Letteratura/Istituzione/2-10

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Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO X

SIMILITUDINE DELL'ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO


1. È evidente, in base a queste premesse, che quanti Dio ha voluto includere nel suo popolo sin dalla fondazione del mondo, sono stati uniti a lui, legati dal vincolo di una dottrina identica a quella che vige tra noi. Aggiungerò ora, dopo aver fermamente stabilito tale principio, la considerazione complementare: i padri, pur essendo partecipi con noi della medesima eredità, e godendo della medesima speranza nella comune salvezza, grazie allo stesso Mediatore, ebbero però una condizione diversa dalla nostra in questa comunità.

Le testimonianze che abbiamo raccolte nella Legge e nei Profeti sono sufficienti a dimostrare che nel popolo di Dio non vi è mai stata regola di pietà e di religione diversa da quella da noi mantenuta; tuttavia i dottori antichi parlano della diversità tra l'Antico e il Nuovo Testamento in modo esplicito e radicale e questo potrebbe ingenerare perplessità in quanti non sono sufficientemente accorti. Mi è sembrato perciò opportuno affrontare questa materia in un capitolo a sé.

Inoltre, ciò che sarebbe stato utile semplicemente, diventa necessario a causa della petulanza di quel mostro di Serveto e di alcuni Anabattisti i quali considerano il popolo d'Israele come un branco di maiali: pensano infatti che il Signore non abbia voluto far altro che ingrassarli sulla terra come in una stalla senza speranza alcuna dell'immortalità celeste. Per mettere in guardia i credenti riguardo a questo errore pestilenziale e sgombrare la mente dei semplici dalle perplessità che nascono, quando odono parlare di diversità tra Antico e Nuovo Testamento, consideriamo brevemente i punti di somiglianza e le differenze tra l'alleanza stipulata dal Signore prima della venuta di Cristo con il popolo d'Israele e quella stipulata con noi, dopo la incarnazione.

2. L'una e l'altra possono essere risolte con una parola: la sostanza e la verità dell'alleanza stipulata con i padri antichi è talmente simile alla nostra da poter essere considerata una stessa cosa. Differisce solamente nella forma della dispensazione.

Ma da questo assunto nessuno potrebbe trarre una comprensione sicura: occorre dunque trattarne più a lungo se l'esposizione vuol riuscire utile. Trattando della somiglianza o meglio dell'unità sarà superfluo riparlare diffusamente delle parti già esaminate, né sarà opportuno mescolarvi le conclusioni da trarsi in altra sede. Ci limiteremo dunque a tre punti.

In primo luogo il Signore non ha proposto agli Ebrei, quale meta cui tendere, una felicità o un benessere terreni, ma li ha adottati nella speranza dell'immortalità rivelando loro e attestando questa adozione mediante visioni e con la sua Legge ed i Profeti.

In secondo luogo l'alleanza che li ha uniti a Dio non è stata fondata sui loro meriti, ma sulla sola misericordia di Dio.

In terzo luogo hanno avuto e conosciuto Cristo quale mediatore che li univa a Dio e li faceva partecipi alle sue promesse.

Parleremo a suo tempo del secondo punto che non è stato ancora sufficientemente chiarito. Per mezzo di molte testimonianze sicure dei profeti dimostreremo che tutto il bene che il Signore ha fatto o promesso al suo popolo proveniva dalla sola bontà e clemenza sua. Il terzo punto è già stato chiarito in molte occasioni, ed abbiamo anche accennato di sfuggita al primo.

3. Esso si riferisce però direttamente al problema che stiamo esaminando e suscita, d'altra parte, numerose polemiche e controversie; sarà quindi necessario considerarlo con la massima attenzione. Dobbiamo tuttavia soffermarci a parlarne in modo da risolvere, brevemente, al momento opportuno gli aspetti che ancora mancano ad una esposizione corretta degli altri due punti.

L'Apostolo elimina ogni dubbio relativo ai tre interrogativi suddetti quando afferma che il Signore aveva promesso l'Evangelo di Gesù Cristo già da molto tempo, attraverso i suoi profeti, nelle sue sante Scritture, e lo ha poi manifestato nel tempo predeterminato (Ro 1.2) , e che la giustizia per fede, insegnata nell'Evangelo, era stata affermata nella Legge e nei Profeti (Ro 3.21).

Indubbiamente, l'Evangelo non lega il cuore degli uomini ad un'amore della vita presente ma li innalza alla speranza dell'immortalità, non li vincola alle delizie terrene ma, annunciando la speranza loro preparata nel cielo, li trasporta in alto. In questa direzione ci conduce l'affermazione che troviamo altrove: "Dopo che avete creduto all'Evangelo "egli dice "siete stati segnati dallo Spirito Santo, che è arra della nostra eredità, ecc. " (Ef. 1.13); e: "Abbiamo udito della vostra fede in Cristo e della vostra carità verso i credenti, a causa della speranza che avete nel cielo, che vi è stata annunciata dall'insegnamento dell'Evangelo " (Cl. 1.4-5); e: "Il Signore mediante il suo Evangelo ci ha chiamati a partecipare alla gloria del nostro Signore Gesù Cristo " (2 Ts. 2.14). Per questo motivo è chiamato "dottrina di salvezza ", "potenza di Dio per salvare tutti i credenti "e "regno dei cieli ". Se la dottrina dell'Evangelo è spirituale e ci dà accesso alla vita incorruttibile, non pensiamo che coloro ai quali l'Evangelo è stato promesso e predicato si siano occupati, come bestie, a cercare il proprio piacere carnale senza preoccuparsi della propria anima.

Né qualcuno a questo punto obbietti che le promesse dell'Evangelo date anticamente da Dio mediante i profeti sono state destinate al popolo del Nuovo Testamento. Perché l'Apostolo, poco prima di questa affermazione, secondo cui l'Evangelo è stato promesso nella Legge, aggiunge ugualmente che quanto la Legge contiene si rivolge particolarmente a quanti sono sotto la Legge (Ro 3.19). Ammetto che lo dice in un altro contesto; ma dicendo che l'insegnamento della Legge appartiene ai Giudei, non poteva aver dimenticato l'affermazione precedente relativa all'Evangelo promesso nella Legge.

In questo passo dimostra dunque chiaramente che l'antico patto mirava essenzialmente alla vita futura, dato che includeva le promesse dell'Evangelo.

