Letteratura/Istituzione/3-07

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Indice generale

Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO 7

IL SOMMARIO DELLA VITA CRISTIANA: LA RINUNCIA A NOI STESSI

1. Veniamo ora al secondo punto. Benché la legge di Dio abbia un ottimo metodo ed un ben ordinato criterio per dar forma alla nostra vita, è tuttavia parso opportuno a questo buon maestro celeste formare i suoi ad una dottrina più eccellente della regola che aveva dato loro nella Legge.

L'inizio dunque del suo agire è questo: il compito dei credenti è di offrire i loro corpi a Dio in sacrificio vivente, santo ed accettevole, ed in ciò consiste il culto legittimo che dobbiamo rendergli (Ro 12.1). Ne deriva questa esortazione: i credenti non si adattino alla figura del mondo presente, ma siano trasformati da un rinnovamento della mente, per cercare e conoscere la volontà di Dio. È già una grande affermazione il dire che siamo consacrati e dedicati a Dio, per non più pensare, d'ora in poi, né parlare, né meditare, né agire se non alla sua gloria; poiché non è lecito servirsi di qualcosa di sacro per un uso profano.

Se non apparteniamo a noi stessi ma al Signore, se ne può dedurre quel che dobbiamo fare per non errare, e in che direzione dobbiamo rivolgere tutta la nostra vita. Non apparteniamo a noi stessi: la nostra ragione e la nostra volontà non dominino dunque nei nostri propositi ed in ciò che dobbiamo fare. Non apparteniamo a noi stessi: non perseguiamo dunque lo scopo di cercare quel che ci è giovevole secondo la carne. Non apparteniamo a noi stessi: dimentichiamo dunque noi stessi, per quanto possibile, e tutto ciò che è intorno a noi. Al contrario, apparteniamo al Signore: la sua volontà e la sua sapienza presiedano dunque a tutte le nostre azioni. Apparteniamo al Signore: tutte le componenti della nostra vita siano riferite a lui, come al loro unico fine. Quanto giovamento ha tratto l'uomo che, sapendo di non appartenere a se stesso, ha tolto la signoria e il governo di se alla sua ragione, per metterli nelle mani di Dio! Come il compiacere a se stessi è la peggior peste che gli uomini abbiano per perdersi e distruggersi, così il solo porto della salvezza consiste nel non aver saggezza di per se, nel non voler nulla da per se stessi, ma nel seguire soltanto il Signore.

Sia quello dunque il nostro primo passo per ritirarci da noi stessi, per applicare tutta la forza della nostra mente al servizio di Dio. Chiamo servizio non solo l'ubbidire alla sua Parola, ma l'atteggiamento per cui la mente dell'uomo, svuotata del suo proprio sentire, si converte interamente e si sottomette allo Spirito di Dio.

Questa trasformazione, che san Paolo definisce rinnovamento della mente (Ef. 4.23) è stata ignorata da tutti i filosofi, benché costituisca il primo passo per entrare nella vita. Essi infatti insegnano che la ragione sola deve reggere e moderare l'uomo, pensano che si debba ascoltare e seguire solo lei e le affidano il governo della vita. Al contrario, la filosofia cristiana vuole che la ragione ceda, che si ritiri per far posto allo Spirito Santo, per essere domata sotto la sua guida, affinché l'uomo non viva più per forza sua, ma abbia in se e porti il Cristo vivente e regnante.

