Storia/Storia dei Valdesi/I valdesi e la Riforma

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VII. I valdesi e la Riforma 

1. Situazione nelle Valli Valdesi alla vigilia della Riforma 

Al principio del secolo XVI — se si eccettua la persecuzione di cui ebbero a soffrire i Valdesi abitanti la valle del Po, per opera della bigotta e crudele marchesa Margherita di Foix (1509-1512) — non si hanno da registrare repressioni sanguinose; ma le angherie erano tante e tali che la fiamma religiosa accennava ad illanguidire. In verità, il clero in gran parte ignorante e scostumato offriva un esempio assai deplorevole a tutta quanta la popolazione e con le sue misure vessatorie induceva i Valdesi alla simulazione. Questi, del resto, nel compromesso imposto dal duca Carlo I s'erano più o meno impegnati a non professare apertamente le loro opinioni religiose. Ma i Barba, che venivano periodicamente e di nascosto a visitarli, cercavano di contrastare alla perniciosa influenza di tale ambiente: li incitavano a confessare con fermezza la propria fede ed a coltivare quella vita spirituale intima e personale, senza di cui la religione si riduce ad una etichetta esteriore, aduna vuota apparenza se non addirittura ad un’ipocrisia.

E che l'attività e lo zelo dei Barba non rimanessero del tutto sterili risulta da una inchiesta fatta in Val Pragelato dall'arcivescovo di Torino, Claudio Seyssel, nel 1517. Egli visitò quella parte della sua diocesi, allo scopo di ricondurre all'ovile le pecorelle smarrite; ma, per quanto accolto con rispetto, il prelato dovette riconoscere che le sue prediche non riuscivano a smuovere i Valdesi dalla loro fede e che questa fede li aiutava a «condurre una vita innegabilmente più pura degli altri cristiani... Essi hanno più acume dei Cattolici e non credono che all'Evangelo; ma non vogliono saperne dell'interpretazione nostra ufficiale».

Provò anche di vendere indulgenze a favore della basilica di S. Pietro, forse senza battere tanto il tamburo come stava facendo proprio allora il Tetzel in Germania, ma il Valdesi gli replicarono: «Non sappiamo che farci del perdono del papa. Cristo ci basta!». Tale la situazione nelle Valli Valdesi, mentre s'alzava sull'orizzonte l'astro della Riforma.

2. Prime relazioni con i Riformatori 

Si può immaginare con quale emozione i Valdesi accolsero le notizie dei rapidi progressi che stavano facendo in Germania e nella Svizzera quelle idee, ch'essi erano stati fino ad allora presso che soli a sostenere eroicamente. Vollero mettersi in relazione con i riformatori.

Una prima volta nel 1526 il Barba Martino Gonin era stato mandato insieme con un giovane collega, Guido di Calabria, ad assumere informazioni nella Svizzera ed in Germania; e, dopo un viaggio di cui ignoriamo i particolari, era ritornato recando larga messe di notizie e di scritti, che circolarono tosto nelle comunità valdesi.

