Letteratura/Istituzione/1-15
Istituzioni della religione cristiana (Calvino) |
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CAPITOLO XV
L'UOMO QUALE È STATO CREATO: TRATTIAMO DELL'IMMAGINE DI DIO, DELLE FACOLTÀ DELL'ANIMA, DEL LIBERO ARBITRIO E DELLA ORIGINARIA INTEGRITÀ DELLA SUA NATURA
1. Occorre ora parlare della creazione dell'uomo, innanzitutto perché è il più nobile ed eccellente capolavoro in cui appaiono la giustizia di Dio, la sua sapienza e bontà. Inoltre, come abbiamo detto, non possiamo conoscere Dio chiaramente e con certezza se non interviene parallelamente la conoscenza di noi stessi. Vi sono due aspetti nella conoscenza di noi stessi: quali siamo stati formati nella nostra prima origine e in séguito la condizione in cui siamo precipitati dopo la caduta di Adamo. (Non servirebbe a nulla conoscere la nostra condizione primitiva se, attraverso la miserabile rovina che ha poi avuto luogo, non comprendessimo quali sono la nostra corruzione e la deformità della natura) . Per il momento limitiamoci però a esaminare l'integrità che ci fu data all'inizio.
Prima di considerare la misera condizione in cui l'uomo si trova imprigionato, bisogna intendere quale era in origine; dobbiamo infatti evitare, sottolineando troppo accentuatamente i vizi naturali dell'uomo, di sembrare imputarli all'autore della sua natura. L'empietà crede di potersi difendere con questa giustificazione: quanto essa ha di male proviene in qualche modo da Dio e quando la si accusa non esita a rimproverarlo e a rigettare su lui la colpa di cui è giustamente accusata. E quanti vogliono far credere di parlare con maggiore venerazione di Dio, non si stancano di cercare scuse ai propri peccati menzionando la propria natura viziata; non pensano che così facendo accusano Dio di una colpa, anche se indirettamente, perché se vi fosse qualche difetto nella nostra natura originaria, questo risulterebbe a suo disonore. Vedendo dunque la carne così preoccupata di cercare ogni sotterfugio con cui scaricare in qualche modo la colpa dei propri difetti, è necessario opporsi fermamente a tale malvagità. Dobbiamo trattare della sciagura del genere umano in modo di tagliar corto ad ogni scappatoia, onde la giustizia di Dio sia affermata contro ogni accusa e ogni critica. Vedremo in séguito, a suo tempo e a suo luogo, come siamo lontani dalla purezza che era stata data al padre nostro Adamo. Notiamo in primo luogo, che egli è stato tratto dalla terra per essere tenuto a freno onde non s'inorgoglisse. Non v'è nulla di più irragionevole che gloriarci della nostra dignità abitando una dimora di terra e fango, anzi essendo in parte terra e fango. Ma Dio non solamente ha dato l'anima a questo povero vaso di terra, ma anche si è degnato di farlo dimora di uno spirito immortale, di questa immensa liberalità del suo creatore Adamo aveva di che gloriarsi.
2. Il fatto che l'uomo sia costituito da due parti, vale a dire il corpo e l'anima, non deve sollevare problemi. Con questo termine "anima "intendo lo spirito immortale, ma creato, che è la parte più nobile. Talvolta la Scrittura la chiama spirito; questi due termini quando sono uniti insieme differiscono l'uno dall'altro nel significato, ma quando il termine "spirito "si trova da solo equivale ad anima. Così Salomone parlando della morte, dice che lo spirito ritorna a Dio che lo aveva dato (Ec. 7) ; e Gesù Cristo raccomanda il proprio spirito a Dio (Lu 23.46) e santo Stefano a Gesù Cristo (At. 7.59). In questi passi vuole affermare soltanto che quando l'anima sarà uscita dalla prigione del corpo, Dio ne sarà custode perpetuo.