2. Di qui deriva l'altro punto che abbiamo stabilito, cioè che non cerchiamo le cose che ci piacciono, ma quelle che piacciono a Dio e sono proprie ad esaltare la sua gloria. È gran virtù che, quasi dimentichi di noi stessi, o per lo meno non preoccupandoci di noi, ci sforziamo di applicare la nostra perseveranza e di consacrarla fedelmente a seguire Dio e i suoi comandamenti. Infatti, quando la Scrittura ci vieta di avere particolare riguardo a noi, non solo cancella dal nostro cuore l'avarizia, il desiderio di imporci, di giungere a grandi onori o affermazioni, ma vuole anche estirpare ogni ambizione, desiderio di gloria umana ed altre pesti nascoste. Bisogna, certo, che il cristiano pensi che ha a che fare con Dio in tutta la sua vita. Se questo pensiero lo pervade ed egli sa di dovergli render conto di tutte le sue opere, orienterà ogni sua intenzione verso di lui, e la terrà radicata in lui. Poiché dunque ha di mira Dio in tutto il suo operare, storna facilmente il suo spirito da ogni vano pensiero. È la rinuncia a noi stessi, che Cristo richiede con tanta cura da tutti i suoi discepoli, come loro primo apprendistato (Mt. 16.24) , e una volta che il cuore dell'uomo è occupato da Cristo, orgoglio, fierezza, ostentazione ne sono estirpati, poi anche avarizia, intemperanza, cose superflue e piacevolezze, con gli altri peccati che nascono dall'amore per sé.

Al contrario, ovunque egli non regna, o l'uomo si lascia andare senza pudore né vergogna ad ogni grossolanità oppure, quando vi sia qualche parvenza di virtù, è corrotta da una cattiva cupidigia di gloria. Mi si indichi un uomo che eserciti gratuitamente la benignità nei confronti dei suoi simili se non ha rinunciato a se stesso, secondo quest'ordine del Signore. Poiché coloro che non hanno avuto una tale disposizione d'animo seguendo la virtù, hanno per lo meno cercato la lode. Anche i filosofi (che hanno maggiormente lottato per dimostrare che la virtù è desiderabile in sé) , si sono talmente gonfiati di orgoglio e di presunzione, che si può vedere che non hanno desiderato la virtù se non per avere di che inorgoglirsi. Ora gli ambiziosi che cercano la gloria mondana, o le persone divorate interiormente dall'arroganza, sono lungi dal piacere a Dio, poiché egli afferma che i primi hanno ricevuto la loro ricompensa in questo mondo e che i secondi sono più lontani dal regno di Dio dei pubblicani e delle prostitute.

Non abbiamo ancora chiaramente esposto però quanti impedimenti trattengano l'uomo dal darsi al bene, se non ha rinunciato a se stesso. È stato infatti detto molto bene dagli antichi, che c'è un mondo di peccati nascosti nell'animo dell'uomo; e non vi troveremo altro rimedio, se non rinunciando a noi stessi e, senza aver riguardo a quel che ci piace, dirigendo e orientando la nostra mente alla ricerca delle cose che Dio ci chiede, cercandole per il solo fatto che gli sono gradite.

3. San Paolo, in un altro passo, elenca più distintamente, ancorché in breve, tutti i modi di regolare bene la nostra vita.

"La grazia di Dio "dice "è apparsa per la salvezza di tutti gli uomini, insegnandoci a respingere ogni empietà e cupidigia mondana, e così a vivere sobriamente, con giustizia e santità in questo mondo, aspettando la beata speranza e la manifestazione della gloria del gran Dio e nostro Salvatore Gesù Cristo, che si è dato per riscattarci da ogni iniquità e purificarci perché fossimo il popolo suo erede, dedito a buone opere " (Tt 2.11-14). Dopo aver proposto la grazia di Dio per infonderci coraggio, volendoci anche tracciare la strada perché camminiamo al servizio di Dio, toglie due ostacoli che ci potrebbero bloccare: l'empietà, cui siamo per natura troppo inclini, e le cupidigie mondane, che si estendono più lontano. Con il termine "empietà "indica non solo le superstizioni, ma comprende tutto ciò che è contrario al vero timor di Dio. Le cupidigie mondane equivalgono alle inclinazioni della carne. Perciò ci ordina di spogliare la nostra indole naturale quanto alle due parti della Legge, e di respingere lontano tutto quello che la nostra ragione e la nostra volontà ci propongono.

