Letteratura/Istituzione/2-03

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Istituzioni della religione cristiana (Calvino)

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CAPITOLO III

TUTTO QUELLO CHE LA NATURA CORROTTA DELL'UOMO PRODUCE È DEGNO DI CONDANNA

1. La natura umana sarà meglio conosciuta nei suoi due aspetti in base alla definizione della Scrittura: l'uomo nella sua totalità è descritto dalle parole del Signore: "Quel che è nato dalla carne è carne" (Gv. 3.6); se ne può dedurre facilmente che è ben misera creatura. Ogni desiderio della carne infatti è morte, come testimonia l'Apostolo, essendo inimicizia verso Dio; essa non è soggetta e non può esserlo, alla Legge di Dio (Ro 8.6-7). Se la carne è tanto perversa da esercitare tutta l'inimicizia di cui è capace verso Dio; se essa non può consentire con la giustizia divina; se essa insomma non può che produrre materia di morte, come potremo trarre dall'uomo qualche goccia di bene, sapendo che nella natura di lui non vi è che carne?

Ma qualcuno dirà: questo vocabolo si riferisce solo all'uomo sensuale e non alla parte superiore dell'anima. Rispondo che questo e facilmente refutato dalle parole di Cristo e dell'Apostolo. L'insegnamento del Signore è che l'uomo deve rinascere perché è carne (Gv. 3.6-7). Egli non desidera che rinasca secondo il corpo. Non si può dire che l'anima rinasce se qualche elemento ne viene corretto, ma solo se è interamente rinnovata. Questo è confermato dalla contrapposizione presentata in questo passo, come in quello di san Paolo. Lo spirito è nettamente contrapposto alla carne e nulla rimane in mezzo. Tutto quello che non è spirituale nell'uomo è dunque carnale, secondo questa motivazione. Ora non abbiamo neanche una sola goccia di questo spirito, se non attraverso la rigenerazione. Dunque tutto quello che abbiamo per natura è carne.

Se vi fosse ancora qualche dubbio, san Paolo ce ne dà la soluzione quando, dopo aver descritto il vecchio uomo che dice essere stato corrotto da colpevoli concupiscenze, ci prescrive di essere rinnovati nello spirito della nostra anima (Ef. 4.23). Ognuno vede che egli non colloca le malvagie concupiscenze nella parte sensitiva solamente, ma nello stesso intelletto e perciò ordina che sia rinnovato.

Infatti poco prima aveva presentato una tale descrizione della natura umana, da doverne concludere che siamo corrotti e perversi in tutte le nostre parti. L'affermazione che tutti camminano nella vanità dei propri sensi, hanno l'intelligenza accecata e sono lontani dalla vita di Dio a causa della propria ignoranza e dell'accecamento del cuore (Ef. 4.17- 18) , senza dubbio si riferisce a tutti coloro che Dio non ha ancora riformato alla rettitudine della sua sapienza e della sua giustizia. Questo è anche dimostrato dal paragone susseguente quando ammonisce i credenti dicendo che non hanno imparato Cristo. Possiamo concludere da queste parole che la grazia di Gesù Cristo è il rimedio unico per liberarci da questo accecamento e dai mali conseguenti.

Isaia lo aveva profetizzato a proposito del regno di Cristo, dicendo che mentre le tenebre avrebbero coperto la terra e l'oscurità avrebbe regnato sui popoli, il Signore sarebbe una luce perpetua per la sua Chiesa (Is. 60.2). Se la luce del Signore splenderà solo nella Chiesa, fuori di essa non restano che tenebre e cecità.

Non elencherò dettagliatamente tutto quello che è detto della vanità dell'uomo da Davide e da tutti i profeti. Ma nei Sl. abbiamo una definizione degna di nota: se l'uomo fosse messo sulla bilancia con la vanità, ne risulterebbe ancora più vano (Sl. 62.10). È una grave condanna dell'ingegno umano; tutte le riflessioni che ne procedono sono derise come sciocche, frivole, sregolate e perverse.

2. La condanna del "cuore" non è meno radicale, quando è detto pieno di frode e di perversità più di ogni altra cosa (Gr. 17.9). Intendo però essere breve e mi accontenterò di una citazione, che come uno specchio tersissimo ci farà contemplare pienamente l'immagine della nostra natura. Quando l'Apostolo vuole annientare l'arroganza del genere umano fa queste dichiarazioni: "Non v'è nessun giusto, neppure uno; nessuno che cerchi Iddio; tutti hanno errato, tutti sono inutili' nessuno opera il bene, neanche uno solo; la loro bocca è un sepolcro aperto, le loro lingue sono infide, veleno d'aspide è sotto le loro labbra, la loro bocca è piena di maldicenza e di amarezza, i loro piedi sono veloci nello spargere il sangue; nelle loro vie non c'è che perdizione e dissipatezza; davanti ai loro occhi non v'è timore di Dio", (Ro 3.10; Sl. 14.1-3.53.2-4). Colpisce con queste parole severe non alcuni uomini ma tutta la discendenza di Adamo. E non rimprovera i costumi corrotti di un periodo particolare, ma accusa la corruzione costante della nostra natura. In questo passo non è sua intenzione riprendere gli uomini onde correggano le proprie tendenze, ma piuttosto insegnare loro che tutti, dal primo all'ultimo, sono inseriti in una situazione tale da non poterne uscire se non sono liberati dalla misericordia di Dio. Questo non si poteva mostrare se non facendo vedere come la nostra natura sia caduta in tale rovina; egli quindi presenta queste testimonianze in cui è mostrato come la nostra natura sia più che perduta.

Questo rimanga dunque chiaro: gli uomini sono quali san Paolo li descrive non solo per costume perverso, ma anche per naturale perversità. Altrimenti il suo ragionamento non si giustificherebbe; è per mostrare che abbiamo salvezza solo nella misericordia di Dio, dato che ogni uomo di per se è perduto e disperato. Non mi preoccupo qui di valutare la pertinenza delle' citazioni: prendo queste frasi come se fossero state pronunciate direttamente da lui e non citate dai profeti.