Il grossolano errore di quelli che danno a questa parola spirito il significato di: alito o forza infusa nel corpo, priva però di realtà, è smentito dai fatti e dalla Scrittura tutta. È bensì vero che gli uomini rivolti alla terra più di quanto dovrebbero si inebetiscono e, anzi, allontanati dal Padre e dalla luce, si accecano nelle proprie tenebre fino al punto di pensare che non potranno vivere dopo la morte. Tuttavia la luce non è spenta nelle tenebre al punto che non permanga in loro un qualche sentimento della propria immortalità. La coscienza che, discernendo tra il bene e il male, risponde al giudizio di Dio, è un indice infallibile dell'immortalità dello spirito. Come potrebbe un moto senza realtà presentarsi dinnanzi al giudizio di Dio e imprimere in noi timore della condanna che abbiamo meritato? Il corpo non teme una punizione spirituale: un sentimento di questo genere compete alla sola anima, ne consegue che essa non è priva di realtà.
In secondo luogo, la conoscenza che abbiamo di Dio dimostra che le anime sono immortali, esse infatti indagano oltre il mondo e una ispirazione che svanisce non potrebbe giungere alla sorgente di vita. Insomma, le numerose qualità degne di nota di cui l'anima è adornata, mostrano chiaramente impresso in essa un non so che di divino; e sono altrettante testimonianze della sua essenza immortale. Infatti il sentimento delle bestie brute non oltrepassa il loro corpo e non si estende oltre le realtà offerte ai sensi; ma l'agilità dello spirito umano che percorre il cielo e la terra e i segreti della natura, dopo aver raccolte tante cose nella sua memoria, elaborandole e traendo dal passato le conseguenze per l'avvenire, mostra esservi nell'uomo una parte separata dal corpo. Con l'intelligenza concepiamo Dio e gli angeli che sono invisibili, cosa che il corpo non potrebbe fare; possiamo intendere quanto è diritto, giusto ed onesto, e questo non può essere fatto dai nostri sensi corporei.
Bisogna dunque che lo spirito sia sede e fondamento di questa intelligenza. Persino il sonno, che abbruttendo gli uomini sembra privarli della loro vita, è testimone verace della loro immortalità: poiché non solamente suggerisce riflessione e comprensione di realtà che non hanno mai visto la luce, ma anche le informa delle cose future con quelli che si usano chiamare presagi. Accenno brevemente a queste cose che sono esaltate con grande eloquenza persino dagli scrittori profani: ma ai lettori cristiani sarà sufficiente ricordarle semplicemente.
Inoltre, se l'anima non fosse un'essenza diversa dal corpo, la Scrittura non insegnerebbe che abitiamo una dimora di fango e che morendo usciamo da una abitazione e spogliamo quanto è corruttibile per ricevere nell'ultimo giorno la retribuzione, secondo che ciascuno si sarà comportato nel suo corpo. Certamente questi passi ed altri simili, abbastanza comuni, non solamente distinguono l'anima dal corpo ma attribuendo ad essa complessivamente l'appellativo di uomo, la indicano quale parte principale di noi stessi. Per di più san Paolo, esortando i credenti a purificarsi di ogni impurità di carne e di spirito (2 Co. 7.1) stabilisce senza dubbio due parti nelle quali risiedono le impurità del peccato. Anche san Pietro chiamando Gesù Cristo: pastore delle anime (1 Pi. 2.25) parlerebbe scioccamente se non ci fossero delle anime verso le quali egli esercita questo ufficio. E quanto dice della salvezza eterna delle anime risulterebbe privo di fondamento; ugualmente quando ci ordina di purificare le nostre anime e ricorda che le malvagie cupidigie combattono contro l'anima (1 Pi. 1.9; 2.2) . Lo stesso vale per la epistola agli Ebrei: i pastori vegliano dovendo rendere conto delle nostre anime (Eb. 13.17) ; l'affermazione non avrebbe senso se le nostre anime non avessero una esistenza propria. Con questo si accorda l'invocazione di Dio quale testimone per la propria anima, da parte di san Paolo; se essa non fosse soggetta alla punizione non potrebbe essere chiamata in giudizio davanti a Dio. Una espressione ancora più chiara è nelle parole di Gesù Cristo in cui ci comanda di temere colui che, dopo aver messo a morte il corpo, può mandare l'anima nella geenna del fuoco (Mt. 10.28; Lu 12.5) . Così l'Apostolo nella epistola agli Ebrei, affermando che gli uomini sono i nostri padri carnali ma che Dio è il solo padre degli spiriti (Eb. 12.9) , non poteva dimostrare meglio l'essenza delle anime.