4. Ne consegue inoltre che esso era fondato sulla misericordia gratuita di Dio e trovava la propria garanzia in Gesù Cristo. La predicazione evangelica non proclama altro: i poveri peccatori sono giustificati per la paterna clemenza di Dio, senza averlo meritato. E questa predicazione trova piena espressione in Gesù Cristo.

Chi dunque oserà privare di Cristo gli Ebrei, con i quali è stata stipulata l'alleanza dell'Evangelo, il cui unico fondamento è Cristo? Chi oserà estraniarli dalla speranza di salvezza gratuita, dato che la dottrina di fede, che procura giustizia gratuita, è stata loro comunicata?

Per non continuare a discutere di una questione così chiara, ci basti la fondamentale affermazione del Signore Gesù: "Abramo è stato animato da un grande desiderio di vedere il mio giorno; l'ha visto e se n'è rallegrato " (Gv. 8.56). L'Apostolo mostra che l'affermazione relativa ad Abramo si riferisce genericamente a tutto il popolo fedele: "Cristo è stato ieri e oggi e sarà eternamente " (Eb. 13.8). Non parla solo della divinità eterna di Cristo, ma della conoscenza della sua potenza che e stata 1n ogni tempo comunicata ai credenti.

Per questo motivo la vergine Maria e Zaccaria nei loro cantici definiscono la salvezza rivelata in Cristo un adempimento delle promesse fatte da Dio ad Abramo ed ai Patriarchi (Lu 1.54.72). Se Dio, manifestando il suo Cristo, ha adempiuto la sua promessa antica, non si può non dire che il fine dell'antico patto non sia stato Cristo e la vita eterna.

5. L'Apostolo non considera solo il popolo d'Israele simile ed eguale a noi nella grazia del Patto ma altresì nel significato dei sacramenti. Volendo ammonire i Corinzi di non cadere nelle stesse colpe, per cui Dio aveva punito gli Ebrei, ricorre a questa argomentazione: non abbiamo alcuna prerogativa o dignità particolare che ci sottragga alla vendetta divina che è caduta su di loro (1 Co. 10.1-6.2). Così dunque non solo il Signore ha esercitato la stessa benevolenza verso di loro, come verso di noi, ma ha anche raffigurato in mezzo a loro la sua grazia mediante gli stessi segni e sacramenti.

Come se dicesse: Vi sembra di essere fuori pericolo perché il battesimo da cui siete stati segnati e la Cena del Signore contengono delle promesse speciali; e intanto sprezzate la bontà di Dio e vivete in modo dissoluto. Ma dovete ricordare che gli Ebrei non erano privi degli stessi sacramenti eppure il Signore non ha mancato di esercitare verso loro la severità del suo giudizio. Sono stati battezzati nel passaggio del Mar Rosso e nella nuvola che li proteggeva dall'ardore del sole.

Chi respinge questo insegnamento afferma che si trattava di un battesimo carnale corrispondente in qualche misura al nostro spirituale. Ma se accettiamo questa interpretazione, l'argomentazione dell'Apostolo non può procedere: egli ha voluto togliere ai Corinzi la fiducia infondata basata sulla convinzione di essere migliori degli Ebrei a causa del battesimo. E anche il seguito immediato non può essere discusso: essi hanno mangiato la medesima carne spirituale e bevuto la stessa bevanda spirituale che sono date anche a noi, cioè Gesù Cristo.

6. Per contestare l'autorità di san Paolo, citano la dichiarazione di Cristo: "I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti. Chiunque mangerà la mia carne non morrà mai in eterno " (Gv. 6.49-50). La contraddizione non sussiste. Il Signore Gesù, sapendo di rivolgersi a uditori che cercavano solamente di pascere il proprio ventre senza preoccuparsi affatto del vero cibo delle anime, adatta in parte il suo discorso alle loro capacità e ricorre a questo paragone della manna con il suo corpo. Essi pretendevano che, per avere autorità, egli confermasse la sua divinità con qualche miracolo, come Mosè aveva fatto nel deserto facendo piovere dal cielo la manna. Ora nella manna vedevano unicamente un mezzo per saziare la fame corporale che tormentava il popolo nel deserto. Non salivano abbastanza in alto per considerare il mistero cui fa allusione san Paolo. Allora Cristo, per indicare che dovevano aspettarsi da lui un beneficio maggiore e più eccellente di quello che i loro padri avevano ricevuto da Mosè, pone questo paragone: Se considerate miracolo eccezionale il fatto che il Signore abbia mandato al popolo il cibo celeste per mano di Mosè, onde non perisse ma fosse sostentato, riconoscete quanto più prezioso è il cibo che reca immortalità.

Perché il Signore menziona solo l'aspetto secondario della manna e tace l'essenziale? Perché gli Ebrei gli additavano, a guisa di rimprovero, Mosè, che aveva soccorso il popolo d'Israele nelle difficoltà, nutrendolo in modo miracoloso con la manna. Risponde di essere dispensatore di una grazia assai più preziosa, al cui paragone rimaneva sminuito quanto Mosè aveva fatto per il popolo, anche se ne avevano un concetto così alto.

San Paolo considera questo argomento con molta attenzione, nella convinzione che, quando ha fatto cadere la manna del cielo, il Signore non intendeva solo mandare al suo popolo del cibo materiale ma anche comunicare un mistero spirituale, simboleggiante la vita eterna che doveva attendersi da Cristo.

Possiamo dunque concludere senza incertezze che le stesse promesse di vita eterna, che vengono oggi presentate a noi, sono state comunicate agli Ebrei e anzi sono state loro suggellate e confermate da sacramenti veramente spirituali. Questa materia è ampiamente trattata da sant'Agostino nel contro Fausto Manicheo.

7. Se tuttavia i lettori preferiscono un elenco delle testimonianze della Legge e dei Profeti da cui risulti evidente che l'alleanza spirituale posseduta da noi oggi, è stata comune ai padri secondo le dichiarazioni di Cristo e degli Apostoli, cercherò di soddisfarli, tanto più volentieri nella speranza di convincere gli oppositori i quali non potranno in seguito trovare scappatoie.