Per il resto, riconduce tutta la nostra azione a tre elementi: sobrietà, giustizia e pietà.

La prima, la sobrietà, significa certamente castità, padronanza di se, uso puro e moderato di tutti i beni di Dio, pazienza nella povertà.

La parola giustizia comprende la dirittura, in cui dobbiamo vivere la relazione con i nostri simili, per dare a ciascuno ciò che gli spetta.

La pietà, che egli pone al terzo posto, ci purifica da ogni impurità del mondo, per unirci a Dio in santità.

Quando queste tre virtù sono unite fra loro da un legame inscindibile, danno come risultato una perfezione completa. Poiché nulla è più difficile che far abdicare la nostra ragione, domare i nostri desideri, anzi rinunciarvi del tutto per dedicarci a Dio ed ai nostri fratelli e per meditare in questo fango terreno una vita angelica, san Paolo, per liberare le nostre anime da ogni vincolo, ci richiama alla speranza della beata immortalità, dicendo che non combattiamo invano in quanto Gesù Cristo, apparso una volta quale redentore, rivelerà nella sua venuta finale il frutto della salvezza che ci ha acquistata. In tal modo ci ritrae da tutti gli allettamenti, che di solito ci abbagliano, impedendoci di aspirare dovutamente alla gloria celeste, mentre ci avverte che siamo di passaggio in questo mondo, onde l'eredità celeste non sia vana per noi.

4. In queste parole vediamo che la rinuncia a noi stessi concerne in parte gli uomini e in parte Dio. Infatti quando la Scrittura ci ordina di comportarci verso gli uomini in modo tale da preferirli a noi in onore, e da cercare con perseveranza di far progredire quel che giova a loro (Ro 12.10; Fl. 2.3) essa dà dei comandamenti di cui il nostro cuore non è capace, se prima non è stato svuotato del suo modo di sentire naturale. Poiché siamo tutti così accecati e presi dal nostro amore per noi stessi, che non c'è nessuno il quale non ritenga di avere buone ragioni per innalzarsi al di sopra degli altri, e disprezzare tutti in confronto a sé.

Se Dio ci ha fatto qualche dono, degno di considerazione subito con quel pretesto il nostro cuore si innalza; non solo ci gonfiamo, ma quasi scoppiamo per l'orgoglio. I peccati di cui siamo pieni, li nascondiamo accuratamente agli sguardi degli altri e diamo da credere che sono piccoli e leggeri, o talvolta li stimiamo come se fossero delle virtù. Quanto ai doni che abbiamo ricevuto, li stimiamo a tal punto da considerarli con ammirazione. Se essi sono visibili negli altri, se anzi sono evidenti, per non essere costretti a riconoscerli li oscuriamo e disprezziamo il più possibile. Al contrario, non ci accontentiamo di osservare con severità qualunque peccato dei nostri simili, ma lo ampliamo in maniera odiosa.

Ne deriva quell'insolenza per cui ciascuno di noi, come se fosse esente dalla condizione comune, cerca preminenza su tutti gli altri e, senza eccettuarne uno, li disprezza tutti, ritenendoli inferiori a sé. I poveri cedono sì ai ricchi, i contadini ai nobili, i servi ai loro padroni, gli ignoranti ai dotti: ma nessuno rinuncia a fantasticare in cuor suo sulla sua presunta dignità di eccellere al di sopra di tutti gli altri. Così ognuno, adulandosi, alimenta, per quanto lo concerne, un regno nel suo cuore. Attribuendosi le cose di cui si compiace, censura gli spiriti ed i costumi degli altri. Ma se si viene a disputa, allora il veleno esce e diventa visibile. Ce ne sono sì parecchi che hanno qualche parvenza di mansuetudine e modestia, finché non vedono nulla che li disturbi: ma quanto poco numerosi sono coloro che conservano dolcezza e modestia, quando li si punge e li si irrita?

