Letteratura/Istituzioni/Citazioni commentate/La rinuncia a noi stessi e la sofferenza

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La rinuncia a noi stessi e la sofferenza

Frasi scelte da "Istituzione della religione cristiana" di Giovanni Calvino. Libro terzo. Capitolo 8 [Letteratura/Istituzione/3-08]

Nel capitolo otto del libro terzo de L'Istituzione della Religione Cristiana, intitolato "Il sopportare pazientemente la croce fa parte della rinuncia a noi stessi", Giovanni Calvino riflette sul ruolo della sofferenza nella vita del credente. Calvino insegna che portare la croce, ossia affrontare con pazienza le prove e le tribolazioni, è un elemento essenziale della vera rinuncia a se stessi, che Cristo chiede ai suoi discepoli. Questo processo di sopportazione non è fine a sé stesso, ma serve a conformare il credente all'immagine di Cristo, purificandolo e rafforzandone la fede. La croce, quindi, è un mezzo con cui Dio disciplina i suoi figli, trasformando le difficoltà in opportunità di crescita spirituale e maturazione nella fede.
Lettura di Daniela - "Istituzioni" Giovanni Calvino - Portare la croce


Tutti coloro che il Signore ha adottati e ricevuti come figli devono prepararsi a una vita dura, travagliata, piena di tribolazioni e di mali di ogni genere. Piace al Padre celeste esercitare in questo modo i suoi servitori, al fine di metterli alla prova. Ha iniziato questo procedimento in Cristo, suo figlio primogenito, e lo prosegue nei confronti di tutti gli altri. Sebbene Cristo fosse il suo figlio prediletto nel quale sempre si è compiuto (Matt. 3:17; 17:5), vediamo che non è stato trattato mollemente e con delicatezza in questo mondo; non solo ha sofferto costante afflizione, ma l'intera sua vita è stata una croce continua.

Ce ne deriva una singolare considerazione: sopportando tutte le miserie che chiamiamo avversità e malvagità, noi abbiamo comunione con la croce di Cristo affinché, come egli è entrato nella gloria celeste attraverso un abisso di male, anche noi abbiamo comunione con la croce di Cristo affinché, come egli è entrato nella gloria celeste anche noi vi perveniamo attraverso varie tribolazioni (Atti 14:22).

Il Signore Gesù non ha avuto bisogno di portare la croce e soffrire tribolazioni, se non per attestare la sua obbedienza verso Dio; a noi invece è necessario, per parecchie ragioni, essere del continuo afflitti in questa vita.

Anzitutto, essendo per natura troppo inclini ad esaltarci e ad attribuirci ogni cosa, se la nostra debolezza non ci è messa sotto gli occhi noi subito valutiamo oltre misura la nostra forza, e non esitiamo a crederla invincibile contro tutte le difficoltà che potremmo incontrare.

Ecco perché Dio ci affligge, affinché umiliati impariamo allora ad implorare la sua potenza che sola ci permette di resistere e star saldi sotto il peso dei fardelli.

In questo modo i credenti devono essere consapevoli delle proprie debolezze, al fine di fortificarsi nell'umiltà e di spogliarsi di ogni fiducia nella carne, per sottoporsi completamente alla grazia di Dio. Allora sentono che la sua potenza è presente ed in questa trovano sufficiente garanzia di sicurezza.

Avendoci umiliati Dio ci insegna così a riposare in Lui, nostro fondamento che non ci lascia soccombere né perdere coraggio. Da questa vittoria scaturisce la speranza in quanto il Signore, compiendo quel che ha promesso, garantisce per l'avvenire la sua verità.

Dobbiamo dunque riconoscere la clemenza e la benignità del nostro Padre in mezzo all'amarezza più grande insita nelle tribolazioni, poiché neanche così cessa di fare progredire la nostra salvezza. Ci affligge, non per perderci e rovinarci, ma per liberarci dalla condanna di questo mondo.

È pur vero che la povertà, considerata in sé stessa, è miseria; così pure l'esilio, il disprezzo, l'ignominia, la prigione  e infine la morte, che è l'estrema calamità. Ma laddove Dio è presente col suo favore, nessuna di queste cose accade senza volgersi a nostro beneficio e a nostra felicità.

Ci sono, ora dei nuovi stoici anche fra i cristiani, i quali pensano che sia peccato non solo il gemere e il piangere, ma anche il contristarsi e l'essere tormentati. Queste opinioni paradossali procedono per lo più da gente oziosa che, esercitando a speculare piuttosto che a fare, non può che inventare simili fantasie. Per parte nostra non sappiamo che fare di questa filosofia così ascetica e rigorosa, che il nostro Signore Gesù ha condannato non solo a parole, ma anche con il suo esempio.

Ho voluto dire queste cose per allontanare dalla disperazione tutti i cuori pii, affinché non rinuncino all'esercizio della pazienza, anche se non sono affatto liberati dal sentimento nascosto del dolore.

La Scrittura definisce pazienti i santi, afflitti dalla durezza dei loro mali, non sono tuttavia colpiti a tal punto di venire meno; quando, punti dall'amarezza, provano contemporaneamente gioia spirituale; quando incalzati dall'angoscia, non per questo cessano di respirare, rallegrandosi nella consolazione di Dio.

Il sentimento di pietà li conduce ad obbedire alla volontà di Dio anche attraverso queste difficoltà.

Poiché nulla è per noi veramente piacevole all'infuori di ciò che sappiamo essere buono e salutare, il Padre di misericordia ci consola in quanto afferma che, affliggendoci con una croce, provvede alla nostra salvezza. Se le tribolazioni sono per noi salutari, perché non le riceveremmo con cuore tranquillo anziché ingrato? Poiché sopportandole con pazienza non soccombiamo alla necessità, ma assentiamo al nostro bene. Queste considerazioni, dico, fanno sì che quanto più il nostro cuore sarà oppresso dalla tristezza naturale della croce, tanto più sarà dilatato da gioia spirituale. Da ciò deriverà pure l'azione di grazia, che non può essere senza gioia. Se la lode del Signore e le azioni di grazie non possono uscire che da un cuore gioioso e allegro, e se nulla al mondo le deve impedire, è evidente quanto sia necessario che l'amarezza insita nella croce venga temperata da gioia spirituale.