Incomincerò con una osservazione che gli Anabattisti considerano debole e quasi ridicola, ma che ha una grande importanza per tutte le persone di retto giudizio. Considero dunque indiscutibile il fatto che la Parola di Dio abbia una tale forza da essere sufficiente a vivificare le anime di tutti quelli che la ricevono. È sempre stata vera l'asserzione di san Pietro, secondo cui essa è una semenza incorruttibile che permane in eterno (1 Pi. 1.23); egli lo conferma anche citando le parole di Isaia (Is. 40.6). Dato che Dio, nel passato, ha legato a se gli Ebrei con questo legame sacro ed indissolubile, non v'è dubbio che li abbia messi da parte, per condurli a sperare nella vita eterna. Dicendo che hanno ricevuto ed accolto la Parola per essere uniti più intimamente a Dio, non intendo riferirmi a quella comunione generale che comprende cielo, terra ed ogni creatura. Sebbene Dio vivifichi tutte le cose con la sua ispirazione, ciascuna secondo le proprietà della sua natura, non le libera tuttavia dalla necessità della corruzione. Ma l'ispirazione di cui parlo è particolare e illumina, nella conoscenza di Dio, le anime dei credenti e le congiunge in una certa misura a lui.

Come dunque Abramo, Isacco, Noè, Abele, Adamo e gli altri Patriarchi sono stati in comunione con Dio grazie a questa illuminazione della sua parola, così non v'è dubbio che essa abbia costituito per loro l'entrata nel regno eterno di Dio essendo una reale partecipazione a Dio, che non poteva esistere senza la grazia della vita eterna.

8. Se questo sembra ancora un po' oscuro, esaminiamo i termini stessi del Patto: questo soddisferà gli spiriti tranquilli e convincerà di errore gli oppositori ignoranti.

Il Signore ha sempre espresso il patto con i suoi servitori in questi termini: "Sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo " (Le 26.12). Anche i profeti solevano affermare che in queste parole era compresa la vita la salvezza e la sostanza della felicità. Non senza ragione infatti Davide dichiara beato il popolo che ha il Signore per suo Dio (Sl. 144.15) e felici coloro che sono eletti quale sua eredità (Sl. 33.12). Questo non si riferisce alla felicità terrena ma al riscatto dalla morte; egli riscatta dalla morte, conserva in perpetuo e mantiene nella sua misericordia quanti ha ricevuto nel sodalizio del suo popolo. Così dicono gli altri profeti: "Tu sei il nostro Dio; non moriremo affatto ", (Abacuc 1.12) : "Il Signore è il nostro re e il nostro legislatore, egli ci salverà " (Is. 33.22) : "Beato Israele perché hai la tua salvezza in Dio " (De 33.29).

Non dilunghiamoci troppo in problemi superflui ma accontentiamoci dell'asserzione che ricorre spesso nella Scrittura: non ci manca abbondanza di ogni bene e di salvezza quando il Signore è nostro Dio. E questo a buon diritto: se la sua rivelazione costituisce una sicura garanzia di salvezza, come potrebbe rivelarsi all'uomo quale Dio, senza anche aprirgli i tesori della salvezza? Dio è nostro a condizione di abitare in mezzo a noi, come egli dichiara per bocca di Mosè (Le 26.12); e questo non si può attuare senza il possesso della vita. Quand'anche questo fatto non fosse stato espresso esplicitamente, vi erano evidenti promesse di vita spirituale in queste parole: "Sono il vostro Dio " (Es. 6.7). Non dichiarava solo di essere Dio dei loro corpi, ma anche soprattutto, delle loro anime. Ora le anime, quando non siano unite a Dio nella giustizia, gli sono estranee e rimangono nella morte; quando d'altra parte gli siano congiunte, ne ricevono vita perenne.

9. C'è di più: non solo si dichiarava loro Dio ma prometteva di rimanerlo per sempre onde la loro speranza non si limitasse alle cose presenti ma si protendesse verso l'eternità. Che l'allusione al tempo futuro avesse questo intento risulta da molte dichiarazioni dei credenti che si consolano nella certezza che Dio non li abbandonerà.

Vi era inoltre il secondo elemento del patto che li confermava maggiormente in questa fiducia: la dichiarazione che la benedizione di Dio sarebbe prolungata oltre i limiti della loro vita terrena. Era detto: "Io sarò l'Iddio della tua discendenza dopo di te " (Ge 17.7). Se il Signore intendeva manifestare la propria benevolenza verso di loro beneficando i loro successori, a maggior ragione il suo favore si doveva manifestare su loro stessi. Dio infatti non è simile agli uomini, che trasferiscono l'amore portato ai defunti sui loro figli, non avendo la possibilità di manifestare il loro affetto ai morti. La sua liberalità non è arrestata dalla morte, non priva del frutto della sua misericordia coloro che hanno fatto sì che egli estendesse la sua misericordia a mille generazioni (Es. 20, Q. Ha voluto mostrare in questo modo la ricchezza infinita della sua bontà che i suoi servitori avrebbero esperimentato anche dopo la morte, perché essa si riverserebbe su tutta la famiglia anche dopo il loro decesso. E il Signore ha suggellato la verità di questa promessa e ce ne ha mostrato l'adempimento, in certo qual modo, definendosi l'Iddio di Abramo, di Is.cco e di Giacobbe molto tempo dopo la loro morte (Es. 3.6). Questa definizione non sarebbe stata ridicola se essi fossero periti? Sarebbe equivalso a dire: Io sono Iddio di quelli che non ci sono!

Inoltre gli evangelisti raccontano che i Sadducei furono confutati da Cristo con questo solo argomento e non poterono negare che Mosè in questo passo volesse parlare della resurrezione dei morti (Mt. 22.32; Lu 20.37). Avevano inoltre imparato da Mosè che tutti i santi sono nella mano di Dio (De 33.3); era loro facile concluderne che non sono estinti dalla morte, dato che colui che ha in suo potere la vita e la morte li ha ricevuti sotto la sua sicura protezione.

10. Veniamo ora al punto principale di questa controversia: se i credenti dell'antico Patto abbiano ricevuto da Dio una illuminazione tale da sapere che una vita migliore li aspettava fuori dalla terra, potendo così concentrarvi il pensiero e tenendo in non cale questa vita corruttibile.

Il modo di vivere loro assegnato anzitutto: una istruzione perenne per ammonirli che sarebbero stati i più miserabili di tutti gli uomini qualora si fossero limitati a cercare la loro felicità su questa terra.

Adamo, già infelice per il ricordo della sua beatitudine perduta, incontra grande difficoltà nel procurarsi il suo misero cibo lavorando con tutte le sue forze (Ge 3.17). E non è solo oppresso da questa maledizione di Dio: riceve una delusione immensa proprio nel campo dove avrebbe dovuto ricevere consolazione; dei due figli che ha, uno è malvagiamente ucciso dalla mano dell'altro (Ge 4.8). Gli rimane Caino, del quale ha giustamente orrore. Abele crudelmente ucciso nel fiore dell'età, è per noi simbolo della sventura umana.