In primo luogo nega all'uomo la giustizia, vale a dire l'integrità e la purezza; poi l'intelligenza, la cui mancanza si dimostra nel fatto che tutti gli uomini si sono allontanati da Dio, mentre cercarlo è il primo elemento della sapienza. Ne seguono i frutti dell'infedeltà: tutti si sono allontanati diventando corrotti al punto che neanche uno opera il bene. Inoltre aggiunge tutte le malvagità con cui quelli che sono caduti nell'ingiustizia, macchiano e infettano le membra del proprio corpo. Infine dichiara che tutti gli uomini sono privi del timore di Dio, al quale invece avremmo dovuto misurare tutte le nostre azioni.

Se tali sono le ricchezze ereditarie del genere umano, invano cercheremo qualche bene nella nostra natura! Riconosco che non tutte queste malvagità appaiono in ogni uomo, ma nessuno può negare che ognuno ne abbia la semenza in se stesso. Un corpo che abbia già in se la causa e i germi di una malattia non può dirsi sano, anche se la malattia non si è ancora manifestata e mancano i sintomi del male; analogamente non si può dire sana l'anima che contiene tali impurità. Ma questa similitudine non è del tutto pertinente. Il corpo infatti, anche se viziato, non è privo del suo vigore e della sua vita: ma l'anima, sprofondata in questo abisso di iniquità, non è solo viziosa ma anche priva di ogni bene.

3. Sorge poi una questione analoga. In ogni secolo vi sono stati uomini che, ispirati dalla propria natura, hanno ricercato la virtù durante tutta la loro vita, e quand'anche ci sia molto da ridire sui loro costumi, tuttavia hanno mostrato, con quel desiderio di onestà, che una qualche purezza sussisteva nella loro natura. Spiegheremo più ampiamente il valore di queste virtù davanti a Dio quando tratteremo del merito delle buone opere; per il momento dobbiamo dire quanto è necessario in relazione all'argomento che stiamo trattando.

Questi esempi dunque ci ricordano che non dobbiamo ritenere completamente viziata la natura dell'uomo, dato che, seguendone gli impulsi, alcuni hanno compiuto numerosi atti eccellenti e si sono condotti onestamente per tutto il corso della loro vita. Ma dobbiamo considerare che nella corruzione universale di cui abbiamo parlato, la grazia di Dio si manifesta in qualche modo, non per correggere la perversità della natura, ma per reprimerla e per frenarne la manifestazione. Se Dio permettesse a tutti gli uomini di seguire liberamente i propri desideri, si vedrebbe, per esperienza, che tutti possiedono tutti i vizi che san Paolo denuncia nella natura umana. E chi potrebbe separarsi dall'umanità nel suo complesso? Questo bisognerebbe fare per non essere colpiti dalle accuse che san Paolo rivolge contro di lei: i loro piedi sono rapidi nello spargere sangue, le loro mani macchiate di rapine e di omicidi, le loro bocche simili e sepolcri aperti, le lingue infide, le labbra velenose, le opere inutili, inique, corrotte, mortali, i cuori senza Dio, ripieni di malizia, con occhi pronti all'imboscata, i cuori pronti all'oltraggio; insomma tutte le loro parti pronte a fare il male (Ro. 3.10). Se ogni anima e soggetta a questi vizi mostruosi, come l'Apostolo dichiara esplicitamente, ci rendiamo conto di cosa accadrebbe se il Signore lasciasse libero corso alla cupidigia umana! Nessuna fiera è così sfrenata nella sua furia, nessun fiume sia pur violento, trabocca in modo altrettanto impetuoso.

Questi mali sono cancellati dal Signore nei suoi eletti nel modo che esporremo: nei reprobi essi sono solamente repressi come con una briglia onde non dilaghino, secondo quanto Dio sa essere utile per la conservazione del mondo. Di conseguenza alcuni per vergogna, altri per timore delle leggi, sono trattenuti dall'abbandonarsi a molte malvagità; sebbene in parte non dissimulino i loro desideri malvagi. Altri ancora, ritenendo vantaggiosa una vita onesta la desiderano in qualche modo. Altri infine, vanno più in là e rivelano qualità particolari per trattenere il popolo nella sottomissione con la loro superiorità morale. In questo modo il Signore limita la perversità della nostra natura con la sua provvidenza affinché essa non esca dai cardini; senza però purificarla interiormente.

4. Qualcuno potrà osservare che questo non risolve la questione. Infatti o consideriamo Catilina simile a Camillo, oppure abbiamo in Camillo un esempio che la natura, quando è ben condotta, non è del tutto sprovvista di bontà.

Ammetto che le virtù proprie di Camillo sono state doni di Dio e potrebbero essere considerate lodevoli, se valutate in se stesse: ma come potranno considerarsi segni di una naturale probità? Per dimostrarlo bisogna ritornare al cuore seguendo questo ragionamento: se un uomo naturale è stato dotato di tale integrità di cuore, l'aspirazione al bene non è dunque assente nella natura umana: ma che avviene se il cuore pur essendo perverso e falso tuttavia ricerca la rettitudine? Se diciamo trattarsi di uomo naturale, non c'è dubbio che il suo cuore rispondeva a questi caratteri.

Ora, quale capacità di fare il bene possiamo attribuire alla natura umana, se anche nella massima integrità, essa risulta tendere sempre alla corruzione? Di conseguenza, non si loderà come virtuoso un uomo i cui vizi siano travestiti da virtù, né si attribuirà alla volontà umana la facoltà di desiderare il bene, fin quando rimanga confitta nella sua perversità.

Del resto, la soluzione più sicura e facile è riconoscere che queste virtù non fanno parte della natura, ma costituiscono grazie speciali del Signore, che le distribuisce anche ai malvagi secondo il modo e la misura che determina. Per questo motivo nel linguaggio corrente non esitiamo a dire che uno è nato bene e un altro male, uno è di natura buona e l'altro di natura malvagia, e tuttavia includiamo gli uni e gli altri nella condizione universale della corruzione umana. Ma vogliamo indicare la grazia che Dio ha dato particolarmente all'uno e ha negato all'altro. Volendo stabilire Saulo quale re, lo ha quasi rifatto uomo nuovo (1 Re 10.6).

