Letteratura/Istituzione/3-15

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Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO 15.

TUTTO QUEL CHE SI DICE PER ESALTARE I MERITI DISTRUGGE SIA LA LODE DI DIO SIA LA CERTEZZA DELLA NOSTRA SALVEZZA

1. Abbiamo già risolto il problema essenziale in questa materia: ogni giustizia, fondata sulle opere, è inevitabilmente annullata dinanzi a Dio; essa può dunque riscontrarsi nella sola misericordia di Dio e nella sola comunione con Cristo, di conseguenza nella sola fede.

Dobbiamo osservare attentamente che questo è il punto principale, per non lasciarci coinvolgere nell'errore comune non solo al popolo, ma anche ai dotti. Infatti, quando si tratta di sapere se la fede o le opere giustificano, essi citano i passi che paiono attribuire qualche merito alle opere dinanzi a Dio, come se la giustificazione per mezzo delle opere fosse dimostrata provando che esse sono tenute in qualche considerazione davanti a Dio. È: stato chiaramente dimostrato che la giustizia delle opere consiste unicamente in un'osservanza perfetta e completa della Legge: ne deriva che nessuno è giustificato dalle sue opere, se non colui che è giunto ad una tal perfezione da non poter essere rimproverato per la minima colpa.

È dunque un altro e diverso problema, il sapere se le opere, benché non bastino a giustificare l'uomo, gli possano acquistare favore dinanzi a Dio.

2. Anzitutto, sono costretto a dire a proposito del termine "merito ", che chi l'ha, per primo, riferito alle opere umane nei confronti del giudizio di Dio, non ha giovato a mantenere l'autenticità della fede. Quanto a me, evito ogni polemica terminologica: ma desidererei che i cristiani avessero sempre conservato la sobrietà di non ricorrere, senza ragione e senza scopo, a vocaboli estranei alla Scrittura, capaci di generare molto scandalo e poco frutto. Infatti, che bisogno c'era, vi chiedo, di tirar fuori il termine "merito ", se la dignità delle buone opere poteva essere spiegata senza inconvenienti altrimenti? Ci rendiamo conto di quanti scandali sono derivati da questo termine, con gran danno del mondo intero: il termine indiscutibilmente pieno di orgoglio, non può che oscurare la grazia di Dio e alimentare negli uomini una vana superbia. Gli antichi Dottori della Chiesa ne hanno comunemente fatto uso, lo ammetto, ma fosse piaciuto a Dio che quella loro parolina non avesse dato occasione di errore ai posteri.

Hanno tuttavia dichiarato non di rado che non volevano recar pregiudizio alla verità. Sant'Agostino, in un passo, dice: "I meriti umani, periti in Adamo, tacciano; regni per mezzo di Gesù Cristo la grazia di Dio ". E: "I santi non attribuiscano nulla ai loro meriti, ma tutto alla misericordia di Dio ". E ancora: "Quando l'uomo vede che tutto quel che ha di buono non proviene da lui ma dal suo Dio, vede altresì che tutto ciò che è lodato in lui non deriva dai suoi meriti, ma dalla misericordia di Dio ". Vediamo come, avendo tolto all'uomo la capacità di agire bene, abbatta anche la dignità dei suoi meriti. Anche Crisostomo dice: "Tutte le nostre opere che seguono la vocazione gratuita di Dio sono come dei debiti che gli paghiamo; ma questi benefici provengono dalla sua grazia, dalla sua bontà e dalla sua pura generosità ".

Ma, tralasciando il termine, consideriamo piuttosto la cosa. San Bernardo dice giustamente, come già ho ricordato altrove, che come basta, per aver dei meriti, il non presumere dai propri meriti così, per essere condannato, basta non aver alcun merito. Ma l'interpretazione che aggiunge, addolcisce la durezza di questo termine: "Procura, dunque, di avere dei meriti; quando li avrai, sappi che ti sono dati; sperane il frutto dalla misericordia di Dio, e così facendo avrai evitato ogni pericolo di povertà, di ingratitudine, di presunzione. Beata la Chiesa che ha meriti senza presunzione, e presunzione senza meriti ". Poco prima aveva indicato in quale senso usava questo termine, dicendo: "Perché la Chiesa si preoccuperebbe dei meriti, poiché ha un mezzo più certo per glorificarsi secondo quanto piace a Dio? Dio non può rinnegarsi; farà quel che ha promesso. Perciò non bisogna chiedere per quali meriti speriamo di essere salvati, visto che Dio dice: "Non sarà per merito vostro, ma per l'amor di me stesso " (Ez. 36.22-23). Basta dunque, per meritare la salvezza, sapere che i meriti non bastano ".