Né può accadere diversamente, a meno che quella peste mortale dell'amore e dell'esaltazione di se stessi non sia sradicata dal profondo del cuore, come ve la sradica la Scrittura. Se ascoltiamo il suo insegnamento, dobbiamo ricordare che tutti i doni che Dio ci ha fatto non sono beni che ci appartengono, ma doni gratuiti della sua generosità. Se qualcuno, dunque, se ne inorgoglisce, dimostra così la sua ingratitudine. "Chi è che ti magnifica? ", dice san Paolo. "E se hai ricevuto ogni cosa, perché te ne glorii, come se non ti fossero date? " (1 Co. 4.7). D'altra parte, riconoscendo con assiduità i nostri peccati, ci dobbiamo ridurre all'umiltà. Perciò non rimarrà nulla in noi di cui ci possiamo gonfiare; piuttosto avremo validi motivi per essere abbattuti.

Inoltre, ci viene ordinato di tenere in tale onore e rispetto i doni di Dio, che vediamo nei nostri simili, da onorare a motivo loro le persone in cui risiedono. Sarebbe eccessiva audacia e arroganza il voler spogliare un uomo dell'onore che Dio gli ha fatto.

Ci è anche richiesto di non sottolineare i loro peccati, ma di coprirli; non per mantenerli mediante l'adulazione, ma perché non rechiamo offesa a colui che ha commesso qualche errore, visto che dobbiamo avere per lui amore e onore. Di conseguenza qualunque sia la persona con la quale abbiamo a che fare, non solo ci comporteremo con modestia e moderazione, ma con dolcezza ed amicizia. Non raggiungeremo una autentica mansuetudine se non avendo un cuore disposto ad abbassarsi e ad onorare gli altri.

5. Quanto al compimento del proprio dovere in vista di procacciare il vantaggio del nostro prossimo, quante sono le difficoltà? Se non tralasciamo la considerazione di noi stessi e non ci spogliamo di ogni inclinazione che è secondo la carne, non faremo nulla in questo senso. Chi infatti adempirà ai compiti che san Paolo richiede siano compiuti con amore, se non ha rinunciato a se, al fine di darsi interamente al suo prossimo? "La carità "dice "è paziente e benevola; non offende, non è insolente; non ha orgoglio, non prova invidia, non ricerca quel che le conviene, ecc. " (1 Co. 13.4). Se anche ci fosse soltanto richiesto di non cercare il nostro vantaggio, dovremmo forzare parecchio la nostra natura, la quale ci spinge talmente all'amore di noi stessi da non tollerare facilmente che rimaniamo indifferenti a quel che è bene per noi, per vegliare su quel che giova agli altri, o piuttosto che abbandoniamo quel che ci spetta come diritto, per cederlo al nostro prossimo.

La Scrittura, per condurci a questo punto, ci indica che tutto quel che abbiamo ricevuto dalla grazia del Signore, ci è stato affidato alla condizione che lo diamo per il bene comune della Chiesa. L'uso legittimo di questa grazia consiste nel dare con amore e generosità ai nostri simili, e per rendere effettivo un tal dono non si poteva trovare regola migliore e più certa di quando è detto che tutto quel che abbiamo di buono ci è stato dato in custodia da Dio, a condizione che sia dispensato a vantaggio degli altri (1 Co. 12).

La Scrittura procede ancora, paragonando i doni che ognuno di noi riceve come proprietà a quel che ogni membro ha nel corpo umano. Nessun membro riceve per se le sue facoltà e non le applica a suo proprio uso, ma a vantaggio degli altri; non ne riceve alcuna utilità se non quella che deriva dal vantaggio diffuso in modo uniforme per tutto il corpo. Così il credente deve mettere tutte le sue facoltà a disposizione dei suoi fratelli, senza provvedere a se in particolare, ma tenendo sempre la sua intenzione rivolta alla comune utilità della Chiesa. Di conseguenza, applichiamo questa regola nel fare il bene e nell'esercitare la bontà: siamo dispensatori di tutto quel che il Signore ci ha dato, per poter aiutare il nostro prossimo, dovendo un giorno render conto di come avremo eseguito il nostro compito. Inoltre, non c'è altro modo di dispensare bene e rettamente quanto ci viene affidato, se non quello che si attiene alla regola della carità. Ne deriverà che non solo uniremo la cura di giovare al nostro prossimo alla sollecitudine con cui cercheremo il nostro vantaggio, ma assoggetteremo il nostro interesse a quello degli altri.