Ecco perché Platone, alludendo alla favola di Omero, asserisce che i figli dei re sono composti di una materia preziosa per essere distinti dalla gente comune, Dio, volendo provvedere al genere umano, dota di singolari virtù quelli che innalza alle massime dignità. Ed infatti di qui sono usciti tutti gli uomini valorosi ed eccellenti che le storie celebrano. Lo stesso si deve dire riguardo ai privati. Ma quanto più uno è eccelso, tanto più è stato spinto dalla sua ambizione, la quale macchia tutte le virtù e le fa perdere ogni grazia di fronte a Dio; quello che appare degno di lode alla gente profana deve dunque essere tenuto in nessun conto.

Inoltre, quando manca il desiderio di glorificare Dio, manca la parte essenziale di ogni rettitudine. Ora è certo che mancano di questo bene e ne sono privi tutti coloro che non sono rigenerati. Non invano Isaia dice che lo spirito di timore dell'Eterno riposerà su Gesù Cristo (Is. 11.3). Con questo indica che chi è estraneo a quest'ultimo, sarà anche privo di questo timore, che è il principio della sapienza (Sl. 111.10).

Le virtù che ingannano con vana apparenza saranno molto lodate dalla società e dall'opinione popolare: ma nel tribunale di Dio non valgono una pagliuzza per acquistare giustizia.

5. La volontà dunque, essendo legata e tenuta prigioniera nella servitù del peccato, non può in alcun modo desiderare il bene e tanto meno applicarvisi. Se lo facesse, sarebbe l'inizio della nostra conversione a Dio, che la Scrittura attribuisce esclusivamente alla grazia dello Spirito Santo. Così Geremia prega Dio che lo converta se vuole che sia convertito (Gr. 31.18). Per questo motivo il Profeta nello stesso capitolo, descrivendo la redenzione spirituale dei credenti, dice che sono stati riscattati dalla mano di uno più forte, mostrando con questa espressione quanto strettamente il peccatore sia legato, nel tempo in cui lontano da Dio rimane sotto il giogo del Diavolo. Tuttavia all'uomo rimane sempre la volontà, che per tendenza propria è propensa a peccare, anzi vi si affretta. Quando l'uomo è caduto in questa necessità, non è stato spogliato della sua volontà ma di una "sana" volontà.

San Bernardo non si esprime impropriamente quando dice che il volere e in tutti gli uomini, ma volere il bene è per riparazione, volere il male, per nostra volontà, semplicemente volere è dell'uomo, volere il male è della natura corrotta, volere il bene è della grazia. Nessuno trovi strano che io dica la volontà essere priva di libertà e necessariamente volta al male, perché non è affatto assurda ed è stata usata dagli antichi dottori.

Alcuni si lamentano che non c'è possibilità di distinguere tra "necessità" e "costrizione"; ma a chi chiedesse loro se Dio non è necessariamente buono e il Diavolo necessariamente cattivo, che cosa risponderebbero? Certamente la bontà di Dio è legata alla sua divinità, di sorta che non è per lui necessario essere buono che essere Dio. E il Diavolo con la sua caduta si è talmente alienato ogni comunione del bene che non può far altro che agire male.

Ora, se qualche bestemmiatore mormora che Dio non merita lode per la sua bontà, dato che è costretto a mantenerla, la risposta sarà facile. L'impossibilità di agire male deriva in lui dalla sua bontà infinita, non da una costrizione violenta. Se la necessità di fare il bene non impedisce alla volontà di Dio di essere libera nel fare il bene: se il Diavolo pecca volontariamente, sebbene non possa che operare il male, chi dirà il peccato non essere volontario nell'uomo, perché questi è soggetto alla necessità di peccare?

Sant'Agostino insegna ovunque questa necessità e non cessa dall'affermarla anche quando Celestio calunniava tale dottrina per renderla odiosa. Adopera queste parole: l'uomo è caduto in peccato a causa della propria libertà: la corruzione che ne è seguita ha fatto della libertà necessità. E ogni volta che tocca questo argomento dichiara senza ambagi che v'è in noi una necessaria servitù al peccato. Dobbiamo dunque rilevare questa distinzione: l'uomo dopo essere stato corrotto dalla caduta, pecca volontariamente e non malgrado il proprio cuore o per costrizione; pecca per inclinazione e non perché gli si faccia violenza: pecca mosso dalla propria cupidigia e non per pressione esterna: e nondimeno la sua natura è così perversa che egli non può che essere mosso, spinto o condotto al male. Se questo è vero, è chiaro che egli è soggetto alla necessità di peccare.

San Bernardo, accettando la dottrina di sant'Agostino, così si esprime: "Solo l'uomo è libero tra gli animali e tuttavia, essendo sopravvenuto il peccato, egli subisce qualche pressione, nel campo della volontà e non della natura; di sorta che non è privato della libertà che ha per nascita, poiché quello che è volontario è anche libero". E poco dopo: "La volontà, essendo volta al male dal peccato, si impone una necessità, in modo incomprensibile e perverso; questa essendo volontaria non può scusare la volontà e la volontà così allettata non può escludere la necessità, poiché questa necessità è come volontaria". In séguito dice che siamo oppressi da un giogo, ma di volontaria servitù; e di conseguenza, riguardo alla servitù siamo miserabili, riguardo alla volontà siamo inescusabili, dato che questa essendo libera si è fatta serva del peccato. Finalmente conclude: "L'anima dunque, sotto questa necessità volontaria e in libertà perniciosa, è divenuta serva e rimane libera, in modo strano e assai malvagio: serva per la necessità, libera per la volontà. E quel che è più stupefacente e più miserabile, essa è colpevole perché è libera ed è serva perché è colpevole. E così è serva perché è libera".

Da queste testimonianze risulta che io non propongo nulla di nuovo ma ripeto quello su cui consentivano i santi dottori, che sant'Agostino ci ha lasciato per iscritto, ed è stato accettato per più di mille anni nei conventi dei monaci.

Il Maestro delle Sentenze non avendo saputo distinguere tra "costrizione" e "necessità" ha aperto la porta a questo errore, diventato peste mortale nella Chiesa: pensare che l'uomo possa evitare il peccato perché pecca liberamente.