Quel che è più importante, se le anime, liberate dai legami del loro corpo, non continuassero ad esistere non avrebbe alcun senso che Gesù Cristo ci presenti l'anima di Lazzaro godente del riposo e della gioia nel seno di Abramo mentre al contrario l'anima del ricco è tormentata in modo orribile (Lu 16.22) . Lo stesso è confermato da san Paolo quando dice che siamo pellegrini lontani da Dio finché abitiamo nella carne, ma gioiremo della sua presenza quando saremo usciti dal corpo (2 Co. 5.6-8) . Per non dilungarmi su un argomento affatto oscuro ricorderò solo che san Luca enumera tra gli errori dei Sadducci la loro credenza che non esistano spiriti né angeli (At. 23.8) .
3. Prova sicura e solida si può trarre anche dal fatto che l'uomo è stato creato a immagine di Dio (Ge 1.27) . Sebbene la gloria di Dio splenda anche nella parte esterna dell'uomo, non v'è dubbio tuttavia che sede di questa immagine sia l'anima. Non nego che la forma corporea che ci distingue dalle bestie brute ci congiunga a Dio e ci avvicini a lui. E se qualcuno pretende che l'immagine di Dio si esprima anche nel fatto che l'uomo ha la testa levata in alto e gli occhi alzati al cielo per contemplare la sua origine, mentre le bestie hanno la testa volta in basso, non lo contraddirò. Rimanga però sempre certo questo punto, che l'immagine di Dio visibile, o almeno modestamente riflessa in questi segni apparenti, è in realtà spirituale. Alcuni troppo fantasiosi come Osiandro, ponendo questa immagine indistintamente sia nel corpo che nell'anima, mescolano, come si dice, la terra con il cielo. Dicono che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo hanno collocato la propria immagine nell'uomo perché anche se Adamo fosse rimasto nella sua integrità, Gesù Cristo sarebbe comunque diventato uomo. Secondo la loro fantasticheria la natura corporea che doveva prendere Gesù Cristo è stato il modello del corpo umano. Ma dove troveremo che Gesù Cristo sia l'immagine dello Spirito Santo? Riconosco volentieri che nella persona del mediatore risplende la gloria di tutta la divinità: ma come potrebbe la Sapienza eterna essere considerata immagine dello Spirito se essa lo precede nell'ordine? In breve, tutta la distinzione tra Figlio e Spirito Santo è rovesciata se lo Spirito Santo definisce il Figlio come propria immagine. Vorrei anche sapere da costoro in che modo Gesù Cristo rappresenta nella sua carne lo Spirito Santo e quali sono i tratti di una tale rassomiglianza. Questa intenzione: "Facciamo l'uomo simile alla nostra immagine " (Ge 1.26) è comune alla persona del Figlio: ne seguirebbe dunque che egli stesso è la propria immagine, il che è irragionevole. E ancora: se si accetta la loro fantasticheria, Adamo non sarebbe stato formato a somiglianza di Gesù Cristo se non in quanto questi doveva essere uomo. Così il modello su cui Adamo sarebbe stato formato sarebbe Gesù Cristo sotto l'aspetto dell'umanità di cui sarebbe stato rivestito. Ora la Scrittura mostra che egli è stato creato all'immagine di Dio in un altro senso. Più giustificate le argomentazioni di alcuni altri che affermano: Adamo è stato creato a immagine di Dio perché è stato conforme a Gesù Cristo che è questa immagine. Ma anche a questo riguardo non vi è alcuna prova.
Vi è anche una disputa non piccola relativa all'immagine e somiglianza perché i commentatori cercano in queste due parole una diversità che non esiste, poiché il termine "somiglianza "è stato aggiunto come esplicativo di "immagine ". Sappiamo che era abitudine degli Ebrei di usare una ripetizione per spiegare una cosa due volte. Quanto al significato non v'è dubbio che l'uomo sia chiamato immagine di Dio perché gli rassomiglia. Quanti dunque fantasticano sottilmente si rendono ridicoli sia che attribuiscano il nome di u immagine alla sostanza dell'anima e il termine "somiglianza "alle qualità, sia che offrano qualche altra interpretazione. Dio dopo aver parlato di "immagine ", per meglio chiarire quanto era un po' oscuro, aggiunge (come abbiamo detto) la parola "somiglianza "; come se dicesse che vuole formare l'uomo e in esso rappresenterà la propria immagine per mezzo dei segni di somiglianza che scolpirà in lui. Per questo motivo Mosè, raccontando poco dopo lo stesso episodio, adopera due volte il termine "immagine "senza fare menzione della "rassomiglianza".