3. Qual sia il merito delle nostre opere, la Scrittura lo indica dicendo che esse non possono sostenere lo sguardo di Dio, in quanto sono spazzatura e impurità; inoltre, quel che meriterebbe l'obbedienza perfetta della Legge, se la si potesse trovare in qualche luogo, lo dichiara ordinandoci di considerarci dei servi inutili, quand'anche fossimo riusciti a fare tutte le cose ordinateci (Lu 17.10) ' poiché neanche così avremmo compiuto qualcosa di gratuito verso Dio, ma ci saremmo semplicemente sdebitati dei servizi dovutigli, in cambio dei quali egli non deve alcuna grazia.

Tuttavia il Signore chiama nostre le opere che ci ha date: non solo attesta che gli sono gradite, ma che saranno da lui ricompensate. A partire da quel momento, è nostro compito prendere coraggio ed essere incitati da quelle promesse per non stancarci nel compiere il bene, e non essere ingrati verso una tal benignità. Tutto ciò che merita lode nelle nostre opere è indubbiamente grazia di Dio e non ci possiamo attribuire a buon diritto un sol briciolo di bene. In verità, se lo riconosciamo, non solo svanirà ogni fiducia nel merito, ma anche ogni illusione.

Non dividiamo dunque la lode delle buone opere fra Dio e l'uomo, come fanno i Sofisti, ma conserviamola intera per Dio. All'uomo riserviamo solo questo egli inquina e sporca con la sua impurità le opere che altrimenti erano buone, in quanto provenienti da Dio. Infatti, nulla che non sia intaccato da qualche macchia può uscire dall'uomo più perfetto che esista al mondo. Dio chiami dunque in giudizio le migliori opere degli uomini, e in esse troverà la sua giustizia e la confusione loro.

Le buone opere dunque piacciono a Dio, e non sono inutili a coloro che le fanno; esse ricevono, come ricompensa, grandissimi benefici da Dio; non che lo meritino, ma la benignità del Signore conferisce loro un tal premio. Che ingratitudine è se, non contenti che Dio con la sua generosità remuneri le opere con una ricompensa non dovuta e non legata ad alcun merito, per maledetta ambizione, vorranno dimostrarsi ingrati al punto di pretendere che quel che deriva dalla pura bontà di Dio sia dovuto al merito delle opere?

Mi appello qui al buon senso di ognuno. Se uno al quale è dato l'usufrutto di un campo, volesse attribuirsi il titolo di proprietà, non meriterebbe forse, per una tal ingratitudine, di perdere anche il possesso che aveva? Se uno schiavo reso libero dal suo padrone non volesse riconoscere la sua condizione, ma si attribuisse la condizione di esser nato libero, non meriterebbe forse di esser ricondotto in servitù? Ecco il modo giusto e legittimo di usare dei favori che ci sono stati fatti: non pretendere più di quanto ci è dato e non frodare il nostro benefattore della sua lode, ma comportarci in modo tale che quel che ci ha trasmesso paia in qualche modo risiedere in lui. Se dobbiamo avere questa umiltà di fronte agli uomini, quanto più dobbiamo averla di fronte a Dio.

4. So bene che i Sofisti abusano di qualche passo per provare che il termine "merito "si trova nella Scrittura. Citano una affermazione dell'ecclesiastico: "La misericordia prenderà in considerazione ognuno secondo il merito delle sue opere " (Ecclesiaste 16.14). E dall'epistola agli Ebrei: "Non dimenticate la beneficenza ed il mettere in comune i beni, poiché tali offerte meritano la grazia di Dio " (Eb. 13.16).

