Letteratura/Istituzione/3-08

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Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO 8

IL SOPPORTARE PAZIENTEMENTE LA CROCE FA PARTE DELLA RINUNCIA A NOI STESSI

1. Bisogna che la disposizione d'animo del credente salga ancora più in alto: Cristo chiama tutti i suoi a portare la propria croce (Mt. 16.24). Tutti coloro che il Signore ha adottati e ricevuti come figli devono prepararsi ad una vita dura, travagliata, piena di tribolazioni e di mali di ogni genere. Piace al Padre celeste esercitare in questo modo i suoi servitori, al fine di metterli alla prova. Ha iniziato questo procedimento in Cristo, suo figlio primogenito, e lo prosegue nei confronti di tutti gli altri. Sebbene Cristo fosse il suo figlio prediletto nel quale sempre si è compiaciuto (Mt. 3.17; 17.5) , vediamo che non è stato trattato mollemente e con delicatezza in questo mondo; non solo ha sofferto costante afflizione, ma l'intera sua vita è stata una croce continua. L'Apostolo ne stabilisce la causa nella necessità che fosse istruito all'obbedienza da quel che ha sofferto (Eb. 5.8). Come dunque ci esenteremo dalla condizione cui è stato necessario che si sottomettesse Cristo il nostro capo, il quale vi si è sottomesso per causa nostra, al fine di darci esempio di pazienza? L'Apostolo insegna che Dio ha destinato tutti i suoi figli a questo scopo: renderli conformi a Cristo (Ro 8.29).

Ce ne deriva una singolare consolazione: sopportando tutte le miserie che chiamiamo avversità e malvagità, noi abbiamo comunione con la croce di Cristo affinché, come egli è entrato nella gloria celeste attraverso un abisso di male, anche noi vi perveniamo attraverso varie tribolazioni (At. 14.22). San Paolo ci insegna che quando sentiamo in noi una partecipazione alle afflizioni di Cristo, parimenti afferriamo la potenza della sua risurrezione; e quando siamo fatti partecipi della sua morte, questa è una preparazione per giungere alla sua gloriosa eternità (Fl. 3.10). Con quale efficacia questo addolcisce l'amarezza insita nella croce? Quanto più siamo afflitti e sopportiamo le sofferenze, con tanto maggior certezza la nostra comunione con Cristo riceve conferma; e quando abbiamo questa comunione con lui, le avversità non solo sono per noi benedette, ma ci sono di aiuto per far progredire di molto la nostra salvezza.

2. Il Signor Gesù non ha avuto bisogno di portare la croce e soffrire tribolazioni, se non per attestare e provare la sua obbedienza verso Dio suo padre; a noi invece è necessario, per parecchie ragioni, essere del continuo afflitti in questa vita.

Anzitutto, essendo per natura troppo inclini ad esaltarci e ad attribuirci ogni cosa, se la nostra debolezza non ci è messa sotto gli occhi noi subito valutiamo oltre misura la nostra forza, e non esitiamo a crederla invincibile contro tutte le difficoltà che potremmo incontrare. Ne deriva che ci innalziamo in una vana e folle fiducia della carne, la quale poi ci incita ad inorgoglirci contro Dio, come se la nostra capacità ci fosse sufficiente senza la sua grazia. Non può fiaccare in modo migliore questo orgoglio se non mostrandoci, con l'esperienza, quanta debolezza e quanta fragilità sono in noi. Ecco perché ci affligge, con umiliazione o povertà, con malattia, con perdita di parenti o con altre calamità alle quali, per quanto ci concerne, soccombiamo istantaneamente perché non abbiamo in noi la forza di sopportarle. Umiliati, impariamo allora ad implorare la sua potenza che sola ci permette di resistere e star saldi sotto il peso di quei fardelli.

Anche i più santi, pur sapendo che la loro stabilità è fondata sulla grazia di Dio e non sulle loro forze, sarebbero ancora eccessivamente consci della propria capacità e costanza se il Signore non li conducesse ad una più autentica conoscenza di se, mettendoli alla prova per mezzo della croce. Davide stesso fu vittima di una tal presunzione, e reso come insensato, secondo quanto egli stesso confessa: "Ho detto nella mia sicurezza: Non sarò mai scosso. O Dio, tu avevi reso forte il mio monte, perché così ti piaceva; tu hai nascosto il tuo volto, e sono stato spaventato " (Sl. 30.7e ). Egli riconosce che la prosperità ha inebetito e abbrutito tutti i suoi sensi al punto che, senza curarsi della grazia di Dio da cui doveva dipendere, ha voluto confidare in se stesso, e ha osato promettersi stabilità. Se ciò è accaduto ad un così grande profeta, chi di noi non temerà e non starà in guardia? Finché ogni cosa va per il suo verso si ingannano considerandosi capaci di grande forza e costanza, dopo essere stati colpiti dalla prova si rendono conto di quanto fosse ipocrita il loro atteggiamento.