L'obiezione di Osiandro è sciocca; egli dice che non è chiamata immagine di Dio una parte dell'uomo, cioè l'anima con tutte le sue facoltà, ma Adamo tutto intero a cui è stato imposto il nome della terra da cui è stato preso, Ogni persona di buon senso ne riderà. Perché quando tutto l'uomo è definito mortale, questo non vuol dire che l'anima sia sottomessa alla morte; né al contrario quando è detto che egli è un animale ragionevole, che la ragione o intelligenza appartenga al corpo. L'anima non è l'uomo completo, ma non bisogna trovare assurdo che, in riferimento ad essa, l'uomo sia chiamato immagine di Dio. Tuttavia sostengo questo punto, già menzionato: l'immagine di Dio definisce l'insieme della dignità che distingue l'uomo da ogni specie di animale.
In questa parola dunque è espressa l'integrità di cui era dotato Adamo quando aveva uno spirito retto, sentimenti ben regolati, sensi ben moderati, il tutto ben ordinato in se per rappresentare con tali doti la gloria del suo Creatore. E sebbene il seggio sovrano di questa immagine di Dio sia stato posto nello spirito e nel cuore o nell'anima e nelle sue facoltà, tuttavia non vi è alcuna parte, persino del corpo, in cui non ne brilli qualche scintilla. È noto che in tutte le parti del mondo appare qualche traccia della gloria di Dio: da questo si può arguire che mettendo l'immagine di Dio nell'uomo, tacitamente lo si distingue, sollevandolo al di sopra, da tutte le altre creature. Tuttavia non bisogna credere che gli angeli non siano stati creati ugualmente a somiglianza di Dio; la nostra sovrana perfezione, Cristo ne è testimone, sarà di rassomigliare loro (Mt. 22.30) . Ma giustamente Mosè, attribuendo particolarmente agli uomini questo titolo onorevole, magnifica la grazia di Dio verso di loro specialmente perché vuole siano paragonati solamente alle creature visibili.
4. Tuttavia non sembra esserci ancora una definizione completa di questa immagine se non viene mostrato più chiaramente perché l'uomo debba essere apprezzato e per quali prerogative debba essere considerato specchio della gloria di Dio. Questo non può essere conosciuto meglio che nella restaurazione della sua natura corrotta. Non v'è dubbio che Adamo, decaduto dal suo rango con la sua apostasia, si sia allontanato da Dio. Per questa ragione, pur riconoscendo che l'immagine di Dio non è stata del tutto annientata e cancellata in lui, tuttavia è stata così fortemente corrotta che quanto ne resta è una realtà orribilmente deformata. Il fondamento della salvezza sta in questa restaurazione che otteniamo mediante Gesù Cristo, che per questo motivo è chiamato il secondo Adamo, in quanto ci ricolloca nella situazione di integrità genuina.
San Paolo, contrapponendo lo spirito vivificante portato da Gesù Cristo all'anima vivente con cui Adamo è stato creato (1 Co. 15.45) , stabilisce una misura di grazia maggiore nella rigenerazione dei credenti che nella situazione primitiva dell'uomo. Tuttavia non annulla quanto abbiamo detto: il fine cioè della nostra rigenerazione è che Gesù Cristo ci riformi ad immagine di Dio. Parimenti altrove insegna che l'uomo nuovo è restaurato ad immagine di colui che l'ha creato (Cl. 3.10) ; cui corrisponde l'altra frase: "Vestitevi dell'uomo nuovo che è creato ad immagine di Dio " (Ef. 4.24) .
Cosa intende san Paolo con questa rigenerazione? In primo luogo la conoscenza, in secondo luogo una giustizia santa e genuina. Ne deduco che nel principio l'immagine di Dio si manifestava nella limpidezza di spirito, nella dirittura di cuore e nell'integrità di tutte le parti dell'uomo. Riconosco che queste espressioni di san Paolo intendono esprimere il tutto per mezzo di una parte, tuttavia non si può negare questo fatto: l'elemento principale nel rinnovamento dell'immagine di Dio, aveva nella creazione primaria importanza. A questo si riferisce quanto è scritto in un altro passo: a viso scoperto contempliamo la gloria di Cristo per essere trasformati a sua immagine (2 Co. 3.18) . Cristo è qui l'immagine perfettissima di Dio; se siamo conformati ad essa siamo talmente restaurati da rassomigliare a Dio nella vera pietà, giustizia, purezza e intelligenza. Con questo la fantasticheria della conformità del corpo umano con quello di Gesù Cristo svanisce da sola. Quanto al fatto che il maschio solamente è chiamato immagine e gloria di Dio e la donna è esclusa da tale onore (1 Co. 11.7) appare dal contesto che questo è limitato alla economia terrestre.