Quattro anni più tardi, i Valdesi di Provenza sentirono la necessità di entrare in relazione personale con i riformatori più vicini, consultandoli su alcuni punti speciali di dottrina, di culto e d'organizzazione ecclesiastica. Di tale importantissima missione iincaricarono i Barba Giorgio Morel, di Freissinière, e Pietro Masson, di Borgogna, cui affidarono pertanto una confessione di fede con una specie di questionario. I due messaggeri s'abboccarono dapprima a Neuchatel con l'ardente riformatore francese Guglielmo Farel che aveva dovuto rifugiarsi in Svizzera e che ritroveremo fra non molto nelle nostre Valli; di là, salutato Haller a Berna, passarono a Basilea, dove volevano conferire più a lungo con Ecolampadio e poi a Strasburgo per consultare anche Martino Bucero. Da questi due riformatori furono accolti fraternamente e ricevettero tutte le spiegazioni che desideravano nonché una risposta scritta alla confessione-questionario di cui erano latori. Erano chiarimenti riguardo alla Trinità, alla predestinazione, ai Sacramenti, al matrimonio e ad altri punti sui quali essi non trovarono che i fratelli Valdesi differissero sostanzialmente dal loro modo di vedere: «Rendiamo grazie a Dio perché, nonostante le fitte tenebre che vi circondano, avete serbata la conoscenza e amore della verità. Noi riconosciamo certamente che Cristo è in voi, perciò vi amiamo come fratelli». Tanto Ecolampadio quanto Bucero insisterono particolarmente sulla necessità imperiosa e sul dovere assoluto di separarsi risolutamente dalla Chiesa Romana: «Non è possibile servire con la dissimulazione l'Iddio della verità... I vostri padri hanno messo la mano all'aratro; non vi Iè lecito riguardare indietro!». I due Barba presero la via del ritorno prima della fine di quello stesso anno 1530. Ma purtroppo uno d'essi, il Masson, non doveva più rivedere i suoi fratelli: scoperto e arrestato a Digione, venne messo a morte come luterano. Il Morel invece riuscì a scampare ed a giungere in Provenza, con tutti i documenti. Dinanzi aduna assemblea, convocata a Mérindol egli riferì sulla missione compiuta, lesse le risposte dei teologi riformati di Basilea e di Strasburgo, dando loro pienamente ragione su ogni punto.

La grande maggioranza approvò le conclusioni del Morel, ma alcuni accennarono a fare delle riserve e anche dell'opposizione. A poco a poco gli animi s'impressionarono e s'agitarono a tal segno, che l'eco di questa agitazione raggiunse il Delfinato, il Piemonte e la Calabria. Allora fu deciso di convocare un sinodo generale per trattare la questione a fondo, e d'invitare alcuni teologi riformati della Svizzera a parteciparvi.

3. Il Sinodo di Chanforan 

Questo Sinodo, che doveva decidere la grave questione dell'adesione dei Valdesi alla Riforma, fu convocato per il 12 settembre 1532 a Chanforan, piccola località della valle d'Angrogna. Era duca di Savoia il debole e indeciso Carlo III, soprannominato «il Buono» forse soltanto per la sua debolezza di carattere, il quale cercava di barcamenarsi alla meglio fra il prepotente suo cognato e imperatore Carlo V ed il non meno arrogante suo nipote e re di Francia Francesco I; come si sa, il primo meditava di schiacciare la Riforma ed il secondo per fini suoi particolari favoriva più o meno indirettamente i protestanti. Parente di ambedue quei formidabili antagonisti, il «buon» Carlo non sapeva che politica seguire. Ad ogni modo, non devesi attribuire alla sua bontà d'animo il fatto che il sinodo di Chanforan poté tenersi senza molestie.

Oltre ai Barba al completo, vi convennero così numerosi i fedeli anche di lontano, che l'assemblea imponente dovette radunarsi all'aria aperta, all'ombra dei magnifici castagni. Tre delegati erano venuti dalla Svizzera: Guglielmo Farel, nato da una famiglia nobile e bigotta a Gap, nel Delfinato, dove aveva abbracciato l'Evangelo e iniziato un'opera di riforma, per cui aveva poi dovuto fuggire in Svizzera; Antonio Saunier, oriundo anche egli del Delfinato e ora pastore a Payerne; Pietro Robert, detto Olivetano, di Noyon, cugino del riformatore Giovanni Calvino. Le sedute si protrassero per sei giorni consecutivi e furono in gran parte occupate dall'esame delle principali proposte fatte da Ecolampadio e da Bucero, le quali si possono riassumere così: 1. Istituzione d'un culto pubblico al posto delle riunioni segrete tenute sin qui, 2. Condanna esplicita ed assoluta della simulazione, per cui certuni credevano di poter assistere al culto romano, pur riprovandolo. 3. Adesione alle idee dei riformati sugli articoli seguenti : La predestinazione, le buone opere,il giuramento, la confessione fatta a Dio soltanto, il riposo domenicale, il digiuno non obbligatorio, il matrimonio lecito a tutti, i due sacramenti. La discussione, lunga e vivace, fu diretta e dominata da Farel, ch'era un uomo sulla quarantina, bruno, energico, dallo sguardo di fuoco e dalla voce tonante, dalla parola chiara, immaginosa, veemente come i torrenti delle sue Alpi. Egli contribuì in modo decisivo a far accettare dalla grande maggioranza le proposte dei riformatori, che furono formulate in tanti articoli d'una dichiarazione di fede. Ci fu bensì una minoranza di Barba che stimavano tali innovazioni non necessarie; ma, dopo il voto, questi conservatori finirono col piegarsi dinanzi al parere dei più, desistendo da ogni opposizione.