In questo modo dunque i credenti devono essere consapevoli delle proprie debolezze, al fine di fortificarsi nell'umiltà e di spogliarsi da ogni perversa fiducia della carne, per sottoporsi completamente alla grazia di Dio. Allora sentono che la sua potenza è presente ed in questa trovano sufficiente garanzia di sicurezza.

3. È quanto insegna san Paolo dicendo che dalla tribolazione nasce la pazienza, e dalla pazienza l'esperienza (Ro 5.3). Avendo il Signore promesso a coloro che credono in lui di assisterli nelle tribolazioni, sentono che ciò si avvera quando rimangono saldi nella pazienza, sostenuti dalla sua mano; non lo potevano fare con le loro forze. La pazienza reca dunque ai santi l'esperienza del fatto che Dio dà veramente il soccorso che ha promesso, quando è necessario. La loro speranza è in tal modo confermata, poiché sarebbe somma ingratitudine il non credere per l'avvenire nella veracità di Dio, già sperimentata come sicura ed immutabile.

Vediamo dunque quale serie ininterrotta di vantaggi derivano dalla croce. Rovesciando la falsa opinione che la nostra natura alimenta riguardo alla sua potenza, e scoprendo la nostra ipocrisia che ci seduce ed inganna con le sue lusinghe, essa fiacca la pericolosa presunzione della nostra carne. Avendoci umiliati, ci insegna così a riposare in Dio, nostro fondamento, che non ci lascia soccombere né perdere coraggio. Da questa vittoria scaturisce la speranza in quanto il Signore, compiendo quel che ha promesso, garantisce per l'avvenire la sua verità.

Quand'anche si limitasse a questo, è chiaro quanto la prova della croce ci è necessaria. Non è vantaggio trascurabile che sia eliminato l'amore di noi stessi, che ci acceca, sì che prendiamo veramente coscienza della nostra debolezza; che ne abbiamo coscienza per imparare a diffidare di noi stessi; che diffidiamo di noi stessi, onde trasferiamo la nostra fiducia in Dio; che ci appoggiamo su Dio con sicura fiducia di cuore onde, per mezzo del suo aiuto, perseveriamo vittoriosi fino alla fine; che dimoriamo con fermezza nella sua grazia, affinché sappiamo che egli e verace e fedele nelle sue promesse; che ci diventi chiara la certezza delle sue promesse, affinché la nostra speranza ne riceva conferma.

4. Il Signore ha un altro motivo per affliggere i suoi servitori: mettere alla prova la loro pazienza ed educarli all'obbedienza; non che possano avere altra obbedienza all'infuori di quella che ha dato loro; ma gli piace indicare così e attestare i doni che ha messo in coloro che credono in lui, affinché questi doni non rimangano oziosi e nascosti nei credenti. Quando dunque evidenzia la forza e la costanza di soffrire che ha dato ai suoi servi, è detto che mette alla prova la loro pazienza. Di qui il modo di dire: egli ha messo alla prova Abramo ed ha conosciuto la sua pietà, per il fatto che questi non ha rifiutato di immolare il suo figlio per compiacergli (Ge 22.1.12). Anche san Pietro dice che la nostra fede è provata dalla tribolazione, come l'oro è vagliato nella fornace (1 Pi. 1.7). Chi negherà che un dono così eccellente, fatto dal Signore ai suoi servi, debba essere messo in uso per esser reso noto e manifesto? Altrimenti non lo si valuterebbe mai come gli si addice. Se il Signore ha un giusto motivo per dar corpo alle forze che ha posto nei suoi credenti, e le mette in luce onde non rimangano nascoste e non siano inutili, non senza ragione manda le afflizioni, senza le quali la loro pazienza sarebbe nulla. Dico pure che con questo mezzo li istruisce all'obbedienza, poiché così imparano a vivere non secondo il loro desiderio ma secondo quanto piace a Dio. Se ogni cosa accadesse loro come la chiedono, non saprebbero che cosa significhi seguire Dio.