6. È utile al contrario, considerare quale sia il rimedio della grazia divina attraverso il quale la nostra perversità è corretta e guarita. Il Signore aiutandoci, ci accorda quanto ci manca: quando sarà evidente la sua opera in noi, allora per contrasto potremo facilmente intendere quale sia la nostra miseria.

L'Apostolo dice ai Filippesi di nutrire fiducia che colui che ha incominciato in loro una buona opera la condurrà a termine fino al giorno di Gesù Cristo (Fl. 1.6) : non c'è dubbio che per "inizio di una buona opera "intenda l'origine della loro conversione, il volgersi a Dio della loro volontà. Il Signore dunque inizia in noi la sua opera ispirando nei nostri cuori l'amore, il desiderio e l'applicazione del bene e della giustizia o, per esprimerci più propriamente, volgendo, formando e indirizzando i nostri cuori alla giustizia. Termina la sua opera confermandoci nella perseveranza. E onde nessuno cavilli che il bene è "iniziato" in noi da Dio e che la nostra volontà, di per se troppo inferma, è solo "aiutata" da lui, lo Spirito Santo in un altro passo espone quanto valga la nostra volontà abbandonata a se stessa: "Io vi darò un cuore nuovo" dice "creerò in voi uno spirito nuovo; toglierò il cuore di pietra che è in voi e ve ne darò uno di carne; metterò in voi il mio Spirito e vi farò camminare nei miei comandamenti" (Ez. 36.26-27). Chi oserà dire che solo l'infermità della volontà umana è corretta affinché aspiri virtuosamente a scegliere il bene, quando vediamo che essa deve essere completamente riformata e rinnovata? Se la pietra è così molle che maneggiandola la si può formare a piacimento, non nego che il cuore dell'uomo abbia qualche facilità e inclinazione a obbedire a Dio, sol che la sua debolezza sia fortificata. Ma se il Signore ha voluto mostrare con questa similitudine che è impossibile trarre il bene dal nostro cuore, a meno che esso non sia costruito completamente diverso, allora non possiamo spartire tra lui e noi il merito che egli attribuisce solamente a se stesso.

Se quando il Signore ci converte al bene è come se si trasformasse una pietra in carne, è certo che quanto appartiene alla nostra propria volontà è annullato, e quanto vi succede viene da Dio. Dico che la volontà è abolita non in quanto essa è "volontà", perché nella conversione dell'uomo quanto appartiene alla natura originaria permane. Dico anche che essa è creata "nuova", non perché incominci ad essere volontà, ma perché è trasformata da cattiva in buona. Dico che tutto questo è compiuto interamente da Dio perché, l'Apostolo ne è testimone, non siamo capaci di concepire un solo pensiero buono (2 Co. 3.5). A questo corrisponde quanto detto altrove: non solo Dio aiuta e soccorre la nostra debole volontà e ne corregge la malvagità, ma crea e mette in noi il volere (Fl. 2.13). È facile dedurne quanto ho asserito: tutto il bene che si trova nel cuore umano è opera della pura grazia.

Ancora in questo senso afferma altrove che Dio fa ogni cosa in tutti (1 Co. 12.6). Egli non discute quivi del governo universale del mondo, ma sostiene che la lode per tutti i beni che si trovano nei credenti deve essere riservata a Dio solo. Dicendo: "ogni cosa", considera Dio autore della vita spirituale in tutta la sua estensione. Aveva espresso in precedenza lo stesso concetto con altre parole, dicendo: i credenti sono da Dio, mediante Gesù Cristo (1 Co. 8.6); qui presenta una nuova creazione in cui è annullato quanto appartiene alla comune natura.

Egli formula anzi un paragone, presentando Gesù Cristo come l'antitesi di Adamo, ed in un altro passo lo sviluppa più chiaramente: siamo l'opera di Dio, essendo stati creati in Gesù Cristo in vista delle buone opere preparate perché camminassimo in esse (Ef. 2.10). Con questo ragionamento vuole dimostrare che la nostra salvezza è gratuita, dato che la sorgente di ogni bene è nella seconda creazione che otteniamo in Gesù Cristo. Se vi fosse in noi la minima facoltà, vi sarebbe anche una porzione di merito; ma per svuotarci completamente egli afferma che non abbiamo potuto meritare nulla, dato che siamo creati in Gesù Cristo per fare le buone opere che Dio ha preparato. Con questo indica di nuovo che dal primo moto fino all'estrema perseveranza, il bene che facciamo viene da Dio in tutte le sue parti.

Per lo stesso motivo il Profeta, dopo aver detto nel Salmo che siamo opera di Dio, onde nessuno incominci a operare suddivisioni, aggiunge subito: "Egli ci ha fatti; non siamo noi che ci siamo fatti" (Sl. 100.3). Dal filo del ragionamento appare che parla della rigenerazione: infatti subito dopo aggiunge che siamo il popolo di Dio e il gregge del suo pascolo. Vediamo che non si è accontentato di attribuire a Dio la lode per la nostra salvezza, ma ci esclude da ogni cooperazione, quasi dicesse: essendo il gregge di Dio, gli uomini non hanno di che gloriarsi neppure un briciolo, perché tutto viene da Dio.

7. C'è forse chi è disposto ad ammettere che la volontà dell'uomo, di per se ostile, è convertita alla giustizia e alla rettitudine dalla sola potenza di Dio; ma che essa, dopo essere stata preparata, agisce per conto proprio, secondo quanto dice sant'Agostino che la grazia precede ogni buona opera e che la volontà operante il bene è condotta dalla grazia e non la conduce, segue e non precede. Questa affermazione in se non contiene nulla di male, ma è stata travisata dal Maestro delle Sentenze.

Considero che sia nelle parole del Profeta, già citate, sia in altri passi analoghi, vi siano due cose da notare: Il Signore corregge, anzi annulla, la nostra perversa volontà, indi ce ne dà, per parte sua, una buona. Essendo la nostra volontà prevenuta dalla grazia, ammetto si possa dire che essa "segue", essendo però opera di Dio, per il fatto che deve essere riformata, non è possibile attribuire all'uomo il fatto di andare incontro, con la propria volontà, alla grazia preveniente.