Il Sinodo di Chanforan prese inoltre l'importante decisione di stampare una nuova versione francese della Bibbia. Le traduzioni in volgare fino ad allora in uso presso i Valdesi erano insufficenti, sia perchè essendo manoscritte servivano a pochi, sia perchè erano state fatte in base alla Vulgata latina. Farel e Saunier persuasero senza difficoltà i Barba ch'era ormai indispensabile avere una Bibbia riveduta, secondo il testo ebraico e greco. E un patto fu concluso: quelli proposero di fare una revisione della recente traduzione francese di Lefèvre d'Etaples, ed i Valdesi dal canto loro offrirono i mezzi per la stampa, raccogliendo immediatamente cinquecento scudi d'oro.

Così, in questo storico sinodo del 1532, fu votata l'adesione dei Valdesi alla Riforma.

4. La Bibbia di Olivetano 

Dopo il Sinodo di Chianforan, Farel, Saunier e Olivetano erano ritornati, in Svizzerà; ma i due ultimi vi si trattennero poco, che, prima della fine di quel medesimo anno, li vediamo di nuovo nelle valli del Piemonte intenti a predicare e ad insegnare al popolo ed ai ministri.

Come procedeva, intanto, la traduzione della Bibbia, deliberata a Chanforan? Farel che con Viret aveva ricevuto l'incarico di rivedere quella di Lefèvre d'Etaples, non trovava tempo per simile lavoro, che richiedeva molta tranquillità e disposizioni speciali; e Farei era più che erudito, predicatore popolare e uomo d'azione. Il fatto sta che lo stampatore di Neuchatel era pronto ma aspettava invano il manoscritto, e i Valdesi che avevano fornita la somma occorrente per le spese di stampa incominciavano a lagnarsi di questo ritardo. L'edizione finì per costare 1.500 scudi d'oro, tutti forniti dai Valdesi.

Allora l'incarico passò al cugino di Giovanni Calvino, Pietro Robert, detto Olivetano [Sembra che il soprannome di Olivetano gli fosse dato per indicare forse la mitezza e l'unzione del suo carattere o forse il suo grande amore per lo studio, per cui consumava molto olio nella lucerna], uomo di solida cultura e di grande modestia, il quale, abbandonata l'idea di una semplice revisione, pensò di fare una vera e propria traduzione dal testo originale. A quest'opera importantissima egli attese dal 1533 al 1535 nella quiete di un remoto villaggio delle Valli, dove insegnava. La dedica è infatti datata «dalle Alpi, il 12 febbraio 1535». Nella commovente prefazione, rivolgendosi alla Chiesa Evangelica in generale, Olivetano si esprime così: «Il popolo che ti dona questo presente è stato al bando per più di trecento anni e diviso da te. E' stato reputato il più malvagio che fosse mai. Le genti si servono ancora del suo nome per vituperio. Nondimeno, esso è il vero popolo paziente che con fede e carità vinse in silenzio ogni assalto. Non lo riconosci ? E' il tuo fratello il quale, come Giuseppe, non si può più trattenere dal darsi a conoscere a te».