Di fatto il Signore, per indicarci che quello è il modo di amministrare bene e con rettitudine quel che ci dà, l'ha raccomandato fin dai tempi antichi al popolo di Israele, di fronte ai più piccoli benefici che gli concedeva. Ha ordinato che i primi frutti del nuovo raccolto gli venissero offerti (Es. 22.29; 23.19) affinché il popolo attestasse in tal modo che non gli era lecito percepire alcun frutto dai beni, senza averli consacrati al Signore. Se i doni di Dio sono per noi santificati dopo che glieli abbiamo consacrati con la nostra mano, è chiaro che non v'è che abuso condannabile quando questa consacrazione non ha luogo. D'altra parte, sarebbe follia il cercar di arricchire Dio comunicandogli delle cose che abbiamo in mano. Poiché la nostra beneficenza non può dunque arrivare fino a lui, come dice il Profeta, la dobbiamo esercitare verso i suoi servitori, che si trovano nel mondo (Sl. 16.3). Pertanto le elemosine sono paragonate a oblazioni sante, per indicare che sono esercizi che corrispondono, ora, all'osservanza antica che vigeva sotto la Legge, osservanza di cui ho parlato poc'anzi (Eb. 13.16; 1/ Corinzi 9.5).

6. Inoltre, affinché non ci stanchiamo di fare il bene (cosa che altrimenti avverrebbe ad ogni istante) , ci dobbiamo ricordare di quanto aggiunge l'Apostolo: che la carità è paziente e non si irrita facilmente (1 Co. 13.4). Il Signore ordina, senza eccezione, di fare il bene a tutti, ma la maggior parte delle persone ne e indegna, se le valutiamo secondo i loro meriti. La Scrittura ci previene, ammonendoci che non dobbiamo considerare quel che gli uomini meritano di per se, ma piuttosto che dobbiamo prendere in considerazione l'immagine di Dio in tutti e ad essa dobbiamo ogni onore e amore. In particolare la dobbiamo riconoscere nella famiglia dei credenti (Ga 6.10) , in quanto essa e in loro rinnovata e restaurata dallo Spirito di Cristo.

Perciò a chiunque si presenti a noi, avendo bisogno del nostro aiuto, non avremo motivo di rifiutare il nostro impegno. Se lo consideriamo estraneo, il Signore gli ha impresso un segno che ci dev'essere familiare. Per questa ragione ci esorta a non disprezzare la nostra carne (Is. 58.7). Se adduciamo che è persona disprezzabile e di nessun valore, il Signore risponde dimostrandoci di averlo onorato Cl. far risplendere in lui la sua immagine. Se diciamo di non esser in nulla tenuti ad impegnarci nei suoi confronti, il Signore ci dice che lo sostituisce a se stesso, affinché riconosciamo verso costui i benefici che egli ci ha accordati. Se diciamo che non è degno che muoviamo un passo per lui, l'immagine di Dio, che dobbiamo contemplare in lui, è ben degna che ci esponiamo per lei con tutto ciò che è nostro. Quand'anche si trattasse di un uomo, che non solo non ha meritato nulla da noi, ma che anzi ci ha ingiuriati e oltraggiati molto, non sarebbe motivo sufficiente per smettere di amarlo, di fargli piacere e di rendergli servizio. Poiché se diciamo che ha meritato soltanto male da noi, Dio ci potrà chiedere quale male egli, dal quale riceviamo tutto il bene che abbiamo, ci ha fatto. Quando ci ordina di perdonare agli uomini le offese che ci hanno fatte (Lu 17.3) , egli le riceve su di sé.

