della morale, dalle origini all'inizio della Scolastica, Società Editrice Internazionale, 1988, p 137. NdT il significato di usurpatio è oggetto di dibattito, alcuni autori contestano la sua traduzione con avidità, come fa ad esempio la citazione in inglese. Si veda ad esempio Luciano Orabona, Aspetti e problemi sociali di storia della Chiesa, Garigliano, 1980, pp 124-127. Tale autore ritiene che il suo corretto significato sia semplicemente “uso” e non “presa di possesso” o “avidità”. Ciò nondimeno, egli ribadisce tuttavia la concezione ambrosiana della proprietà privata come creazione del diritto positivo con finalità sociali.

12 Virgilio, Georgiche, versi 126-128 “Niun, pria di Giove il suol trattò; né allotta / Confin soffrìan, né un segno pur, le lande; / Vivean tutti in comun; per se, non tocca / Tutto porgea larga e leal la terra”.

13 Martin Hengel, Property and Riches in the Early Church, 3

14 Seneca Lettere morali a Lucilio, Lettera 90, §§ 3, 38. e-book Oscar Mondadori, 2018. Hengel così commenta. “È ben chiaro il filo che lega le antiche teorie di un “comunismo primordiale” moralmente elevato o di una “catastrofe primordiale” presumibilmente introdotta dalla divisione del lavoro e da private possessioni con i moderni “miti storici” del Marxismo popolare. Il “ritorno alla natura” di Rousseau così come la teoria de “la proprietà è un furto” di Proudhon non sono idee originali, ma sono rintracciabili ad antiche origini”, Property and Riches in the Early Church, p. 7

15 Il San Diego Union-Tribune riportò un articolo di Stan Lehman della Associated Press da Arcoverde, in Brasile, l’8 Maggio 1998: “Souza, uno tra gli stimati dieci milioni di Brasiliani che stanno affrontando una siccità devastante, dice che non farà nulla per salvare la sua famiglia. ‘Saccheggerò per sopravvivere’, disse con aria di sfida. E non sarà il solo. La Chiesa Cattolica [Romana] dice che il saccheggio col fine di scongiurare la fame non è né un peccato né un crimine. In un articolo precedente (2 maggio), Lehman aveva riportato: “Il Movimento degli Operai Rurali Senza Terra ha approvato il saccheggio come tattica per fare pressioni sul governo al fine di ottenere sussidi, con la Chiesa Cattolica che ha prontamente difeso la decisione. ‘Non è un crimine ricorrere a questo tipo di azione in condizioni di estremo bisogno’, così ha detto [il Vescovo Cattolico Francisco de] Mosquita [Filho of Afogados da Ingazeira] in un incontro della Conferenza Episcopale Brasiliana a Campinas.” In un articolo datato 27 aprile 1998, l’Interpress Service riportò che “il Vescovo Cattolico Orlando Dotti disse che i militari andrebbero inviati ‘per distribuire vitto al popolo’ invece di difendere la proprietà. Ben noto membro della corrente progressiva del clero Brasiliano, Dotti difese il diritto di saccheggio ‘nei casi di fame estrema’. Parlando all’Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Brasiliana, i cui lavori sono iniziati mercoledì scorso a Indaiatiba, 100 km da San Paolo, il vescovo dimostrò come la dottrina sociale della Chiesa ammetteva il furto come ultima risorsa quando è in gioco la sopravvivenza. Egli fece notare come quindici (sic!) secoli fa, San Tommaso d’Aquino affermò che il diritto alla vita ha priorità sul diritto di proprietà... Vescovi conservatori e moderati come Amaury Castanho, la cui diocesi si trova nei sobborghi di San Paolo, dissero che ‘rubare per mangiare, in caso di fame’ è ammesso dalla dottrina Cristiana, secondo la quale i beni diventano di possesso comune in caso di estrema necessità.”

16 Sancti Thomae Aquinatis, Opera Omnia, Tomus Nonus, Secunda Secundae Summae Theologiae cum commentariis Thomae de Vio Caietani Ordinis Praedicatorum, p. 458, Roma, 1897. (Traduzione dal latino di Andrea S.)