Credo di avere sufficientemente dimostrato che l'immagine di Dio, di cui ora trattiamo, si riferisce alla vita spirituale e celeste. Questo è confermato da san Giovanni allorché dice: la vita esistente fin dal principio nella Parola eterna di Dio è stata la luce degli uomini (Gv. 1.4) . Sua intenzione è di esaltare la grazia singolare di Dio che innalza la dignità degli uomini sopra tutti gli animali, di sorta che l'uomo è distinto dal resto, avendo non una vita bruta ma intelligenza e ragione. Così egli mostra come l'uomo sia stato creato all'immagine di Dio. L'immagine di Dio consiste nell'eccellenza della intera natura umana quale splendeva in Adamo prima della sua caduta e che in séguito è stata sfigurata e quasi cancellata, talché quanto rimane di questa rovina è confuso, spezzato, sconvolto e infettato. Ora questa immagine appare in una certa qual misura negli eletti in quanto sono rigenerati dallo Spirito: ma raggiungerà la sua pienezza solo nel cielo.
Per meglio veder nel dettaglio quali ne siano le parti, è utile trattare delle facoltà dell'anima. È malfondata infatti la riflessione di sant'Agostino secondo cui l'anima è uno specchio della Trinità dato che essa comprende in se intelligenza, volontà e memoria. Anche l'opinione di quanti pongono l'immagine di Dio nella preminenza che è stata data all'uomo nel mondo, non ha molta giustificazione né ragion d'essere: poiché pensano che l'uomo sia conforme a Dio per la caratteristica di essere stato stabilito proprietario e possessore di ogni cosa. È invece proprio in lui, e non intorno a lui, che dobbiamo cercare questo bene interiore dell'anima.
5. Prima di continuare è necessario confutare la fantasticheria dei Manichei cui Serveto si è sforzato di ridare vita ai nostri giorni. Quando è detto che Dio ha soffiato nel volto dell'uomo lo spirito di vita (Ge 2.7) hanno pensato che l'anima fosse un rampollo della sostanza di Dio quasi una porzione della divinità infusa nell'uomo. Ora è facile mostrare quali e quanto gravi assurdità comporti questo diabolico errore. Se l'anima dell'uomo nasce dall'essenza di Dio come un pollone, ne consegue che la natura di Dio è mutevole e soggetta alle passioni, persino all'ignoranza, alle malvagie cupidigie, alle infermità e ad ogni genere di difetti. Nulla è più incostante dell'uomo perché ha sempre dei moti contrari che conducono e distraggono la sua anima qua e là: si inganna e cade in errore ad ogni momento, soccombe a ben piccole tentazioni. In breve, sappiamo che l'anima è una spelonca ripiena di immondizie e fetori che bisognerebbe attribuire alla natura di Dio qualora si accettasse che l'anima sia parte della sua essenza come un rampollo lo è della sostanza dell'albero. Chi non inorridisce di fronte a tali mostruosità? È ben vera la citazione riportata da san Paolo di un poeta pagano secondo cui siamo discendenti di Dio (At. 17.28) ; ma questo si riferisce alla qualità, non alla sostanza, vale a dire al fatto che ci ha arricchito di facoltà e virtù divine. È segno di insensatezza assoluta voler smembrare l'essenza del creatore in modo che ciascuno ne possieda una parte.