Così i Valdesi furono non i debitori, ma bensì i donatori della prima Bibbia ai Riformati di lingua francese; i quali tanto l'apprezzarono che, prima che finisse il secolo, ne fecero non meno di cinquanta ristampe.

5. Il culto pubblico. Grande attività evangelizzatrice

Abbiamo veduto che, fra le deliberazioni prese dal Sinodo di Chianforan, c'era stata quella di sostituire un regolare culto pubblico alle riunioni segrete tenute occasionalmente dai Barba. Ma perché questo progetto potesse effettuarsi occorreva un certo numero d'anni di preparazione: il popolo, anzitutto, doveva comprender bene la necessità delle assemblee pubbliche, ed a ciò Io preparava la progressiva diffusione della Bibbia di recente tradotta e pubblicata; i ministri, poi, dovevano essere accuratamente istruiti in vista della predicazione e dell'opera pastorale stabile, che veniva ad aggiungersi ed a sostituirsi gradatamente alla missione itinerante dei Barba.

Allo scopo di provvedere a tale necessità, Martino Gonin si rimise ancora una volta in viaggio e si recò a Ginevra per conferire con Farel e con altri ministri della città. E Ginevra diventò il vivaio della missione riformata in Italia; nel suo Collegio accoglieva e preparava gli studenti, e mandava del continuo pastori, maestri e colportori, tanto nelle Valli Valdesi quanto nel resto della penisola, ovunque più urgente si manifestava il bisogno. La direzione di questa missione fu assunta da Calvino stesso; non è però a dire quanti ostacoli si avessero a superare per le comunicazioni, sebbene la persecuzione in Piemonte abbia avuto una tregua di ventitré anni, durante l'occupazione francese. Finalmente nel 1555 il culto pubblico potè essare inaugurato in val d'Angrogna, con la erezione dei templi del Serre, di San Lorenzo, del Ciabas per i fratelli di San Giovanni, dei Coppieri per quei di Torre Pellice. L'esempio venne seguito dalle altre più importanti località delle valli di Luserna, di Perosa e di San Martino, di modo che si ebbero nel 1557 non meno di dodici pastori a posto fisso nelle Valli Valdesi, il nome dei quali ci è stato tramandato.

Questo periodo di graduale applicazione dei principi votati dal sinodo di Chanforan si chiuse con l'adozione di una disciplina ecclesiastica conforme, nelle sue grandi linee, a quella delle Chiese Riformate della Svizzera (1558). L'adesione alla Riforma era così un fatto compiuto.

Fu questo altresì un periodo d'intensa attività evangelizzatrice. Nelle Valli italiane ed in alcune località del marchesato di Saluzzo si contavano oltre trenta pastori e circa quaranta mila fedeli; e se si aggiungono quelli del Delfinato di Provenza, delle Puglie e della Calabria, il loro numero sale ad assai più di cinquantamila, nonostante le forti perdite sofferte in Francia a motivo delle nuove persecuzioni.

Non ci è possibile parlare delle comunità riformate che andavano moltiplicandosi nella pianura piemontese. Torino ne ebbe due, una di lingua italiana e l'altra di lingua francese, ed un ministro andava evangelizzando di casa in casa. Ce n'erano a Chieri, vecchio nido di dissidenti, dove i riformati erano così numerosi che la si considerava come una piccola Ginevra; a Busca, a Racconigi, a Cuneo, a Dronero i proseliti tenevano culto regolare. E così più giù, fino in fondo alla penisola il buon seme veniva sparso da numerosi e grandi riformati italiani che, profughi a Ginevra, spesso ritornavano in patria ad evangelizzarla. Non pochi di questi ferventi e nobilissimi cristiani sapevano di andare incontro al martirio, ma nulla valeva a trattenerli. «E' incredibile l'impeto e lo zelo con cui i nostri giovani si consacrano al progresso dell'evangelo — scriveva Calvino. — Chiedono di servire le chiese sotto la croce con l'avidità che spinge altri a sollecitare benefici presso il papa... ».