Noè logora gran parte della propria vita a costruire l'arca in mezzo a grandi ostacoli e difficoltà (Ge 6.22) , mentre tutti se la godono in mezzo ai piaceri e alle delizie. E anche quando è salvato dalla morte, questo avviene sotto forma di una calamità peggiore che se fosse morto cento volte: non solo l'arca è per lui come un sepolcro per dieci mesi e vi è forse cosa peggiore che essere tenuto così a lungo immerso nel fetore e nello sterco degli animali, in un luogo senza aria? Dopo essere sfuggito a tante difficoltà, trova motivo di nuova tristezza: si vede deriso dal proprio figlio ed è costretto a maledire con la propria bocca colui che Dio aveva risparmiato dal diluvio per essergli di consolazione (Ge 9.20-25).

11. Abramo da solo vale come un milione di esempi. Consideriamo la sua fede, che ci è proposta come esempio eccellente tanto che dobbiamo essere considerati suoi discendenti per essere figli di Dio (Ge 12.3). Nulla ripugnerebbe alla ragione più che l'escludere dal numero dei credenti colui che è il padre di tutti i credenti, senza lasciargli neanche un angolino tra di noi. Né si può respingerlo o destituirlo dalla situazione sì onorevole in cui Dio l'ha posto, senza che tutta la Chiesa sia annientata.

Per quanto riguarda la sua situazione: non appena è chiamato da Dio viene tratto fuori dal suo paese, perde i suoi parenti ed amici, è privato delle cose più desiderabili di questo mondo, come se Dio, con deliberato proposito, avesse voluto spogliarlo di ogni gioia terrena. Non appena entra nella terra che gli era stato ingiunto di abitare, ne è cacciato dalla carestia. Per trovar tranquillità si ritira in un paese dove è costretto ad abbandonare la propria moglie per salvar la vita, e questo lo addolorava più di molte morti (Ge 12.11-15). Ritorna alla sua terra di provenienza e ne è di nuovo cacciata dalla carestia. Quale gioia poteva esserci nell'abitare una terra in cui spesso soffriva le privazioni ed addirittura la fame, al punto di doverne fuggire? È: costretto di nuovo alla necessità di abbandonare sua moglie nel paese di Abimelec.

Dopo aver vagato qua e là nell'incertezza per parecchi anni, è costretto dalle liti dei servitori a mandare fuori di casa suo nipote che gli era come un figlio. Senza dubbio questa separazione è stata per lui come se gli si strappasse una delle sue membra. Poco dopo apprende che i nemici lo hanno fatto prigioniero. Dovunque vada trova nei vicini crudele barbarie e gli viene impedito di bere ai pozzi che ha scavato se non ne riscatta l'uso. Giunto alla vecchiaia si vede privato di figli, la cosa più dura a quell'età. Infine genera Ismaele, oltre le proprie speranze. Anche questa nascita però gli costa ben cara perché sua moglie Sara lo rimprovera di essere causa delle difficoltà familiari dando motivo di orgoglio alla serva.

Nei suoi ultimi giorni gli è dato Isacco, ma con il risultato che il figlio precedente viene cacciato come un povero cane abbandonato nella foresta. Dopo che gli è rimasto il solo Isacco, ultimo sostegno della sua vecchiaia, gli è ordinato di ucciderlo. Si potrebbe immaginare situazione più infelice: un padre boia del proprio figlio? Se fosse morto di malattia, tutti avrebbero stimato infelice quel povero vecchio cui era stato dato il figlio solo per un breve tempo, come per scherzo, quasi per raddoppiargli il dolore che provava vedendosi privato di discendenza. Se fosse stato ucciso da un nemico, la calamità sarebbe stata considerata maggiore. Ma supera ogni sventura il pensarlo assassinato dalla mano di suo padre!

Insomma durante tutta la sua vita è stato tormentato ed afflitto e se qualcuno volesse rappresentare un tipo di vita miserabile, non troverebbe esempio più adatto. Si obbietterà che non è stato del tutto infelice essendo sfuggito a tanti pericoli e avendo sormontato tante tempeste, rispondo che non possiamo definire felice una vita che giunge alla vecchiaia attraverso infinite difficoltà, ma quella dell'uomo che vive tranquillamente e nel benessere.

12. Veniamo ad Isacco che non ha sopportato altrettante calamità ma ha potuto a malapena provare il gusto di qualche piacere o di qualche rilassamento: d'altra parte ha esperimentato gli sconvolgimenti che non permettono all'uomo di essere felice sulla terra. La carestia lo caccia dalla terra di Canaan, come suo padre. Sua moglie gli è strappata dalle braccia. I vicini lo molestano e lo tormentano dovunque vada, in molte maniere, tanto che deve combattere per avere l'acqua. La donne di suo figlio Esaù gli causano molte noie in casa (Ge 26.35). È afflitto dalle discordie tra suoi figli e non può porvi rimedio che cacciando quello che aveva benedetto (Ge 28.5).

Quanto a Giacobbe, è come il modello delle più grandi disgrazie che possano accadere. Mentre è a casa, durante tutta la sua infanzia, è tormentato dall'inquietudine per le minacce di suo fratello, alle quali infine è costretto a cedere fuggendo lontano dai genitori e dalla patria. Oltre all'angoscia causata dall'esilio, è trattato duramente da suo zio Labano. Non solo patisce per sei anni in servitù dura e inumana, ma alla fine è ingannato e gli si dà una donna diversa da quella che desiderava (Ge 29.20). Per averla deve di nuovo farsi schiavo e di giorno è bruciato dal calore del sole, di notte gelato e infreddolito sopportando pioggia, vento e tempesta, senza dormire né riposarsi, come lui stesso lamenta. E dopo vent'anni in questa miserevole situazione, ancora è afflitto giornalmente dagli insulti del suocero. Neanche in casa propria è tranquillo a causa degli odii, delle dispute e delle invidie delle sue donne.

Quando Dio gli ordina di tornare al suo paese, deve fuggire in modo vergognoso. E non può sfuggire alla malvagità di suo suocero che lo perseguita e lo insegue per via (Ge 31.23). E sebbene Dio non permetta che gli succeda di peggio, pure deve ricevere molte umiliazioni da parte di quell'uomo che gli aveva già create tante difficoltà.