Seneca, filosofo pagano, dice che secondo un antico proverbio quando si voleva esortare qualcuno a sopportare pazientemente le avversità, ci si serviva dell'espressione: bisogna seguire Dio. Intendevano dire che l'uomo si sottomette al giogo del Signore allorché si lascia castigare, e presta volontariamente la mano e la schiena alle sue punizioni. Se è ragionevole che prestiamo in tutti i modi obbedienza al Padre celeste, non dobbiamo rifiutare che ci educhi, in ogni maniera, all'obbedienza.

5. Non avremmo ancora inteso quanto l'obbedienza ci è necessaria, se non avessimo coscienza di quanto la nostra carne sia pronta a respingere il giogo del Signore, non appena essa è trattata con un po' di delicatezza. Ci accade come ai cavalli ribelli che, dopo esser stati qualche tempo nella stalla oziosi e ben pasciuti, non si lasciano poi domare, e non riconoscono il loro padrone dal quale prima si lasciavano condurre. In breve, quel che è accaduto al popolo di Israele e di cui il Signore si lamenta, si riscontra di solito in tutti gli uomini: ingrassati con un troppo dolce nutrimento, essi si ribellano a colui che li ha nutriti (De 32.15). Era opportuno, certo, che la benevolenza di Dio ci conducesse a valutare e amare la sua bontà, dato però che la nostra ingratitudine è tale che la dolcezza e un trattamento generoso rischiano di corromperci anziché incitarci al bene, è più che necessario che ci tenga in pugno e ci sottometta ad una certa disciplina per evitarci di finire in una simile petulanza.

Affinché non insuperbiamo per troppo grande abbondanza di beni, gli onori non ci inorgogliscano, i doni che abbiamo, sia fisici sia spirituali, non generino orgoglio ed eccessi in noi, il Signore ci previene e mette ordine, frenando e domando Cl. rimedio della croce l'insolenza della nostra carne, in modi diversi, secondo quanto ritiene giovevole e salutare per ciascuno. Non siamo, né gli uni né gli altri, malati nella stessa misura né di una medesima malattia: non è dunque necessario che la cura sia identica per tutti. Questa è la ragione per cui esercita gli uni con un tipo di croce, gli altri con un altro. Pur volendo provvedere alla salute di tutti, usa nei riguardi degli uni, una medicina più dolce, una più aspra e rigorosa verso gli altri, senza però lasciarne privo neanche uno, sapendo che tutti sono malati.

6. È anche necessario che il nostro buon Padre non solo prevenga la nostra infermità per il futuro, ma altrettanto spesso corregga i nostri errori passati per mantenerci obbedienti a lui. Di conseguenza, appena abbiamo qualche afflizione, ci dobbiamo ricordare della nostra vita passata. Così facendo, scopriremo senz'altro di aver commesso qualche errore degno di un tal castigo, anche se non dobbiamo attingere dalla coscienza del nostro peccato l'argomento principale per esortarci alla pazienza; la Scrittura ci dà in mano una ben migliore considerazione dicendo che il Signore ci corregge per mezzo delle avversità, per non condannarci con questo mondo (1 Co. 11.32).

Dobbiamo dunque riconoscere la clemenza e la benignità del nostro Padre in mezzo all'amarezza più grande insita nelle tribolazioni, poiché neanche così cessa di far progredire la nostra salvezza. Ci affligge, non per perderci o rovinarci, ma per liberarci dalla condanna di questo mondo. Un tal pensiero ci condurrà a quel che la Scrittura ci insegna altrove, quando dice: "Figlio mio, non respingere la correzione del Signore e non offenderti quando egli ti riprende, poiché Dio corregge coloro che ama, e li circonda di affetto come suoi figli " (Pr 3.2). Quando udiamo dire che le sue correzioni sono come il bastone paterno, non è forse nostro dovere diventare figli docili piuttosto che, con la nostra resistenza, seguire la gente senza speranza, indurita nei suoi misfatti? Il Signore ci perderebbe se non ci attirasse a se mediante correzioni, quando abbiamo sbagliato. Come ben dice l'Apostolo: "Siamo figli bastardi, non legittimi, se egli non ci tiene sotto la sua disciplina " (Eb. 12.8). Siamo dunque troppo perversi se non lo sappiamo sopportare, quando ci dichiara la sua benevolenza e la cura che ha della nostra salvezza.