Non è quindi giusta l'affermazione di san Crisostomo, secondo cui la grazia non può nulla senza la volontà, così come la volontà non può nulla senza la grazia; quasi la volontà non fosse generata e formata dalla grazia, come abbiamo visto essere affermato da san Paolo.

Passando a sant'Agostino, egli non aveva l'intenzione di dare alla volontà umana una parte della lode per le buone opere quando la chiama "ancella della grazia": intendeva solo refutare la malvagia dottrina di Pelagio che vedeva nei meriti dell'uomo la causa prima della salvezza. Ma in accordo con questo proposito dimostra che la grazia precede tutti i meriti, tralasciando la questione del suo effetto perpetuo su di noi, che tratta molto bene altrove. Quando ripete più volte che il Signore previene colui che non vuole onde voglia, e assiste colui che vuole onde non voglia invano, lo costituisce autore unico di ogni bene.

Del resto nei suoi scritti vi sono tante affermazioni chiare su questo argomento che non c'è bisogno di ulteriori argomentazioni. "Gli uomini" egli dice "si affannano a trovare nella nostra volontà qualche bene che ci appartenga, e non sia di Dio; ma non so come potranno trovarcelo". Parimenti nel primo libro contro Pelagio e Celestio, commentando la frase di Gesù: "Chi ha udito il Padre, viene a me" (Gv. 6.45) , dice: "La volontà dell'uomo è aiutata non solo a sapere quel che deve fare, ma una volta saputolo, a farlo. E così quando il Signore insegna, non secondo la lettera della Legge, ma per la grazia del suo Spirito, insegna non solo in modo che ognuno impari a riconoscerlo, ma anche a perseguirlo e a tradurlo in opera".

8. Siamo così giunti al cuore del problema: trattiamo la cosa sinteticamente e documentiamo le nostre affermazioni con le testimonianze della Scrittura. Successivamente, onde nessuno possa affermare che travisiamo la Scrittura, mostriamo che la verità da noi sostenuta è stata insegnata anche da una santa persona, intendo dire sant'Agostino. Non penso sia utile elencare uno dopo l'altro tutti i passi che si possono riscontrare nella Scrittura per sostenere la nostra tesi: è sufficiente scegliere quelli che possono illustrare la comprensione degli altri. D'altra parte penso che non sarà male mostrare chiaramente la mia concordanza con quel sant'uomo, che giustamente la Chiesa venera.

È evidente per motivo chiaro ed esplicito che l'origine del bene è solamente in Dio: infatti solo la volontà degli eletti è propensa al bene. La causa dell'elezione deve essere cercata al di fuori degli uomini: ne segue che nessuno ha volontà retta di per se stesso e che essa gli perviene dallo stesso gratuito beneplacito per il quale siamo eletti prima della creazione del mondo.

Vi è un'altra ragione quasi simile. Se l'origine del volere e dell'agire rettamente viene dalla fede, bisogna sapere da dove venga la fede stessa. Ora, siccome la Scrittura attesta ovunque in modo esplicito che si tratta di un dono gratuito, ne segue che cominciamo a volere il bene per pura grazia: noi, dico, che naturalmente siamo dediti al male con tutto il cuore.

Quando dunque il Signore dichiara queste due cose relativamente alla conversione del suo popolo: che gli toglierà il suo cuore di pietra e gliene darà uno di carne, manifesta chiaramente la necessità che tutto quello che è nostro sia annullato per condurci al bene, e che tutto quello che vi è sostituito, provenga dalla sua grazia.

Questo non è dichiarato una sola volta; si legge anche in Geremia: "Darò loro un cuore solo ed una via unica, affinché mi temano per tutta la vita e poi metterò il timore del mio nome nei loro cuori affinché non si allontanino da me" (Gr. 32.39). Così in Ezechiele: "Darò a tutti lo stesso cuore e creerò in loro uno spirito nuovo. Toglierò il loro cuore di pietra e darò loro un cuore di carne" (Ez. 11.19). Non potrebbe sottrarci meglio la lode di quanto è buono ed integro nella nostra volontà per attribuirla a se stesso, che definendo la nostra conversione: creazione di un nuovo spirito e di un nuovo cuore. Ne consegue infatti, ancora una volta, che nulla di buono può procedere dalla nostra volontà fino a quando non sia stata riformata; e in secondo luogo che tale trasformazione, in quanto buona, non può essere opera nostra ma solo opera di Dio.

9. In questo senso deve intendersi la preghiera dei santi, ad esempio quella di Salomone: "Il Signore inclini a se i nostri cuori onde lo temiamo e osserviamo i suoi comandamenti" (2 Re 8.58). Egli denuncia in questo modo la pervicacia del nostro cuore che dichiara essere naturalmente ribelle a Dio e alla sua legge, fin che non sia piegato al contrario. Lo stesso è detto nel Salmo: "O Dio, inclina il mio cuore ai tuoi statuti!" (Sl. 119.36). È da notare l'antitesi tra la perversità che ci spinge al male e alla ribellione contro Dio, e il cambiamento che ci conduce a servirlo.

Quando Davide, sentendo di essere stato privato per un tempo della guida della grazia di Dio, domanda al Signore di creare in lui un cuor nuovo e di rinnovare in lui uno spirito diritto (Sl. 51.12) , non riconosce forse che tutte le parti del suo cuore sono piene di impurità e di corruzione e che il suo spirito è interamente perverso? Inoltre, definendo la purezza che desidera "creazione di Dio", gliene attribuisce tutto il merito.

Se qualcuno obbietta che questa preghiera è espressione di un sentimento buono e santo, la risposta è facile: Davide, già in parte ricondotto sul buon cammino, paragona l'orribile abisso nel quale era sprofondato e che aveva esperimentato, con la sua situazione primitiva. Assumendo così la parte dell'uomo lontano da Dio, non senza motivo chiede che venga adempiuto in se stesso quanto Dio offre ai suoi eletti rigenerandoli. E di conseguenza, essendo come morto desidera essere creato di nuovo onde, da schiavo di Satana qual era, divenga strumento dello Spirito Santo.