Subito dopo si trova in una situazione ancor più disperata: andando incontro al proprio fratello ha la prospettiva di un eccidio quale ci si può aspettare da un nemico crudele. Il suo cuore è orribilmente tormentato e dilaniato dall'angoscia mentre ne aspetta l'arrivo (Ge 32.2). Quando lo incontra si getta mezzo morto ai suoi piedi finché si accorge che questi è meglio intenzionato di quanto avesse sperato.

Entrando per la prima volta nel paese, sua moglie Rachele, che amava in modo del tutto particolare muore di parto (Ge 35.16). In seguito gli si comunica che il figlio avuto da lei, che amava più d'ogni altro, era stato sbranato dalle belve (Ge 37.32). Questa morte lo colpisce così crudelmente che piange amaramente, rifiutando ogni consolazione e vuole morire, non avendo altro desiderio che di seguire suo figlio nella tomba. Inoltre quale tristezza, quale dolore, quale sventura lo colgono vedendo la propria figlia rapita e violentata? (Ge 34.2). E quando i suoi figli, per farne vendetta, saccheggiano una città e così non solo lo rendono inviso agli abitanti ma lo mettono in pericolo di morte?

Segue l'orribile crimine di Ruben (Ge 35.22) che doveva causargli terribile angoscia. Se una delle più grandi sofferenze che l'uomo possa avere è quella di veder la propria moglie subire violenza, cosa dobbiamo dire quando una tale malvagità è commessa dal proprio figlio? Poco dopo la famiglia è ancora contaminata da un altro incesto (Ge 38.18) : queste vergogne erano tali da spezzare il cuore più saldo e paziente del mondo.

Nell'ultima vecchiaia, per sovvenire all'indigenza della propria famiglia, manda i figli a provvedersi di grano in un paese straniero (Ge 42.32). L'uno è messo in prigione, ed egli pensa sia in pericolo di morte. Per riscattarlo è costretto a mandare Beniamino, nel quale aveva posto tutto il suo affetto.

Come avere in mezzo a tale moltitudine di mali un minuto di tempo per respirare a proprio agio? Lo dichiara a Faraone, affermando che i giorni della sua vita sono stati brevi e penosi (Ge 47.9). Chi afferma di aver vissuto in continua miseria, non manifesta di aver sperimentato una prosperità quale Dio aveva promesso. Quindi o Giacobbe era ingrato verso Dio oppure aveva ragione di considerarsi sventurato. Se il suo dire era vero, ne consegue che non poneva la sua speranza nelle cose terrene.

13. Se tutti questi santi padri hanno atteso da Dio una vita felice, come è indubitabile, hanno certamente conosciuto ed atteso una felicità diversa da quella della vita terrena. L'Apostolo lo esprime molto bene: "Abramo ", egli dice "è dimorato per fede nella terra promessa, come in terra straniera, vivendo in capanne con Is.cco e Giacobbe che erano partecipi alla stessa eredità. Aspettavano una città ben fondata, il cui architetto è Dio stesso. Sono tutti morti in questa fede senza aver ricevuto le promesse ma guardandole da lontano e sapendo e riconoscendo di essere stranieri sulla terra. Con questo dimostrano di aver cercato un'altra patria. Se fossero stati mossi dal desiderio del paese naturale che avevano abbandonato, avrebbero potuto ritornarvi. Ma ne speravano uno migliore nei cieli. Per questo Dio non si vergogna di definirsi loro Dio, perché ha preparato loro una abitazione " (Eb. 11.9).

Si sarebbero dimostrati stupidi del tutto aspettando, con tanta perseveranza, l'adempimento di promesse cui non corrispondeva nessuna conferma terrena: se non ne avessero atteso l'adempimento da una fonte diversa. L'Apostolo, di conseguenza, insiste nel ricordare che si sono definiti pellegrini e stranieri in questo mondo, come anche Mosè aveva detto (Ge 47.9). Se sono stranieri in terra di Canaan, dov'è dunque la promessa di Dio che li costituisce eredi? Questo dimostra dunque che la promessa di Dio mirava più lontano della terra. Per questo motivo non hanno acquisito il possesso di un solo piede della terra di Canaan, se non per il solo loro sepolcro (At. 7.5). Con questo dimostravano che la loro speranza era di godere della promessa solo dopo la morte.

Per lo stesso motivo Giacobbe ha dato tanto peso al fatto di esservi seppellito ed ha fatto giurare al figlio Giuseppe di farvi portare il suo corpo (Ge 47.29-30). Allo stesso modo Giuseppe ordinava di portarvi le proprie ceneri, il che avveniva circa trecento anni dopo la sua morte (Ge 50.25).

14. Appare chiaro, insomma, che in tutta la loro esistenza hanno guardato a questa felicità della vita futura. A che scopo Giacobbe avrebbe ricercato la primogenitura attraverso tante difficoltà e tanti ostacoli, dato che essa non gli procurava alcun vantaggio e anzi lo cacciava dalla casa di suo padre? Egli aveva in mente una benedizione più alta. E manifesta apertamente di non aver avuto altro obbiettivo quando esclama, in un punto di morte: "Aspetterò la tua salvezza, Signore! " (Ge 49.18). Dato che sapeva di essere prossimo alla morte, quale salvezza avrebbe potuto sperare se non avesse visto nella morte l'inizio di una nuova vita?

E d'altra parte perché fermarsi ad esaminare l'atteggiamento dei figli di Dio, quando Balaam stesso, che si sforzava di combattere la verità, ha avuto la stessa convinzione e la stessa comprensione? Desiderando che la propria anima morisse della morte del giusto (Nu. 23.10) egli nutriva nel suo cuore un sentimento che Davide ha descritto in seguito: la morte dei santi è preziosa per il Signore e la morte degli iniqui è sgradita (Sl. 116.15; 34.22). Se la meta ultima degli uomini fosse la morte, in essa non si potrebbe notare alcuna differenza tra giusti e malvagi. Bisogna dunque distinguerli in base alla situazione che aspetta gli uni e gli altri nel tempo futuro.

15. Non abbiamo ancora parlato di Mosè, il quale avrebbe avuto, secondo i sognatori di cui stiamo parlando, unicamente il compito di condurre il popolo di Israele al timore ed alla venerazione di Dio con la promessa di fertili possedimenti e di abbondanza di cibo. Qualora però non si voglia spegnere la luce che ci si presenta in tutta evidenza, dobbiamo riconoscere che siamo in presenza, nel caso suo, di un patto spirituale.