La Scrittura nota questa differenza fra increduli e credenti: i primi, alla maniera dei servi antichi, di natura perversa, non fanno che peggiorare e indurirsi sotto la frusta; i secondi traggono giovamento, si pentono e si correggono, come figli ben disposti. Scegliamo dunque dalla parte di chi vogliamo stare. Questo argomento essendo stato trattato altrove, Ci basti averlo menzionato qui.

7. La consolazione maggiore consiste nel sopportare la persecuzione a motivo di giustizia. Ci dobbiamo allora ricordare quale onore ci è fatto dal Signore, nell'affidarci le insegne del suo esercito.

Definisco persecuzione per la giustizia non solo il soffrire per la difesa dell'Evangelo, ma altresì di ogni giusta causa. Sia dunque che ci tocchi incorrere nell'odio e nell'indignazione del mondo per difendere la verità di Dio contro le menzogne di Satana, oppure per sostenere gli innocenti contro i malvagi e impedire che si faccia loro torto o ingiustizia, mettendo così in pericolo il nostro onore, i nostri beni o la nostra vita, non ci dispiaccia questo impegno totale al servizio di Dio, e non riteniamoci infelici, quando egli stesso ci dichiara beati (Mt. 5.10). È pur vero che la povertà, considerata in se stessa, è miseria; così pure l'esilio, il disprezzo, l'ignominia, la prigione; e infine la morte, che è l'estrema calamità. Ma laddove Dio è presente Cl. suo favore, nessuna di queste cose accade senza volgersi a nostro beneficio e a nostra felicità.

Accontentiamoci dunque della testimonianza di Cristo piuttosto che di una falsa opinione della nostra carne: così accadrà che sull'esempio degli apostoli, ci rallegreremo tutte le volte che egli ci riterrà degni di sopportare obbrobrio per il suo nome (At. 5.41). Se, innocenti e di buona coscienza, siamo spogliati dei nostri beni dalla cattiveria degli iniqui, siamo sì impoveriti di fronte agli uomini, ma in quel modo le vere ricchezze aumentano per noi presso Dio, in cielo. Se siamo cacciati e banditi dal nostro paese, siamo tanto più prontamente accolti nella famiglia del Signore. Se, vessati e molestati, facciamo ricorso alla fede nel nostro Signore, tanto più siamo confermati in essa. Se riceviamo obbrobrio e ignominia, tanto più siamo esaltati nel regno di Dio. Se siamo uccisi, ci si apre davanti la vita beata. Non sarebbe per noi gran vergogna stimare le cose a cui il Signore ha dato tanto prezzo meno delle delizie di questo mondo che svaniscono come fumo?

8. Confortandoci così la Scrittura in ogni ignominia e calamità che abbiamo da sopportare per la difesa della giustizia, siamo troppo ingrati se non le accettiamo pazientemente e con cuore allegro; tanto più che questo tipo di croce è proprio dei credenti, e per mezzo suo Cristo vuol essere glorificato in loro, come dice san Pietro (1 Pi. 4.12e ). Essendo per gente fiera e coraggiosa più difficile e penoso sopportare l'umiliazione della morte, san Paolo ci ricorda che, se speriamo in Dio, non solo saremo soggetti a persecuzioni, ma anche a vituperio (1 Ti. 4.10). Altrove ci esorta Cl. suo esempio a camminare nell'infamia come nell'apprezzamento (2 Co. 6.8).

Dio non ci richiede un'allegrezza tale da togliere ogni amarezza al dolore, altrimenti la sopportazione della croce da parte dei santi sarebbe nulla, se non fossero tormentati dal dolore, e non provassero angoscia quando si fa loro qualche torto. Similmente, se la povertà non fosse per loro dura e penosa, se non sopportassero qualche tormento nelle malattie, se l'ignominia non li pungesse, se non avessero in orrore la morte, quale forza o moderazione ci sarebbe nel disprezzare tutte queste cose? Ognuna di esse comporta un'amarezza che per natura punge i cuori di noi tutti, perciò la forza di un credente si dimostra nel fatto che, messo alla prova da questo dolore, pur soffrendo gravemente, tuttavia resiste, la sormonta e riesce a superarla. La sua sopportazione si palesa quando, stimolato da quello stesso sentimento, è tuttavia frenato dal timor di Dio come da una briglia, senza lasciarsi andare a qualche irritazione o altro eccesso. La sua gioia e allegrezza sono visibili quando, oppresso da tristezza e dolore, si sottomette tuttavia alla consolazione che proviene dallo Spirito di Dio.