Dobbiamo anche tener per certo che sebbene l'immagine di Dio sia scolpita nelle anime, esse non sono per questo meno create degli angeli. Ora creazione non è trasfusione, come se si travasasse il vino da un vaso in una bottiglia, ma indica il dare origine ad una essenza che non esisteva. E sebbene Dio dia lo spirito e poi lo riprenda, questo non significa che lo ritagli dalla propria sostanza come il ramo da un albero. Osiandro svolazzando nelle sue speculazioni prive di senso si è cacciato in un ben cattivo errore ed ha inventato una giustizia essenziale di Dio infusa nell'uomo: quasi Dio per la potenza infinita del suo Spirito non potesse renderci conformi a se, e in Gesù Cristo non versasse la sua sostanza in noi, in modo anzi che la sostanza della sua divinità venga nelle nostre anime. Si sforzino pure di abbellire queste illusioni con varie ragioni, non riusciranno mai a incantare le persone ragionevoli, che comprenderanno come tutto questo derivi dalla setta dei Manichei. E infine quando san Paolo tratta della nostra restaurazione, è facile dedurre dalle sue parole che Adamo, nella sua origine era conforme a Dio, non per deflusso di sostanza ma per la grazia e virtù dello Spirito Santo. Egli dice infatti che contemplando la gloria di Cristo, siamo trasformati nella stessa sua immagine come attraverso lo spirito del Signore (2 Co. 3.18) , il quale opera in noi non in modo da renderci però partecipi della sostanza di Dio.
6. Sarebbe follia rivolgersi ai filosofi per avere una definizione sicura dell'anima dato che nessuno di loro, eccettuato Platone, ne ha mai affermato esplicitamente l'essenza immortale. Gli altri discepoli di Socrate ne parlano, ma in modo incerto, perché nessuno ha osato definire quello di cui non era convinto. Platone ha una concezione più esatta degli altri in quanto considera che l'immagine di Dio dimori nell'anima mentre le altre sette vincolano le virtù e le facoltà dell'anima alla vita presente al punto da non lasciare quasi sussistere realtà all'infuori del corpo. Ma abbiamo più sopra insegnato con la Scrittura che si tratta di una sostanza senza corpo. Bisogna ora aggiungere che sebbene non possa essere contenuta in un luogo, tuttavia deposta ed alloggiata come nei corpi essa vi abita come in un domicilio, non solo per dare vigore alle membra e rendere gli organi esterni adatti ed utili alle loro azioni, ma anche per avere la preminenza onde reggere e governare la vita dell'uomo; non solamente nelle deliberazioni e negli atti concernenti la vita terrestre, ma anche per svegliarlo e guidarlo a temere Dio. Sebbene quest'ultimo punto non possa essere percepito chiaramente nella nostra natura corrotta, tuttavia qualche traccia rimane impressa in mezzo ai difetti. Donde viene infatti la grande preoccupazione degli uomini per la propria reputazione se non da un sentimento di vergogna che hanno scolpito in loro? E donde viene questa vergogna se non dal fatto che sono costretti a sapere che cosa è l'onestà? La sorgente e causa si trova nel fatto che essi comprendono di essere nati per vivere giustamente; in ciò è contenuto un qualche germe di religione.
L'uomo è stato, senza dubbio, creato per aspirare alla vita celeste, ma è altresì certo che il gusto e la comprensione di essa sono stati impressi nella sua anima. Infatti l'uomo sarebbe privato del frutto principale della sua intelligenza se ignorasse la propria felicità, la cui perfezione consiste nell'essere uniti a Dio. Tendere a questo scopo è così il fatto essenziale per l'anima e ognuno conferma, nello sforzo con cui si avvicina e tende a tale unione, di essere dotato di ragione.
Quanti affermano esservi numerose anime nell'uomo, per esempio la sensitiva e la razionale, sebbene sembrino proporre qualcosa di probabile, devono tuttavia essere respinti non essendo fondati su alcuna certezza. Non prendiamo piacere a tormentarci in cose frivole ed inutili. Essi dicono esservi una grande opposizione tra i movimenti del corpo, chiamati organici, e la parte razionale dell'anima; come se la ragione stessa non fosse agitata in se da diverse lotte e le sue deliberazioni e decisioni non combattessero spesso tra loro come un esercito contro l'altro. Questi disordini procedono dalla depravazione naturale; è erroneo dunque affermare l'esistenza di due anime solo perché le facoltà non si accordano in misura e proporzione eguale, come sarebbe giusto e necessario.