Il nostro orgoglio è davvero stupefacente! Nulla ci è chiesto da Dio con tanta insistenza quanto l'osservanza del riposo, cioè l'interruzione delle nostre opere, e nulla ci costa maggiore difficoltà quanto la rinuncia a tutte le nostre opere per dar luogo alle sue. Se il nostro impulso non ce lo impedisse, il Signor Gesù ci ha fatto chiaramente conoscere le sue grazie perché esse non siano oscure. "Io sono" egli dice "la vigna, voi siete i tralci e mio Padre è il vignaiolo. Come il tralcio non può dar frutto da se se non rimane sulla vite, così voi, se non dimorate in me; senza di me non potete far nulla" (Gv. 15.1). Se da soli non portiamo frutto, come un ceppo strappato dalla terra e privo di linfa, non c'è più bisogno di chiederci quali siano le possibilità della nostra natura di operare il bene. Ne è ambigua la conclusione: senza lui non possiamo far nulla. Non dice che siamo infermi al punto da non poter bastare al compito, ma ci riduce al nulla assoluto, escludendo anche l'immaginazione di una qualche capacità. Se una volta innestati in Cristo fruttifichiamo, come un tralcio che trae vigore dall'umidità della terra, dalla rugiada del cielo e dal calore del sole, mi sembra che non ci resta alcun elemento in tutte le buone opere, se vogliamo conservare interamente a Dio il suo onore.

Invano si ricorre al cavillo di dire che un qualche succo è contenuto nel ceppo e gli farà produrre frutto: e di conseguenza che esso non prenderebbe tutto dalla terra o dalla radice originaria ma apporterebbe qualcosa di proprio. Gesù Cristo intende dire invece che siamo legno secco e sterile e di nessun valore non appena siamo separati da lui, né si troverà in noi alcuna capacità di fare il bene; come dice altrove: ogni albero che non è stato piantato dal Padre sarà strappato (Mt. 15.13).

Per questo l'Apostolo gliene attribuisce tutta la lode, dicendo: "È Dio che opera in noi il volere e l'operare" (Fl. 2.13). Il primo elemento delle buone opere è la volontà; l'altro è lo sforzo di attuarle e la possibilità di farlo. Dio è l'autore dell'una e dell'altra cosa. Ne consegue che se l'uomo si attribuisce qualcosa nella volontà o nell'esecuzione, sottrae qualcosa a Dio. Se fosse detto che Dio dà aiuto alla nostra volontà inferma, qualcosa ci sarebbe lasciato; ma quando è detto che crea la volontà, questo mostra che tutto quel che vi è di buono viene da fuori di noi. E poiché la stessa buona volontà è impedita e oppressa dalla pesantezza della nostra carne, dice che per sormontare ogni difficoltà il Signore ci dà la costanza e la capacità di compiere.

È vero quanto insegna altrove: non vi è che un solo Dio, il quale opera ogni cosa in tutti (1 Co. 12.6) , e, come abbiamo prima dimostrato, questo include tutto il corso della vita spirituale. Per questo motivo Davide, dopo aver chiesto a Dio di rivelargli le sue vie, per poter camminare nella verità, aggiunge immediatamente: "Unisci il mio cuore al timor del tuo nome!" (Sl. 86.2). Con questo indica che persino quanti nutrono buoni sentimenti sono soggetti a pericolose distrazioni al punto da venir meno o disperdersi come acqua se non fossero rafforzati nelle perseveranza. In un altro passo, avendo pregato Dio di guidare i suoi passi, aggiunge la richiesta della forza per combattere: "L'iniquità non domini in me!" (Sl. 119.133).

In questo modo dunque, Dio inizia e porta a termine in noi la buona opera: la volontà è incitata dalla sua grazia ad amare il bene, spinta a desiderarlo e mossa a cercarlo e a dedicarvisi; per di più questo amore, questo desiderio e questo sforzo non vengono meno, ma durano fino a tradursi in atto; infine l'uomo persegue il bene e vi persevera fino alla fine.

10. Egli muove la nostra volontà non come si è immaginato ed insegnato per lungo tempo: in modo cioè che successivamente noi saremmo in grado di scegliere di tener dietro alla sua azione oppure opporci ad essa; egli la muove con tale efficacia che essa in séguito è costretta a seguirlo.

Di conseguenza non si può accettare quanto spesso scrive Crisostomo, che Dio attira solo quanti vogliono essere attirati. Con questo intende dire che Dio ci tende la mano e aspetta, se ci sembrerà bene di servirci del suo soccorso. Ammettiamo che, nel tempo in cui l'uomo era integro, la sua condizione gli permettesse di volgersi dall'una oppure dall'altra parte. Ma Adamo ha mostrato con il suo esempio quanto sia povero e miserabile il libero arbitrio se Dio non opera in noi il volere e il fare. Che vantaggio potremo ritrarne, se Dio non ci impartirà la sua grazia? E quando riversa su noi la pienezza della sua grazia, gliene togliamo la lode con la nostra ingratitudine! L'Apostolo non insegna solamente che la grazia di volere il bene ci è offerta, se l'accettiamo, ma che Dio fa e forma in noi il volere: il che equivale a dire che Dio con il suo Spirito dirige, piega e modera il nostro cuore e vi regna come in un suo possesso.

In Ezechiele non solo egli promette di dare un cuor nuovo ai suoi eletti perché possano camminare nei suoi precetti, ma perché vi camminino effettivamente (Ez. 11.19; 36.27). E non si può comprendere altrimenti questa frase di Cristo: "Chi ha udito il Padre, viene a me" (Gv. 6.45) se non nel senso che la grazia di Dio ha di per se l'efficacia di compiere e mettere ad effetto la sua opera, come sant'Agostino sostiene. La qual grazia Dio non concede a chiunque, come invece sostiene il proverbio comune affermando che essa non è negata a chi fa tutto ciò che può fare.