Non c'è altra via per giungere a quel che non solo è difficile per la natura umana, ma le è assolutamente estraneo, anzi contrario, che cioè amiamo quelli che ci odiano, che rendiamo bene per male, che preghiamo per coloro che sparlano di noi (Mt. 5.44). Giungeremo, ripeto, a questo punto, se ci ricorderemo che non ci dobbiamo fermare alla cattiveria degli uomini, ma piuttosto contemplare in loro l'immagine di Dio, che per la sua eccellenza e dignità ci può e deve spingere ad amarli, e a cancellare tutti i peccati che ci potrebbero distogliere da ciò.

7. Questa mortificazione si compirà dunque in noi quando avremo un amore compiuto. Esso non consiste nell'adempiere tutti i compiti inerenti alla carità, ma nel compierli con un vero sentimento di amore.

Potrà accadere che uno faccia al suo prossimo tutto quel che gli deve, per quanto concerne il dovere esteriore, senza per questo aver compiuto il suo dovere come gli si addice. Molti di quelli che vogliono esser considerati generosi non danno nulla senza farlo sentire, o con un viso altero o con parole superbe. Attualmente siamo giunti al punto, che la maggior parte della gente non fa alcuna elemosina se non con disprezzo; perversità, questa, che non doveva essere tollerabile neanche fra i pagani.

Il Signore chiede ai cristiani più che un viso gioioso e allegro, affinché rendano piacevole per bontà e dolcezza la loro beneficenza. Anzitutto, bisogna che assumano in loro la persona di colui che necessita di soccorso, che abbiano pietà della sua sorte come se fossero loro a sentirla e a sopportarla, e che siano spinti ad aiutarlo dallo stesso sentimento di misericordia che avrebbero per se stessi. Colui che avrà un tal modo di sentire, nel far piacere ai suoi fratelli non solo non contaminerà la sua beneficenza con arroganza o rimproveri, né disprezzerà, a causa della sua indigenza, colui al quale fa del bene, né lo vorrà soggiogare come se questi gli fosse obbligato; non più di quanto non insultiamo una delle nostre membra, quando tutto il resto del corpo lavora per rinvigorirla, e non pensiamo che sia particolarmente obbligata alle altre membra, per aver chiesto loro più cure di quante ne abbia avute per loro. Che le membra comunichino reciprocamente non pare gratuito, ma piuttosto un pagare e un soddisfare quel che è dovuto per legge di natura; né si potrebbe rifiutare senza considerare motivo di orrore un tal rifiuto.

Così, contrariamente al parere comune, non ci parrà di essere scaricati e di aver compiuto quel che dobbiamo quando, su qualche punto, avremo fatto il nostro dovere. Quando infatti un uomo ricco ha dato qualcosa di suo, tralascia tutti gli altri oneri e se ne esenta, come se non lo concernessero affatto. Al contrario, ognuno riterrà di essere debitore verso i suoi simili di tutto quel che ha e di tutto ciò che può, senza in altro modo limitare l'obbligo di far loro del bene, se non quando gliene manca là possibilità, la quale finché si può estendere deve uniformarsi all'amore.

8. Riferiamoci ancora all'altra parte della rinuncia a noi stessi, quella che concerne Dio. Ne abbiamo già parlato qua e là e sarebbe superfluo ripetere tutto quel che è stato detto. Basterà indicare come essa ci deve disporre alla mansuetudine.

In primo luogo, dunque, nel presentarci il modo di vivere in riposo e serenità, la Scrittura ci conduce sempre ad abbandonarci a Dio con tutto ciò che ci appartiene, a sottomettergli gli affetti del nostro cuore per domarlo o soggiogarlo.