Venendo ai profeti, troviamo una esplicita contemplazione della vita eterna e del regno di Cristo. Davide, in primo luogo, il quale si esprime, per il fatto di precedere gli altri, in modo più oscuro riguardo ai misteri celesti; ma riconduce tutto il suo insegnamento, con precisione e chiarezza, a questo punto. Risulta chiaro il suo pensiero riguardo alla vita celeste da una frase come questa: "Sono pellegrino e straniero, come tutti i miei padri; ogni uomo vivente è vanità; ciascuno svanisce come un'ombra. E qual è ora la mia attesa? Signore, la mia speranza si volge a te " (Sl. 39.6-8.13). Chi, dopo aver dichiarato di non aver nulla di fermo e stabile nel mondo, conserva tuttavia fermezza di speranza in Dio, evidentemente pone la propria beatitudine in qualcosa che sta al di fuori del mondo.

Per questo motivo egli suole richiamare i credenti a questa contemplazione ogniqualvolta vuole consolarli. In un altro passo, dopo aver ricordato quanto sia fragile e breve questa vita, aggiunge: "Ma la misericordia del Signore è perenne verso quelli che lo temono " (Sl. 103.17). Simile è l'affermazione di un altro passo: "Hai fondato la terra, Signore, i cieli sono opera delle tue mani. Essi periranno e tu rimani; invecchieranno come un vestito e tu li cambierai come una veste. Ma tu permani uguale e i tuoi anni non finiranno mai. I figli dei tuoi servitori avranno una dimora e la loro progenie sarà stabilita nel tuo cospetto " (Sl. 102.26-29). Se, nonostante l'annientamento del cielo e della terra, i credenti non cessano di permanere davanti a Dio, ne consegue che la loro salvezza è legata alla sua eternità.

E infatti questa speranza non può permanere se non è fondata sulla promessa esposta in Isaia: "I cieli, dice il Signore, svaniranno come un vapore, la terra si consumerà come un vestito e i suoi abitanti periranno; ma la mia salvezza rimane in eterno e la mia giustizia non verrà meno " (Is. 51.6). Qui il carattere duraturo è riferito alla salvezza e alla giustizia non in quanto risiedono in Dio ma in quanto egli le comunica agli uomini.

16. Non si possono intendere altrimenti gli accenni fatti qua e là alla beatitudine dei credenti se non riconducendoli alla manifestazione della gloria celeste. È: detto infatti: "Il Signore protegge le anime dei santi: le libererà dalla mano del peccatore. La luce si leva per il giusto e la gioia per quelli che sono retti di cuore " (Sl. 97.10-11) : "La giustizia dei buoni rimane in eterno, la loro forza sarà esaltata in gloria. I desideri dei peccatori periranno ", (Sl. 112.9-10) : "I giusti loderanno il tuo nome, gli innocenti abiteranno con te " (Sl. 140.14) : "Il giusto sarà ricordato in perpetuo " (Sl. 112.6) : "Il Signore riscatterà le anime dei suoi servi " (Sl. 34.23).

Il Signore non permette solo che i suoi servi siano tormentati dagli iniqui, ma li lascia spesso disperdere e distruggere. La scia i buoni languire nelle tenebre e nella sventura mentre gli iniqui risplendono come le stelle del cielo; e non mostra a lungo la luce del suo volto ai credenti talché ne possano ampiamente godere. Ecco perché lo stesso Davide non si nasconde che se volgiamo gli occhi alla situazione presente del mondo, saremo fortemente tentati di credere che non esista premio all'innocenza: infatti quasi sempre l'empietà prospera e fiorisce, mentre i buoni sono oppressi dall'ignominia, dalla povertà, dal disprezzo e da altre calamità!: "È: mancato poco "egli dice "che il mio piede scivolasse, che io inciampassi, vedendo il successo degli stolti e la prosperità dei malvagi ", e poi conclude: "Cercavo di comprendere queste cose ma nel mio spirito vi era perplessità, fino a che sono entrato nel santuario del Signore e ho visto la loro fine " (Sl. 73.2-3.17).

17. Da questa sola dichiarazione di Davide si può dedurre che i santi padri dell'antico Patto non hanno ignorato quanto raramente Dio realizzi in questo mondo le promesse fatte ai suoi servitori, o non le realizzi affatto; e per questo motivo hanno innalzato il loro cuore al santuario di Dio dove trovavano nascosto quanto non appariva evidente in questa vita corruttibile. Questo "santuario "era il giudizio ultimo, che aspettiamo, ed essi erano lieti di conoscerlo per fede, anche se non erano in grado di percepirlo con gli occhi. Animati da questa fiducia, qualunque cosa avvenisse nel mondo, non avevano alcun dubbio che sarebbe venuto il giorno in cui le promesse di Dio si sarebbero adempiute. Queste dichiarazioni lo dimostrano: "Contemplerò il tuo volto nella giustizia, sarò saziato dal tuo sembiante " (Sl. 17.15) : "Sarò come un olivo verde nella casa del Signore " (Sl. 52.10) : "Il giusto fiorirà come la palma, verdeggerà come il cedro del Libano. Quelli che saranno piantati nella casa del Signore, fioriranno nelle sue porte; porteranno frutto, verdeggeranno nella vecchiaia e saranno pieni di vigore " (Sl. 92.13-15)

Poco prima aveva detto: "O Signore, come sono profondi i tuoi pensieri! Quando gli iniqui fioriscono, germogliano come l'erba per poi perire per sempre " (Sl. 92.6-8). Dove si trova questa bellezza e questo vigore dei credenti se non quando la manifestazione del regno di Dio avrà sostituito questo mondo fugace? Quando contemplavano l'eternità, e tenendo in poco conto l'amarezza delle calamità presenti, che vedevano essere transitorie, traevano ardire da queste parole: "Tu non permetterai o Signore che il giusto perisca per sempre; ma sprofonderai l'iniquo nel pozzo della rovina " (Sl. 55.23-24). Dov'è pero in questo mondo il pozzo della rovina per inghiottire gli iniqui? In un altro passo è detto che essi muoiono di colpo, senza languire a lungo (Gb. 21.23). Dov'è la fermezza dei santi, che Davide stesso lamenta essere scossi e completamente abbattuti? Egli aveva dunque dinanzi agli occhi non la situazione di incertezza di questo mondo, che è come un mare agitato da molte tempeste: ma il frutto dell'opera del Signore, quando seduto in giudizio stabilirà l'ordine permanente del cielo e della terra. È detto molto bene in un altro passo: "Gli stolti si fidano della propria abbondanza e si inorgogliscono delle proprie ricchezze; e tuttavia nessuno, per grande che sia, potrà liberare dalla morte il proprio fratello né pagare a Dio il prezzo della propria redenzione " (Sl. 49.7-8). Sebbene vedano i saggi e gli stolti morire e lasciare ad altri le proprie ricchezze, immaginano di avere qui la propria dimora perpetua e cercano di acquistare fama e considerazione sulla terra. Ma l'uomo non sarà onorato, rassomiglierà piuttosto agli animali che periscono.