Bisogna certo insegnare che la misericordia di Dio è offerta a chiunque la cerchi, senza eccezione alcuna. Ma poiché in realtà, nessuno comincia a cercarla prima di essere stato ispirato dal cielo, non bisognava sminuire la grazia di Dio in questo punto. Certo il privilegio di essere guidati da Dio, dopo essere stati rigenerati dal suo Spirito, appartiene solo agli eletti.

Per questo sant'Agostino tanto si beffa di coloro che si vantano di desiderare da se il bene, almeno parzialmente, quanto rimprovera coloro che considerano la grazia essere data a tutti, alla rinfusa, mentre essa è pegno della elezione gratuita di Dio. Egli dice che la natura è comune a tutti, non la grazia, e quanti estendono genericamente a tutti, ciò che Dio concede solo per suo beneplacito, dimostrano intelligenza brillante ma fragile come vetro. Parimenti: "Come sei venuto a Cristo? Credendo. Temi dunque di perire ed essere allontanato dalla giusta via, se ti vanti di averla trovata da solo. Se dici di essere venuto con il tuo libero arbitrio e la tua volontà, di cosa ti gonfi? Non vuoi riconoscere che anche questo ti è stato dato? Ascolta colui che ci chiama: Nessuno viene a me se il Padre non lo attira". Ed è facile concludere, con le parole di san Giovanni, che i cuori dei credenti sono guidati dall'alto, con il risultato che seguono un impulso immutabile e teso all'obbedienza. "Chi è da Dio" dice "non può peccare perché il seme di Dio dimora in lui" (1 Gv. 3.9).

Vediamo così escluso questo moto, privo di efficacia, immaginato dai Sofisti, quando dicono: Dio offre solamente la sua grazia in modo che ognuno la accetta o la respinge a suo piacimento. Questa fantasticheria, rispondo, non è né carne né pesce, ed è esclusa dall'affermazione secondo cui Dio ci sostiene nella perseveranza tenendoci lontani dal pericolo di deviare.

11. Né si sarebbe dovuto dubitare che la perseveranza debba essere considerata un dono gratuito di Dio. L'erronea opinione contraria è radicata nel cuore umano: che cioè essa sia dispensata a ciascuno, proporzionatamente al merito, secondo che l'uomo dimostra di non essere ingrato nei riguardi della prima grazia. Questa opinione, nata dalla convinzione che sia in nostro potere rifiutare oppure accettare la grazia di Dio che ci viene presentata, è facile da refutare, dato che tale convinzione si è dimostrata falsa, essendo basata su un duplice errore. Affermano infatti che adoperando bene la prima grazia di Dio meritiamo che con altre grazie successive remuneri il nostro buon uso: aggiungono che la grazia di Dio non è sola ad agire in noi, ma semplicemente coopera.

Quanto al primo punto, bisogna essere certi che il Signore moltiplicando le sue grazie nei suoi servitori e conferendone loro delle nuove ogni giorno, dato che l'opera cominciata in loro gli è gradita, trova in loro materia e occasione di arricchirli maggiormente. A questo si riferiscono le affermazioni seguenti: "A chi ha, sarà dato", "Poiché sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte" (Mt. 25.21-23.29; Lu 19.17.20. Ma dobbiamo mettere in guardia contro due errori: attribuire all'uomo l'uso della prima grazia, in modo tale che sia lui a rendere efficace la grazia di Dio con la propria collaborazione, e in secondo luogo affermare che le grazie conferite al credente siano ricompense per il buon uso fatto della prima grazia, come se tutto non gli pervenisse dalla gratuita bontà di Dio.

I credenti, lo riconosco, possono aspettarsi che quanto meglio avranno impiegato le grazie di Dio, tante nuove e maggiori grazie saranno loro giornalmente sopraggiunte. Ma d'altra parte aggiungo che questo buon impiego viene da Dio e che questa remunerazione procede dalla sua gratuita benevolenza.

Gli Scolastici hanno sempre in bocca questa distinzione corrente tra "grazia operante" e "grazia cooperante", ma la travisano e rovinano tutto. Sant'Agostino l'ha correttamente adoperata, aggiungendo però una dichiarazione per precisare quanto poteva essere Malinteso: Dio compie cooperando quanto ha cominciato operando, vale a dire, adopera quanto ci ha già dato assieme a quanto vi aggiunge; si tratta della medesima grazia ma prende il nome dal diverso modo di effettuarsi. Di conseguenza egli non opera una separazione tra Dio e noi, come se vi fosse una mutua concorrenza tra il moto di Dio ed un altro che avessimo a parte; ma vuol solo mostrare come la grazia aumenti. A questo si riferisce il testo già citato: che la buona volontà precede molti doni di Dio, ma essa è nel numero. Ne segue che non può esserle attribuito nulla di proprio: san Paolo lo ha espressamente dichiarato. Dopo aver detto infatti che Dio opera in noi il volere e il fare, subito aggiunge che egli fa una cosa e l'altra secondo la propria buona volontà, intendendo con questa la sua gratuita benignità (Fl. 2.13).

Alla pretesa che, dopo aver accolto la prima grazia, noi coopereremmo con Dio, io rispondo: se i miei avversari vogliono dire che dopo essere stati condotti dalla forza di Dio ad obbedire alla giustizia noi seguiamo poi volontariamente la guida della sua grazia non faccio obbiezioni; e certo che dove regna la grazia di Dio, vi e questa prontezza all'obbedienza. Ma donde ha questo origine se non nel fatto che lo Spirito di Dio, sempre uguale a se stesso, conferma in noi il desiderio di obbedienza che ha generato fin dal principio? Se al contrario vogliono dire che l'uomo lo faccia per virtù propria e cooperi con la grazia di Dio, dichiaro che questo è errore pestilenziale.

12. A questo riguardo interpretano erroneamente la frase dell'Apostolo: "Ho lavorato più di tutti gli altri, non io ma la grazia di Dio con me" (1 Co. 15.10). Essi dicono: sarebbe stato troppo arrogante l'anteporsi a tutti gli altri e perciò egli lo attenua rendendo lode alla grazia di Dio, in modo tuttavia da dirsi compagno d'opera di Dio.