9. La lotta, che con pazienza e moderazione i credenti sostengono contro il sentimento naturale del dolore, è molto ben descritta da san Paolo: "Noi sopportiamo tribolazione in ogni cosa, ma non siamo in distretta; sopportiamo la povertà, ma non siamo dimenticati; sopportiamo la persecuzione, ma non siamo abbandonati; siamo come abbattuti, ma non periamo " (2 Co. 4.8).

Portare pazientemente la croce non significa essere completamente insensibili e non provare alcun dolore; in passato i filosofi stoici pazzescamente definivano magnanimo un uomo che, essendosi spogliato della sua umanità, non era toccato né da avversità né da prosperità, né da cose tristi né da cose gaie, era insomma privo di reazioni, come una pietra. Che vantaggio hanno tratto da così alta saggezza? Hanno dipinto una immagine di sopportazione, mai vista fra gli uomini ed inesistente; anzi, volendo avere una pazienza troppo perfetta, ne hanno tolto l'uso fra gli uomini. Ci sono, ora, dei nuovi stoici anche fra i cristiani, i quali pensano che sia peccato non solo il gemere e il piangere, ma anche il contristarsi e l'essere tormentati. Queste opinioni paradossali procedono per lo più da gente oziosa che, esercitandosi a speculare piuttosto che a fare, non può che inventare simili fantasie.

Per parte nostra non sappiamo che fare di questa filosofia così ascetica e rigorosa, che il nostro Signor Gesù ha condannato non solo a parole, ma anche Cl. suo esempio. Poiché egli ha conosciuto gemito e pianto, sia per il suo dolore, sia perché ebbe pietà degli altri, e non ha insegnato ai suoi discepoli ad agire in modo diverso. "Il mondo "dice "si rallegrerà, e voi sarete presi da tristezza; riderà, e voi piangerete " (Gv. 16.20). E affinché non lo si considerasse peccato, dichiara felici coloro che piangono (Mt. 5.4). Questo non stupisce: se si dIs.pprovano tutte le lacrime, che diremo del Signore Gesù dal cui corpo caddero una dopo l'altra gocce di sangue? (Lu 22.44). Se si taccia di incredulità ogni spavento, che cosa penseremo dell'orrore da cui fu colto? Se ogni tristezza ci dispiace, come accetteremo che la sua anima sia triste fino alla morte, come dichiara egli stesso?

10. Ho voluto dire queste cose per allontanare dalla disperazione tutti i cuori pii, affinché non rinuncino all'esercizio della pazienza, anche se non sono adatto liberati dal sentimento naturale del dolore. Coloro i quali scambiano la pazienza con l'insensibilità, facendo di un uomo forte e costante un tronco di legno, perdono coraggio e si disperano non appena vogliono esercitarsi nella pazienza. La Scrittura, al contrario, definisce pazienti i santi quando, afflitti dalla durezza dei loro mali, non ne sono tuttavia colpiti al punto di venir meno; quando, punti dall'amarezza, provano contemporaneamente gioia spirituale; quando, incalzati dall'angoscia, non per questo cessano di respirare, rallegrandosi nella consolazione di Dio. Ma nei loro cuori avviene una lotta: il senso naturale fugge e ha in orrore tutto quel che gli è contrario; d'altra parte, il sentimento di pietà li conduce ad obbedire alla volontà di Dio anche attraverso queste difficoltà.

È la lotta a cui Gesù Cristo si riferisce parlando a san Pietro: "Quando eri giovane, ti cingevi da solo e camminavi dove ti pareva; quando sarai vecchio, un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorrai " (Gv. 21.18). Non è certo verosimile che san Pietro, dovendo glorificare Dio con la morte, sia stato trascinato a questo passo per costrizione e suo malgrado; altrimenti il suo martirio non avrebbe gran valore. Ma, per quanto ottemperasse all'ordine di Dio con cuore libero e allegro, per il fatto che non si era spogliato della sua umanità, era diviso in un duplice volere. Quando considerava la morte cruenta che doveva soffrire, spaventato dall'orrore, sarebbe volentieri fuggito. D'altra parte, quando considerava che vi era chiamato per ordine di Dio, vi si presentava volentieri ed anzi gioiosamente, vincendo ogni timore.