Questo loro pensiero è una grande follia: eppure molti lo condividono. Saranno raccolti nell'inferno come un gregge di pecore e la morte dominerà su loro. All'alba i giusti avranno il dominio su loro, la loro gloria sarà distrutta, il sepolcro sarà la loro abitazione.

Deridendo gli stolti perché si compiacciono e si confidano nei beni del mondo, che sono transitori, Davide dimostra che i saggi devono cercare una beatitudine ben diversa. Ancor più chiaramente esprime il mistero della resurrezione quando stabilisce il regno dei credenti, predicendo la rovina e la desolazione degli iniqui. L'alba del giorno, di cui parla, vuol indicare appunto una rivelazione della nuova vita, dopo la fine di quella presente.

18. I credenti di quel tempo erano soliti consolarsi e incoraggiarsi alla pazienza con il pensiero che l'ira di Dio non dura che un minuto mentre la sua misericordia dura per tutta la vita (Sl. 30.6). Quando mai vedevano sparire le proprie afflizioni in un minuto se invece erano afflitti per tutta la vita? Dove constatavano una tale durata della bontà di Dio, quando a malapena potevano assaggiarla? Sulla terra certamente non potevano trovare tutto questo, ma quando innalzavano i propri occhi al cielo si rendevano conto che le tribolazioni sopportate dai santi non sono che un soffio di vento mentre le grazie che riceveranno sono eterne. D'altra parte potevano prevedere che la rovina degli iniqui non avrebbe fine.

Donde, se non da questa coscienza, traggono origine queste affermazioni ripetute: "La memoria del giusto sarà in benedizione, la memoria degli iniqui perirà ", (Pr 10.7) : "La morte dei santi e preziosa agli occhi dell'Eterno, la morte del peccatore gli è in abominio " (Sl. 116.15; 34.22) : "Il Signore proteggerà i passi dei santi; gli iniqui saranno precipitati nelle tenebre " (1 Re 2.9). Tutte queste parole dimostrano che i padri dell'antico Patto hanno saputo chiaramente che, per quanto numerosi siano i mali che i credenti debbono sopportare in questo mondo, raggiungeranno tuttavia alla fine vita e salvezza; e d'altra parte la felicità degli iniqui è una via bella è piacevole che conduce alla rovina. Per questo motivo definiscono la morte degli increduli: rovina degli incirconcisi (Ez. 28.10.31) volendo intendere che erano privati della speranza della risurrezione.

Di conseguenza la peggior maledizione che Davide ha potuto concepire contro i suoi nemici è stato di pregare che fossero cancellati dal libro della vita e non fossero iscritti come giusti (Sl. 69.29).

19. Fra tutte emerge questa dichiarazione di Giobbe: "Io so che il mio redentore vive, che nell'ultimo giorno risusciterò dalla terra e lo vedrò con il mio corpo. Questa speranza è nascosta nel mio cuore " (Gb. 19.25-27).

Coloro, che intendono mostrare il proprio acume, argomentano che queste espressioni non si debbono intendere riferite all'ultima risurrezione ma ad un tempo in cui il Signore sarebbe stato più favorevole e più premuroso secondo quanto Giobbe sperava. Quand'anche si accettasse tale interpretazione, almeno parzialmente, rimane tuttavia il fatto che, lo si voglia o no, Giobbe non sarebbe giunto a sì alta speranza se fosse stato unicamente fondato su realtà terrestri. Dobbiamo dunque riconoscere che egli alzava gli occhi all'immortalità futura, dato che si sentiva come nella tomba e attendeva il suo redentore. La morte infatti costituisce l'estrema disperazione per quanti pensano solo alla vita presente; e tuttavia essa non può sottrargli la sua speranza. "Anche se mi uccidesse "egli diceva "non cesserei di sperare in lui " (Gb. 13.15).

Se qualche ostinato sostiene che pochi sono in grado di condividere queste dichiarazioni, e di conseguenza non se ne può dedurre che siano state generalmente accettate da tutti gli Ebrei, risponderò subito che questo piccolo gruppo non ha voluto esporre con queste parole una qualche sapienza occulta, tale da essere compresa sola dagli spiriti raffinati; chi ha così parlato era stato costituito dottore del popolo dallo Spirito Santo. Di conseguenza, secondo le proprie funzioni, ha pubblicamente esposto la dottrina che doveva essere accettata da tutto il popolo.

Quando dunque ascoltiamo parole così evidenti dello Spirito Santo, con cui esso ha anticamente testimoniato presso i Giudei della vita spirituale e ne ha dato una speranza indubitabile, sarebbe assurdo voler concedere a questo popolo esclusivamente un'alleanza carnale, concernente solamente la terra e la felicità terrena.

20. Passando ai profeti che sono venuti dopo, troverò materia ancor più ampia ed esplicita per ribadire la mia tesi. Se la dimostrazione non è stata difficile con Davide, Giobbe e Samuele, essa sarà ancora più facile ora. Il Signore stesso ha voluto seguire questo ordine, dispensando l'alleanza della sua misericordia, ed ha voluto aumentare la chiarezza della sua dottrina man mano che il giorno della piena rivelazione si avvicinava. Per questo motivo quando al principio la prima promessa fu data ad Adamo, furono accese solo delle piccole scintille. Poi poco per volta la luce è cresciuta ed aumenta di giorno in giorno fino a quando il Signore Gesù Cristo, che è il sole di giustizia che dissolve le nubi, ha illuminato perfettamente il mondo. Se vogliamo valerci delle testimonianze dei profeti per confermare la nostra dottrina, non dobbiamo temere che ci manchino!

Questa materia è così ampia che dovremmo soffermarci più di quanto possiamo fare in questa sede, ci sarebbe di che riempire un grosso volume; penso inoltre di aver condotto tutti i lettori di media comprensione all'intelligenza del problema in modo che siano in grado di comprenderlo da soli. Eviterò dunque di mostrarmi prolisso, dato che non è il caso.