L'Ecclesiastico non fa parte del canone; mi asterrò dunque dal contestare il valore della citazione, faccio però notare loro che non citano fedelmente le sue parole, poiché così dice il greco, parola per parola: Dio prenderà in considerazione ogni misericordia; ognuno troverà secondo le sue opere. Che questo sia il significato ovvio e che il passo sia stato corrotto nella traduzione latina, lo si può vedere tranquillamente sia da quel che segue, sia dall'affermazione stessa, se presa in se. Quanto all'epistola agli Ebrei, non fanno che cavillare, visto che il termine greco di cui si serve l'Apostolo altro non significa se non: tali offerte sono gradite a Dio. Ciò basterà ad abbattere e reprimere ogni orgoglio insolente in noi, se non oltrepassiamo il limite della Scrittura per attribuire qualche dignità alle opere. La Scrittura insegna che le nostre opere sono intaccate da parecchie macchie, da cui Dio sarebbe, a buon diritto, offeso contro di noi; altro che poterci acquistare la sua grazia ed il suo favore, o spingerlo a farci del bene! Tuttavia, rifiutando nella sua grande clemenza di esaminarle con rigore, le accetta come purissime e perciò le ricompensa con infiniti benefici sia nella vita presente sia nella vita futura, benché esse non l'abbiano meritato. Infatti non posso accettare la distinzione fatta da alcuni dotti secondo la quale le buone opere sono meritorie delle grazie che Dio ci dà in questa vita, ma la salvezza eterna è la ricompensa della sola fede, visto che il Signore ci promette che la ricompensa delle nostre fatiche e la corona della nostra battaglia sono in cielo.

D'altra parte, attribuire al merito delle opere il fatto che, giornalmente, riceviamo nuove grazie da Dio, sottraendo questo alla grazia, contraddice l'insegnamento della Scrittura. Cristo dice che sarà dato in sovrappiù a colui che ha, e che il buon servitore, comportatosi fedelmente nelle piccole cose, sarà stabilito su cose più grandi (Mt. 25.21-29) , ma dimostra altresì che i progressi dei credenti sono doni della sua gratuita benignità. "Voi tutti che avete sete "dice "venite all'acqua; e voi che non avete denaro, venite e prendete senza denaro e senza il minimo compenso vino e latte " (Is. 55.1). Perciò tutto quel che è dato ai credenti per l'avanzamento della loro salvezza è pura bontà di Dio, come la beatitudine eterna. Ma, sia nelle grazie che ci largisce nel tempo presente, sia nella gloria futura, dice che tiene in qualche considerazione le nostre opere; per attestarci il suo amore infinito, gli piace non solo di onorare noi, in questo modo, ma anche i benefici che abbiamo ricevuto dalla sua mano.

5. Se queste cose fossero state trattate ed esposte in passato nell'ordine a loro confacente, non sarebbero mai sorti tanti sconvolgimenti e dissensi.

Per ben edificare la chiesa, san Paolo dice che dobbiamo tener fermo l'unico fondamento da lui posto fra i Corinzi, cioè Gesù Cristo (1 Co. 3.10). Di che natura è il fondamento che abbiamo in Cristo? È egli stato l'inizio della nostra salvezza affinché il compimento seguisse per opera nostra? Ci ha forse solo aperto la strada affinché dopo lo seguissimo con le nostre forze? No, di certo, ma quando riconosciamo che ci è dato quale giustizia (1 Co. 1.30) , come aveva detto prima. Nessuno dunque è ben radicato in Cristo se la sua giustizia non risiede interamente in lui, dato che l'Apostolo non dice che egli è stato mandato per aiutarci ad ottenere la giustizia, ma per essere la nostra giustizia, cioè in quanto da ogni eternità, prima della creazione del mondo, siamo stati scelti in lui non già in base a qualche merito, ma secondo il libero volere di Dio (Ef. 1.4); per mezzo della sua morte siamo stati riscattati dalla condanna a morte e liberati dalla perdizione (Cl. 1.14-20); in lui siamo stati adottati dal Padre celeste per essere i suoi figli ed eredi (Gv. 1.12); per mezzo del suo sangue siamo stati riconciliati con Dio (Ro 5.9-10); salvaguardati da lui, siamo liberati dal pericolo di morire (Gv. 10.28); incorporati a lui, siamo già in qualche modo partecipi della vita eterna, essendo entrati in speranza nel regno di Dio. Non è tutto: accolti nella sua comunione, seppure ancora pazzi in noi stessi, egli è per noi saggezza dinanzi a Dio; seppur peccatori, egli è per noi giustizia; impuri, egli è per noi purificazione; deboli e privi di forze e di armatura per resistere al diavolo, la potenza, che gli è stata data in cielo e sulla terra per spezzare il male ed infrangere le porte dell'inferno, ci appartiene (Mt. 28.18); sebbene portiamo ancora un corpo mortale, egli è per noi vita (2 Co. 4.10). Tutti i suoi beni insomma sono nostri, in lui abbiamo tutto ed in noi nulla. Dobbiamo dunque essere edificati su questo fondamento, se vogliamo essere dei templi consacrati a Dio (Ef. 2.21-22).