Se dunque vogliamo essere discepoli di Cristo, dobbiamo sforzarci a che i nostri cuori siano ripieni di un tal timore ed ubbidienza a Dio, da poter domare e soggiogare tutti i sentimenti contrari al suo volere. Ne deriverà che, in qualunque tribolazione ci troviamo, per quanto grande sia l'infelicità che il nostro cuore può provare, non cesseremo di avere costantemente pazienza. Le avversità ci intaccheranno sempre con la loro acredine: per questa ragione, afflitti dalla malattia, gemeremo e ci lamenteremo e desidereremo la salute; incalzati dalla povertà, saremo punti da perplessità e timore. E l'ignominia, il disprezzo ed ogni altra ingiuria ci strazieranno il cuore. Quando qualche nostro parente morirà, daremo alla natura le lacrime che le sono dovute. Ma verremo sempre alla conclusione: Dio l'ha voluto, seguiamo la sua volontà. Anzi bisogna che questo pensiero intervenga, fra le fitte del dolore, le lacrime ed i gemiti, per ricondurre il nostro cuore a sopportare gioiosamente le cose da cui è in tal modo contristato.

11. Avendo dedotto dalla considerazione della volontà di Dio la ragione principale del sopportare bene la croce, bisogna definire brevemente quale differenza corra fra la pazienza cristiana e la pazienza filosofica.

Pochi sono i filosofi saliti così in alto da capire che gli uomini sono messi alla prova dalla mano di Dio mediante afflizioni e che, di conseguenza, su questo punto dobbiamo ottemperare alla sua volontà. Ma anche quelli che sono arrivati a comprenderlo non sanno trovare altra ragione se non che questo è inevitabile. Ragionare così non significa forse sostenere che bisogna sottomettersi a Dio, perché invano ci si sforzerebbe di resistergli? Infatti, se obbediamo a Dio soltanto perché è inevitabile, non appena potremo fuggire, cesseremo di obbedirgli. La Scrittura vuole che sappiamo vedere altro nella volontà di Dio: anzitutto la sua giustizia ed equità, poi la cura che ha della nostra salvezza.

Le esortazioni cristiane sono dunque queste: se povertà, esilio, prigione, obbrobrio, malattia, perdita di parenti o altra avversità ci tormenta, dobbiamo pensare che nessuna di queste cose accade se non per volere e provvidenza del Signore; inoltre, che egli non fa nulla se non per una giustizia ordinata a buon fine. Che dunque? I peccati che quotidianamente commettiamo non meritano forse di essere puniti centomila volte più aspramente e con severità maggiore di quella di cui si vale? Non è forse giusto che la nostra carne sia domata, e come abituata al giogo, affinché non si perda in intemperanze come sarebbe portata per natura a fare? La giustizia e la verità di Dio non sono forse ben degne che soffriamo per loro? Se la giustizia di Dio appare con evidenza in tutte le nostre afflizioni, non possiamo mormorare né ribellarci senza commettere iniquità. Non intendiamo qui riferirci a quella fredda cantilena dei filosofi, secondo la quale ci si deve sottomettere in quanto è inevitabile; ma ci riferiamo ad un insegnamento vivo ed efficace secondo il quale bisogna ubbidire perché non è lecito resistere; bisogna aver pazienza perché l'impazienza è una rivolta contro la giustizia di Dio. Ma poiché nulla è per noi veramente piacevole all'infuori di ciò che sappiamo esserci buono e salutare, il padre di misericordia ci consola in quanto afferma che, affliggendoci con una croce, provvede alla nostra salvezza. Se le tribolazioni sono per noi salutari, perché non le riceveremmo con cuore tranquillo anziché ingrato? Poiché sopportandole con pazienza non soccombiamo alla necessità, ma assentiamo al nostro bene. Queste considerazioni, dico, faranno sì che quanto più il nostro cuore sarà oppresso dalla tristezza naturale della croce, tanto più sarà dilatato da gioia spirituale. Da ciò deriverà pure l'azione di grazia, che non può essere senza gioia. Se la lode del Signore e le azioni di grazia non possono uscire che da un cuore gioioso e allegro, e se nulla al mondo le deve impedire, è evidente quanto sia necessario che l'amarezza insita nella croce venga temperata da gioia spirituale.