Stupisce che tanti personaggi, ammirevoli sotto altri aspetti, abbiano inciampato in questa pagliuzza! San Paolo non dice che la grazia di Dio abbia operato con lui per farsi compagno di questa, ma piuttosto le attribuisce tutto il merito per l'opera: "Non sono io ad aver lavorato "egli dice "ma la grazia di Dio che mi assisteva". Lo sbaglio deriva dal fatto che si fermano alla traduzione corrente che è dubbia: ma il testo greco di san Paolo è chiaro da non poter aver dubbi. Se si vuol tradurre veracemente l'affermazione, essa non significa che la grazia di Dio fosse cooperante con l'Apostolo, ma che essa faceva tutto, con la assistenza di lui.

Sant'Agostino lo espone chiaramente e brevemente dicendo che la buona volontà presente nell'uomo precede molte grazie di Dio ma non tutte, perché essa è nel numero. Aggiunge di conseguenza: "Infatti è scritto: La misericordia di Dio ci precede e ci segue (Sl. 59.2; 23.6) , vale a dire, essa previene colui che non vuole affinché voglia e segue colui che vuole onde non voglia invano",.

Con questo concorda san Bernardo, il quale ci presenta una Chiesa che pronuncia queste parole: "O Dio, tirami in qualche modo con la forza e mio malgrado rendimi volonterosa: tirami, pigra quale sono, e rendimi capace di correre".

13. Ascoltiamo ora sant'Agostino, in modo che i Pelagiani del nostro tempo, vale a dire i Sofisti della Sorbona, non ci rimproverino, secondo la loro abitudine, di essere contro tutti gli antichi dottori. E in questo seguono il loro padre Pelagio che ha creato fastidi a sant'Agostino con la stessa calunnia.

Egli tratta questa materia in un libro intitolato Della correzione e della grazia di cui riassumerò alcuni passi adoperando le sue stesse parole. Afferma che la grazia di perseverare nel bene è stata data ad Adamo, se avesse voluto adoperarla; ci è data per spingerci a volere e perché, volendo, sormontassimo le concupiscenze. Adamo dunque ha avuto il potere, se avesse voluto; ma non ha avuto il volere di potere, a noi è dato il volere e il potere. La prima libertà è stata di potersi astenere dal peccare: quella di cui godiamo ora è molto più grande ed è di non poter peccare.

I Sorbonisti riferiscono queste affermazioni alla perfezione che sarà nella vita futura: ma è ridicolo, dato che sant'Agostino afferma poco dopo che la volontà dei credenti è condotta dallo Spirito Santo in modo che possono fare bene, perché vogliono; e che lo vogliono perché Dio crea in loro il volere. Se in questa grave infermità, egli dice, nella quale deve attuarsi l'azione di Dio per rimediare all'orgoglio e reprimerlo (2 Co. 12.9) , fosse loro lasciata la volontà di poter compiere il bene con l'aiuto di Dio, qualora lo desiderassero, e Dio non fornisse loro il volere, in mezzo a tante tentazioni la loro volontà, inferma, soccomberebbe e non potrebbero perseverare. Dio dunque ha rimediato alla infermità della natura umana, dirigendola in modo che non possa volgersi qua o là e guidandola in modo che non possa distrarsi. In tal modo, sebbene sia inferma, non può venir meno.

Successivamente egli esamina la necessità che i nostri cuori seguano l'impulso con cui Dio li trascina e afferma: Dio guida gli uomini secondo la loro volontà e non per costrizione, ma la volontà l'ha formata lui in loro.

Ecco così la nostra tesi principale approvata dalla bocca di sant'Agostino: la grazia non è solamente offerta da Dio con la possibilità di essere accettata o rifiutata secondo il beneplacito di ciascuno; ma è questa grazia stessa che induce i nostri cuori a seguire i suoi moti e produce tanto la scelta che la volontà, di sorta che le buone opere susseguenti ne sono il frutto. Essa è ricevuta dall'uomo solo in quanto ha piegato il suo cuore all'obbedienza. Per questo motivo, in un altro passo, lo stesso Dottore dice che solo la grazia di Dio produce ogni opera buona in noi.

14. L'affermazione sua che si legge altrove: la volontà non è distrutta dalla grazia, ma cambiata da malvagia in buona e dopo essere fatta buona è aiutata, significa che l'uomo non è gettato come una pietra da Dio, senza alcun movimento del cuore, come da una forza esterna: ma è mosso talché obbedisce di buon grado.

Inoltre egli asserisce che la grazia è data specialmente agli eletti, quale dono gratuito; scrive infatti a Bonifacio nei seguenti termini: "Sappiamo che la grazia di Dio non è data ad ogni uomo e quando è data a qualcuno, non è per i meriti delle opere né della volontà, ma per la gratuita bontà di Dio; se essa è negata, lo è per giusto giudizio di Dio". In questa stessa epistola condanna fermamente l'opinione di quanti stimano che la grazia seconda verrebbe concessa come retribuzione ai meriti umani, in quanto gli uomini se ne mostrerebbero degni non respingendo la prima. Vuole sia riconosciuto da Pelagio che la grazia ci e necessaria per ogni opera, e che non viene concessa per i meriti, onde permanga grazia vera.

Non si può riassumere meglio l'argomento di quanto egli faccia nell'ottavo capitolo del suo libro Della correzione e della grazia, dove in primo luogo insegna che la volontà umana non ottiene la grazia in virtù delle propria libertà, ma ottiene la libertà per la grazia di Dio. In secondo luogo, che essa è condotta ad amare e a perseverare nel bene. In terzo luogo, che essa è fortificata con forza invincibile per resistere al male. In quarto luogo, che quando essa è guidata dalla grazia, non viene mai meno; quando ne è privata, subito inciampa; che la misericordia gratuita di Dio converte la volontà al bene e una volta convertita, essa vi persevera, che se la volontà dell'uomo è condotta al bene, e dopo esservi stata indirizzata vi persevera, è unicamente per la volontà di Dio e non per meriti propri.

In questo modo l'unico libero arbitrio lasciato all'uomo è quello che descrive in un altro passo: non può convertirsi a Dio né rimanere in Dio se non per la sua grazia; e tutto quello che può, deriva da questa.