Invito però i lettori ad adoperare la chiave interpretativa che ho loro fornito, per trovare la soluzione del problema: ogniqualvolta i profeti menzionano la beatitudine dei credenti, di cui appare a malapena un barlume in questo mondo, occorre rifarsi a questa distinzione: i profeti, per meglio illustrare la bontà di Dio, l'hanno rappresentata mediante l'immagine dei suoi doni terreni; con questa immagine però hanno voluto innalzare i cuori al di sopra della terra, al di sopra degli elementi di questo mondo e di questo secolo corruttibile, per indurli a meditare la felicità della vita spirituale.

21. Ci limiteremo ad un esempio. Il popolo d'Israele, deportato a Babilonia, considerava il proprio esilio e la propria desolazione simili ad una morte e non poteva credere che tutte le profezie di Ez.chiele, relative alla restaurazione, non fossero altro che favole e menzogne. Il Signore, per provare che questa situazione non avrebbe impedito la realizzazione in loro della sua grazia, mostra in visione al profeta un campo pieno di ossa alle quali rende lo spirito e la vita in modo istantaneo, con la sola forza della sua parola (Ez. 37.4). Questa visione aveva bensì lo scopo di correggere l'incredulità del popolo, ma contemporaneamente essa mirava a renderlo attento al fatto che la potenza di Dio è tale da agire oltre la semplice restaurazione promessa; egli infatti, con una sola parola, poteva dare facilmente la vita ad ossami dispersi.

Dobbiamo accostare questo pensiero ad un'altro simile contenuto in Isaia, laddove è detto che i morti vivranno e risusciteranno con i loro corpi. Poi è rivolta questa esortazione: "Svegliatevi e levatevi in piedi, voi che abitate la polvere! La vostra rugiada è come la rugiada d'un campo verde, e la terra dei giganti sarà desolata. Va, o mio popolo, entra nei tuoi tabernacoli e chiudi la porta dietro a te. Nasconditi per un po' di tempo fino a quando il furore sia passato. Ecco il Signore uscirà fuori per visitare l'iniquità degli abitanti della terra; e la terra metterà allo scoperto il sangue che ha ricevuto e non nasconderà più i morti che vi sono stati seppelliti " (Is. 26.19).

22. Non voglio dire che si debbano ricondurre tutti i passi a questo schema. Ve ne sono alcuni che, senza simboli e esitazioni, affermano l'immortalità futura preparata per i credenti nel regno di Dio; ne abbiamo già menzionati alcuni. Ve ne sono altri e ne ricordo specialmente due. Uno in Isaia dove è detto: "Come i nuovi cieli e la nuova terra che ho creato sussisteranno stabili davanti a me, così sarà della vostra progenie. Un mese seguirà l'altro, un sabato seguirà ininterrottamente l'altro sabato. Ogni carne verrà a prostarsi dinanzi a me, dice il Signore. E i corpi di coloro che mi hanno disprezzato saranno messi alla gogna. Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si estinguerà " (Is. 66.22-24).

L'altro è in Daniele: "In quel tempo "egli dice "l'arcangelo Michele che è incaricato di proteggere i figli di Dio, si leverà: e verrà un tempo di distretta, quale non c'era mai stato dalla creazione del mondo. Allora sarà salvato il popolo che è scritto nel libro. E quelli che riposano nella terra si leveranno, gli uni a vita eterna, gli altri a eterno obbrobrio " (Da 12.1-2).

23. Non consacrerò molto tempo a trattare i due altri punti, vale a dire che i padri antichi hanno avuto Cristo quale pegno e garanzia delle promesse loro fatte da Dio, e che hanno posto in lui la speranza di ogni benedizione. Sono facili a capire e non sollevano molte controversie.

Affermiamo dunque che l'antico patto, ovvero l'alleanza di Dio con il popolo d'Israele, non si limitava alle cose terrene ma includeva anche promesse di vita spirituale ed eterna, la cui speranza doveva essere impressa nel cuore di tutti quelli che erano congiunti veramente con questo patto. Questa conclusione non può essere distrutta da nessuna macchinazione del Diavolo.

Abbandoniamo dunque l'assurda e perniciosa opinione secondo cui Dio non avrebbe proposto altro ai Giudei, ed essi non avrebbero aspettato altro da lui, che di nutrire i loro ventri, di mantenerli nelle delizie carnali, nell'abbondante ricchezza, di esaltarli e glorificarli, dar loro lunga discendenza e altre cose del genere, quali sono desiderate dagli uomini terreni. Gesù Cristo oggi non promette ai suoi credenti un regno dei cieli diverso da quello in cui riposeranno con Abramo, Is.cco e Giacobbe (Mt. 8.2). San Pietro ricordava agli Ebrei del suo tempo che erano eredi della grazia evangelica in quanto successori dei profeti, inclusi nel patto fatto da Dio anticamente con Israele (At. 3.25).

E perché questo non fosse espresso solo con le parole, il Signore lo ha confermato con i fatti. Nel momento della sua risurrezione ne ha reso partecipi molti santi, che furono visti in Gerusalemme (Mt. 27.52). Con questo ha dato una sicura garanzia che quanto aveva fatto e sofferto per procurare la salvezza al genere umano concerneva i credenti dell'antico patto quanto noi. E infatti avevano lo stesso spirito che noi abbiamo, per mezzo del quale Dio rigenera i suoi in vista della vita eterna (At. 15.8). Se dunque vediamo abitare in loro quello spirito di Dio, che è per noi semenza di immortalità ed è chiamato pegno della nostra eredità, come oseremmo negare loro l'eredità della vita?

Un uomo saggio si meraviglierà che i Sadducei siano caduti nell'errore di negare l'immortalità delle anime e la resurrezione, dato che l'una e l'altra sono così chiaramente affermate nella Scrittura, l'ignoranza crassa che vediamo oggi tra gli Ebrei, i quali aspettano pazzamente un regno terrestre di Cristo, non deve meravigliarci meno; non fosse che questa punizione è stata prevista, perché hanno sprezzato Gesù Cristo e il suo Evangelo. Era giusto che Dio li colpisse con questo accecamento dato che hanno preferito le tenebre e hanno spento la luce che era loro offerta. Leggono Mosè e assiduamente meditano quello che ha scritto, ma un velo impedisce loro di contemplare la luce del suo volto (2 Co. 3.14-15). Esso rimarrà quindi coperto e nascosto fin quando non avranno imparato a volgersi a Cristo, dal quale ora si sforzano invece di allontanarsi.