La nostra è una intemperanza furiosa e una cupidigia sfrenata nel desiderare stima e onori, nel cercare potenza, nell'accumulare ricchezza, nel raccogliere tutto quel che ci pare proprio a conferire pompa e magnificenza. D'altra parte temiamo e odiamo stranamente la povertà, la piccolezza e l'ignominia, evitandole di conseguenza con tutti i mezzi. Perciò vediamo l'inquietudine di spirito in cui si dibattono tutti coloro che orientano la loro vita secondo il loro desiderio, quanti mezzi tentano, in quanti modi si tormentano per giungere là dove la loro ambizione e avarizia li trasporta e per evitare la povertà o una bassa condizione.

Ecco perché i credenti, per non lasciarsi avvolgere in tali reti, dovranno seguire quest'altra via. Anzitutto, non devono desiderare o sperare o immaginare altro mezzo per raggiungere la prosperità all'infuori della benedizione di Dio, su cui devono poggiare con sicurezza riposandovisi. Quantunque sembri che da per noi stessi siamo capaci di raggiungere il nostro scopo quando aspiriamo ad onori e ricchezze con la nostra abilità, con i nostri sforzi o perché aiutati dal favore degli uomini, è certo tuttavia che tutte queste cose non sono nulla, e che non potremo mai trarne alcun vantaggio né con la nostra abilità né con il nostro lavoro, se non nella misura in cui il Signore farà trarre vantaggio all'uno e all'altro. Al contrario, la sua sola benedizione si farà strada in mezzo a tutti gli impedimenti, per darci un buon risultato in ogni cosa.

Infine, quand'anche potessimo senza di lei acquistare qualche onore o ricchezza (poiché ogni giorno vediamo i malvagi giungere a grandi ricchezze e a buone posizioni) tuttavia poiché là dove regna la maledizione di Dio non è possibile godere di un sol briciolo di felicità se la sua benedizione non è su noi, non otterremo nulla che non si volga a nostra infelicità. Sarebbe grande follia il desiderare quello che non ci può che rendere infelici.

9. Se dunque crediamo che ogni mezzo di prosperare riposa nella sola benedizione di Dio, e che senza di lei ogni miseria e calamita ci attendono, è nostro compito non aspirare con troppa cupidigia a ricchezze e onori, confidando nella nostra abilità o diligenza, nel favore degli uomini o della fortuna, ma guardare sempre a Dio affinché, guidati da lui, siamo condotti alla condizione che gli parrà buona. Accadrà che non ci sforzeremo di attirare a noi le ricchezze, di rubare gli onori con mezzi leciti o illeciti, con violenza o astuzia, o con altri mezzi obliqui; ma cercheremo soltanto i beni che non ci distoglieranno dall'innocenza. Chi infatti spererà che la benedizione di Dio lo debba aiutare nel commettere frodi e rapine ed altre cattiverie? Essa non viene in aiuto se non a coloro che sono retti nei loro pensieri nelle loro opere: l'uomo che la desidera deve pertanto allontanarsi da ogni iniquità e cattivo pensiero.

Inoltre essa sarà come una briglia che ci frena, affinché non bruciamo di una disordinata cupidigia di arricchirci, e non cerchiamo ambiziosamente di elevarci. Che impudenza, pensare che Dio ci deve aiutare ad ottenere le cose che desideriamo contro la sua Parola! Mai aiuterà con la sua benedizione quel che maledice con la bocca!