Per quanto riguarda le facoltà, lascio ai filosofi di specificarle in dettaglio; ci basterà averne una semplice esposizione per edificarci nella pietà. Riconosco che quanto insegnano su questo argomento è vero e non solamente gradevole a conoscersi ma utile e ben elaborato e non vorrei affatto scoraggiare quanti hanno desiderio di imparare dall'applicarvi il loro studio. Accetto dunque in primo luogo i cinque sensi, che Platone però preferisce chiamare organi; per essi, come attraverso canali, tutti gli oggetti che si presentano alla vista, al gusto, all'olfatto o al tatto scorrono al senso comune come in una cisterna che riceve da una parte e dall'altra. In séguito l'immaginazione, che discerne quanto il senso comune ha concepito e appreso; poi la ragione, che compie il suo ufficio giudicando di tutto. Infine sopra alla ragione è l'intelligenza che contempla ogni cosa toccata dalla ragione nei suoi discorsi con sguardo posato e determinato. Così vi sono tre virtù nell'anima volte a conoscere ed intendere, e per questo sono chiamate cognitive; vale a dire la ragione, l'intelligenza e la fantasia. Ad esse corrispondono tre altre appartenenti al desiderio; vale a dire la volontà, il cui ufficio è di realizzare quanto l'intelligenza e la ragione le propongono; la collera che segue quanto le è presentato dalla ragione e dalla fantasia; la concupiscenza che si appropria di quanto le è sottoposto dalla fantasia e dai sensi.
Siano pur vere tutte queste cose, o per lo meno verosimili; tuttavia non è il caso di soffermarcisi, poiché c'è il pericolo che non ci possano affatto aiutare e ci potrebbero tormentare molto con la loro oscurità. A qualcuno sembra bene distinguere altrimenti le facoltà dell'anima: per esempio è chiamata "appetitiva" quella che, senza avere ragione in se obbedisce tuttavia alla ragione: l'altra è chiamata "intellettiva "e partecipa alla ragione. Io non farò molte obbiezioni. Non vorrei neanche contraddire quanto afferma Aristotele, che vi sono tre cose da cui procedono tutte le azioni umane: vale a dire senso, intelletto e appetito. Scegliamo piuttosto la distinzione offertaci dai filosofi che può essere compresa dai più semplici: quando vogliono parlare molto semplicemente, dopo aver diviso l'anima in appetito ed intelligenza, dividono ancora ciascuna in due parti. Affermano esservi una "intelligenza contemplativa "che non passa all'azione ma si ferma semplicemente a contemplare ed è espressa dalla parola ingegno come dice Cicerone. L'altra è "pratica "e dopo avere appreso il bene o il male, muove la volontà a seguirlo o fuggirlo: in questo è contenuta la scienza del vivere rettamente. Similmente dividono l'appetito in concupiscenza e volontà: "volontà "quando il desiderio dell'uomo segue la ragione, "concupiscenza "quando si lascia andare all'intemperanza respingendo il giogo della razionalità. In tutto questo pensano esserci nell'uomo una ragione con la quale egli può rettamente governarsi.
7. Siamo costretti ad assumere un certo distacco da questo modo di insegnare perché i filosofi non avendo mai conosciuto il peccato originale, che è la punizione per la rovina di Adamo, confondono con leggerezza due situazioni dell'uomo molto diverse l'una dall'altra. Dobbiamo dunque adoperare un'altra divisione: vi sono due parti nella nostra anima, intelligenza e volontà. L'intelligenza serve a discernere fra tutte le cose che ci vengono proposte e a giudicare quanto dobbiamo accettare o condannare. Compito della volontà è di accettare e seguire quanto l'intelletto avrà giudicato essere buono e al contrario respingere e fuggire quanto sarà stato riprovato. Non dobbiamo lasciarci fermare qui dall'obbiezione troppo sottile di Aristotele, secondo cui nell'intelligenza non vi è propriamente alcun movimento, ma è la scelta a muovere l'uomo; senza smarrirci in questioni superflue, ci basti sapere che l'intelletto è come la guida dell'anima, la volontà dipende dal suo beneplacito e non ha desideri finché abbia avuto la sua approvazione. Tuttavia Aristotele molto giustamente afferma in un altro passo che il respingere o il desiderare è per l'appetito ciò che il negare o l'approvare sono per l'intelletto. Vedremo in séguito quanto la direzione dell'intelletto sia sicura nel guidare la volontà. Non pretendiamo a questo punto far altro che mostrare come tutte le virtù dell'anima umana si riducano ad uno di questi due aspetti. In questo modo i sensi sono inclusi nell'intelletto mentre invece i filosofi li separano affermando che questi propendono al piacere e quello all'onestà e alla virtù; tanto più che invece del termine appetito adoperiamo la parola volontà, che è più usata.