6. Ma il mondo ha da tempo ricevuto un insegnamento ben diverso. Si sono scoperte non so quali opere morali per rendere gli uomini graditi a Dio prima che siano incorporati a Cristo. Come se la Scrittura mentisse, quando dice che sono morti tutti coloro che non possiedono il Figlio (1 Gv. 5.12). Se sono morti, come potrebbero generare vita? Sarebbe stato detto invano che tutto quello che è estraneo alla fede è peccato (Ro 14.23); come potrebbero uscire buoni frutti da un albero cattivo?

Che cosa questi malvagi Sofisti hanno lasciato a Cristo, in cui egli manifesti la sua potenza? Dicono che ci ha meritato la prima grazia, cioè l'occasione di meritare, ma che a noi tocca ora non perdere l'occasione dataci. Che impudenza, e quanto sfrenata! Chi si sarebbe aspettato che coloro, che si dicono cristiani, privassero a tal punto Gesù Cristo della sua potenza da calpestarlo? Tutta la Scrittura gli rende testimonianza che sono giustificati tutti coloro che credono in lui, e quelle canaglie insegnano che non ci proviene da lui altro beneficio, se non quello di averci aperto la possibilità di giustificarci.

O se potessero afferrare il significato di queste affermazioni: chiunque ha il figlio di Dio, ha anche la vita (1 Gv. 5.12); chiunque crede, è passato dalla morte alla vita (Gv. 5.24) , ed è giustificato dalla sua grazia per esser fatto erede della vita eterna (Ro 3.24); Cristo abita in lui (1 Gv. 3.24) affinché sia unito a Dio per mezzo suo; è partecipe della sua vita, è seduto in cielo con lui (Ef. 2.6); è già trasferito nel regno di Dio (Cl. 1.13) ed ha ottenuto salvezza, ed altre innumerevoli simili affermazioni. Esse non significano soltanto che la possibilità di acquistare giustizia o salvezza ci proviene da Gesù Cristo, ma che l'una e l'altra ci sono date in lui. Di conseguenza, non appena siamo per fede incorporati a Cristo, diventiamo figli di Dio, eredi del cielo, partecipi della sua giustizia, possessori della vita, e per redarguire le loro menzogne affermiamo che non abbiamo solo ottenuto l'occasione di meritare, ma tutti i meriti di Cristo, che ci sono trasmessi.


7. Ecco come i Sofisti delle scuole sorboniche, madri di tutti gli errori, hanno distrutto l'intera giustificazione per mezzo della fede, fulcro di ogni pietà. Riconoscono sì, a parole, che l'uomo è giustificato per mezzo della fede formata; ma in seguito affermano che è perché le opere prendono dalla fede il valore ed il potere di giustificare: al punto che sembrano citare la fede solo per beffa, in quanto non potevano tacerla del tutto visto che essa è così spesso menzionata nella Scrittura.

Non contenti di questo sottraggono a Dio una parte del merito delle buone opere per trasferirlo all'uomo. Vedendo che le buone opere non hanno molta possibilità di esaltare l'uomo, anzi, in quanto si devono considerare frutti della grazia di Dio, non devono essere propriamente definite meriti, le fanno derivare dalla possibilità del libero arbitrio, cioè come l'olio da una pietra. È vero che non negano che la causa principale derivi dalla grazia; ma non ammettono che sia escluso il libero arbitrio da cui procede, come dicono, ogni merito.

Non soltanto i nuovi Sofisti, ma il loro grande maestro Pietro Lombardo dice altrettanto, il quale, in confronto agli altri, è molto sobrio e meno estremista. È certo indice di stupefacente accecamento il leggere sant'Agostino, che egli cita così spesso, e il non vedere con quale sollecitudine questo santo personaggio evita di attribuire all'uomo un sol briciolo di lode per le buone opere.

Trattando del libero arbitrio, abbiamo precedentemente citato alcune delle sue testimonianze a questo proposito, e se ne troveranno mille altre simili nei suoi scritti. Come quando ci proibisce di mettere innanzi i nostri meriti per attribuirci qualcosa, in quanto essi stessi sono doni di Dio; e quando dice che tutto il nostro merito proviene dalla grazia, e che ci è dato interamente per mezzo suo, non acquisito dalla nostra sufficienza.