Infine, quando le cose non accadranno secondo la nostra speranza ed il nostro augurio, la considerazione che sarebbe un mormorare contro Dio, per volontà del quale sono dispensati povertà e ricchezza, disprezzo e onori, ci impedirà di lasciarci andare all'impazienza, detestando la nostra condizione. Insomma, chiunque si affiderà alla benedizione di Dio (come è stato detto) , non aspirerà con mezzi malvagi e obliqui ad alcuna delle cose che gli uomini cercano con rabbiosa cupidigia, visto che egli saprà che questo mezzo non gli gioverebbe affatto. Se gli viene incontro qualche prosperità, non l'imputerà né alla sua diligenza né alla sua abilità né alla fortuna, ma riconoscerà che proviene da Dio. D'altra parte se non riesce a progredire molto, mentre gli altri si innalzano secondo il loro desiderio, o se gli accade di andare indietro, non smetterà di sopportare la sua povertà con pazienza e moderazione più di quanto un non credente si adatterebbe a ricchezze mediocri, inferiori al suo desiderio. Proverà un sollievo in cui potrà acquietarsi meglio che in tutte le ricchezze del mondo quand'anche le avesse radunate a sua disposizione: penserà cioè che tutte le cose sono stabilite da Dio così come giova alla sua salvezza. Vediamo che Davide ha avuto questa disposizione d'animo e, seguendo Dio e lasciandosi governare da lui, afferma di esser simile ad un fanciullo da poco svezzato, che non cammina in cose alte che sopraffanno la sua natura (Sl. 131.1).

10. I credenti non devono applicare tale pazienza e moderazione a questo punto soltanto, ma la devono estendere a tutti gli eventi ai quali la vita presente è sottomessa. Pertanto nessuno ha dovutamente rinunciato a se stesso, se non si è a tal punto abbandonato a Dio, da accettare volontariamente che tutta la vediamo considerando a quanti inconvenienti siamo soggetti. Mille malattie ci molestano assiduamente le une dopo le altre: la peste, la guerra, il gelo o la grandine che ci portano sterilità e ci minacciano di povertà; la morte ci fa perdere mogli, bambini ed altri parenti, e il fuoco può appiccarsi alla nostra casa. Queste cose fanno sì che gli uomini maledicano la loro vita, detestino il giorno della loro nascita, esecrino il cielo e la luce, accusino ingiustamente Dio; e poiché sono loquaci nel bestemmiare, lo accusano di ingiustizia e crudeltà.

Al contrario, il credente deve contemplare perfino in quelle cose la clemenza di Dio e la sua paterna benignità. Desolato dalla morte di tutti i suoi cari, malgrado la sua casa sia deserta non smetterà di benedire Dio, anzi penserà che, poiché la grazia di Dio abita nella sua casa, essa non la lascerà desolata. Che i suoi campi e le sue vigne siano rovinati e distrutti dal gelo, dalla grandine o da altra tempesta e che per questo motivo preveda un pericolo di carestia, non si perderà ancora d'animo e non si dimostrerà scontento di Dio, ma piuttosto persisterà in una ferma fiducia, dicendo in cuor suo: "Siamo pur sempre sotto la tutela del Signore, siamo le pecore del suo pascolo " (Sl. 79.13); per quanto grande sia la sterilità, egli ci darà sempre di che vivere. Pur sopportando l'afflizione di una malattia, non sarà abbattuto dal dolore al punto di lasciarsi andare all'impazienza e lamentarsi di Dio; piuttosto, considerando la giustizia e la bontà del Padre celeste che lo castiga, si ridurrà in questo modo alla pazienza. In breve, qualunque cosa accada, sapendo che tutto procede dalla mano del Signore, riceverà ogni cosa con cuore tranquillo e non ingrato, senza resistere alla volontà di colui al quale si è una volta affidato.

Soprattutto, stia lontana da un cuore cristiano la misera e ridicola consolazione dei pagani, di imputare alla sorte le avversità, per sopportarle con maggior pazienza. I filosofi si valgono infatti dell'argomento che sarebbe follia corrucciarsi contro la sorte temeraria e cieca, che getta i suoi dardi al volo, per ferire i buoni e i malvagi senza discernimento. Al contrario, la regola della pietà e che la sola mano di Dio conduce e regge la buona e la cattiva sorte, non secondo un impeto sconsiderato, ma dispensando il bene e il male secondo una giustizia ben ordinata.