8. Dio ha fornito dunque all'anima l'intelligenza con la quale poter discernere il bene dal male, il giusto dall'ingiusto e vedere ciò che debba seguire o fuggire, guidata dalla luce della ragione. Per questo motivo i filosofi hanno definito: direttrice, questa parte dell'anima. Parimenti egli vi ha aggiunto la volontà che comporta la possibilità di scelta. Queste facoltà hanno ornata e nobilitata la condizione primitiva dell'uomo affinché avesse abilità, prudenza, giudizio e discrezione non solo per quanto concerne la vita terrestre, ma per giungere fino a Dio e alla perfetta felicità. Vi è stata aggiunta la facoltà di scelta per guidare i desideri, moderando tutti i movimenti chiamati organici, in modo che la volontà si conformasse perfettamente alla regola e alla moderazione della ragione.
In questa integrità l'uomo possedeva il libero arbitrio con il quale avrebbe ottenuto la vita eterna se avesse voluto. È fuori luogo menzionare qui la predestinazione occulta di Dio perché la questione non è di sapere quel che avrebbe potuto avvenire o meno, ma quello che la natura dell'uomo è stata di per se. Adamo, se avesse voluto, avrebbe potuto rimanere in piedi, dato che e caduto per volontà propria. Ma la sua volontà era orientabile verso il bene e verso il male e non gli era data costanza di perseverare; perciò cadde subito e così facilmente. Tuttavia egli ha potuto scegliere tra il bene e il male; non solo, ma vi era una integrità perfetta tanto nella sua intelligenza quanto nella sua volontà. E anzi, tutte le parti dell'organismo erano inclini e pronte ad obbedire al bene fino a quando, perdendosi e rovinandosi, egli ha corrotto tutti i suoi beni. Su questo punto i filosofi sono stati accecati e ottenebrati cercando un edificio intero e bello un rudere e rapporti ben regolati in un caos. Si sono attenuti a questo principio: l'uomo non sarebbe un animale razionale se non potesse scegliere tra il bene e il male. Erano anche d'avviso che se l'uomo non può impostare la propria vita con decisioni proprie non esiste alcuna distinzione tra i vizi e le virtù. Avrebbero avuto ragione se non vi fosse stato alcun cambiamento nell'uomo. Essendo loro ignota la caduta di Adamo e il disordine che ne è seguito, non bisogna stupirsi se hanno mescolato cielo e terra.
Coloro però che si dichiarano cristiani e tuttavia tengono i piedi in due staffe mischiando la volontà di Dio con quanto hanno detto i filosofi e cercando ancora nell'uomo quel libero arbitrio, che è stato perso e rovinato nella sua morte spirituale, sono del tutto insensati e non stanno né in cielo né in terra, come vedremo a suo tempo. Per ora dobbiamo ritenere che Adamo nella originaria creazione era ben diverso da tutta la sua discendenza. Questa, derivando da una radice corrotta e marcia, ne ha tratto un contagio ereditario. Tutte le parti dell'anima erano preordinate ad avere ciascuna il suo posto, l'intelletto era sano ed integro, la volontà era libera di scegliere il bene. Se si obietta che essa si trovava in una posizione pericolosa perché aveva una facoltà e una possibilità inefficienti, risponderò che per togliere ogni scusa basta il fatto che Dio l'avesse posta nella situazione che abbiamo detto. Infatti non c'era ragione perché Dio fosse costretto a creare l'uomo tale da non poter o non voler in alcun modo peccare. È vero che in tal modo la sua natura sarebbe risultata più eccellente, ma è irragionevole lamentarsi e criticare Dio come se egli fosse stato tenuto a dotare l'uomo di questa virtù: se avesse voluto avrebbe potuto dargli ancora meno. Perché Dio non l'ha sostenuto affinché perseverasse, è un fatto nascosto nel suo segreto consiglio e il nostro dovere è di essere sobri. Adamo che aveva ricevuto tali virtù non è dunque scusabile per aver volontariamente causato male e confusione senza che alcuna necessità gliene fosse stata imposta da Dio, il quale gli aveva precedentemente dato una volontà neutra e che si poteva volgere al bene e al male. E sebbene essa fosse fallibile, Dio non ha mancato di trarre occasione di gloria dalla caduta.