Non fa gran meraviglia che il citato Lombardo non sia stato illuminato dalla luce della Scrittura, in quanto non ne era molto esperto. Non si potrebbe tuttavia desiderare contro di lui e contro tutto il suo seguito una affermazione più chiara di quella di san Paolo, quando dopo aver proibito ai cristiani ogni gloria, aggiunge il motivo per cui non è loro lecito gloriarsi: "Infatti siamo "dice "l'opera di Dio, creati per le buone opere che egli ha preparate, affinché camminiamo in esse " (Ef. 2.10). Poiché da noi non proviene alcunché di buono se non nella misura in cui siamo rigenerati, e la nostra rigenerazione proviene tutta da Dio senza alcuna eccezione, è sacrilego attribuirci un solo granello di lode per le buone opere.

Infine, benché questi Sofisti parlino senza fine e senza interruzione delle buone opere, educano le coscienze in modo tale che esse non oserebbero mai credere che Dio sia propizio alle loro opere. Noi, al contrario, senza menzionare affatto il merito, diamo una singolare consolazione ai credenti con il nostro insegnamento, affermiamo loro che piacciono e sono graditi a Dio nel loro operare; anzi richiediamo che nessuno si impegni in un'opera senza la fede, senza cioè aver determinato per certo in cuor suo che essa piacerà a Dio.

8. Non tolleriamo dunque, per nessuna ragione, che ci si allontani da quel fondamento, sia pure di un solo millimetro: su di esso, infatti, deve riposare tutto ciò che appartiene all'edificazione della Chiesa.

Così tutti i servi di Dio, a cui egli ha dato l'incarico di edificare il suo regno, avendo posto questo fondamento, quando sono necessari insegnamenti ed esortazioni, ricordano che il figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo affinché coloro che sono di Dio non pecchino più (1 Gv. 3.8); che è sufficiente aver seguito in passato i desideri del mondo (1 Pi. 4.3); che gli eletti di Dio sono strumenti della sua misericordia, e messi a parte per ricevere onore: perciò devono essere purificati da ogni sozzura (2Ti 2.20).

Ma ogni cosa è inclusa nell'affermazione che Cristo vuole avere dei discepoli che, avendo rinunciato a se stessi e presa la loro croce per portarla, lo seguano (Lu 9.23). Colui che ha rinunciato a se stesso ha già tagliato alla radice tutti i mali, cioè non cerca più quel che gli piace. Colui che ha preso la sua croce per portarla, si è disposto ad ogni pazienza e mansuetudine. Ma l'esempio di Cristo include e queste cose e tutti gli altri compiti della pietà e della santità. Infatti si è reso ubbidiente a suo Padre fino alla morte; è stato interamente occupato a portare a termine le opere di Dio con tutto il suo cuore; ha cercato di esaltarne la gloria; ha abbandonato la sua vita per i fratelli; ha reso bene per male ai suoi nemici.

Se sono necessarie delle consolazioni, gli stessi servitori di Dio ne danno di singolari: sopportiamo le tribolazioni ma non ne siamo angosciati; siamo in povertà ma non siamo spogliati; sopportiamo grandi assalti, ma non siamo abbandonati; siamo come abbattuti ma non periamo; portiamo la morte di Gesù Cristo nel nostro corpo affinché la sua vita sia manifestata in noi (2 Co. 4.8-10). Se siamo morti con lui, con lui altresì vivremo; se sopportiamo con lui, con lui del pari regneremo (2Ti 2.2). Siamo resi conformi a lui nelle sue sofferenze, fino a che giungiamo ad una risurrezione simile alla sua (Fl. 3.10) avendo il Padre ordinato che tutti coloro che egli ha scelti in Cristo siano resi conformi alla sua immagine, affinché sia il primogenito fra tutti i suoi fratelli (Ro 8.29). Pertanto, né avversità, né morte, né cose presenti o future possono separarci dall'amore che Dio ha per noi in Cristo (Ro 8.39). Tutto quel che ci accadrà si volgerà per noi a bene ed a salvezza.

Secondo questo insegnamento, non giustifichiamo l'uomo dinanzi a Dio per mezzo delle sue opere, ma affermiamo che tutti coloro che sono da Dio sono rigenerati e fatti nuove creature, affinché per mezzo di simili testimonianze rendano certa la loro vocazione (2 Pi. 1.10) e, come alberi, siano giudicati dai loro frutti.