Storia/La centralità di Dio in Giovanni Calvino

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La centralità di Dio in Giovanni Calvino

Luca Baschera

 Credo appaia chiaro dal titolo di questa comunicazione che il tema è tale da non poter essere esaurientemente trattato nel tempo che abbiamo a disposizione; senza contare che esso travalica, bisogna pur ammetterlo, i ristretti confini delle capacità di chi scrive. Desidero quindi, concentrandomi specialmente sul primo libro dell’Institutio christianae religionis, enucleare anzitutto alcuni modi o modulazioni che il tema della centralità di Dio assume nel discorso calviniano. In secondo luogo mi vorrei brevemente soffermare sul tema della provvidenza, che strettamente si lega a quello proposto, e che occupa certo a sua volta una posizione centrale all’interno della teologia calviniana. 

I. Centralità gnoseologica e soteriologica del Dio trinitario

E’ noto come Giovanni Calvino, al principio del primo capitolo del primo libro dell’Institutio, quasi compendi il senso dell’indagine che si accinge a svolgere, dicendo che «tutta la somma della nostra sapienza […] consiste nel fatto che conoscendo Dio ciascuno di noi conosca anche se stesso»[1]. Fin da subito il Riformatore di Ginevra desidera così porre in evidenza l’assoluta centralità di Dio in questo contesto: se, infatti, l’antica sapienza greca aveva riconosciuto come principale compito dell’uomo quello di «conoscere se stesso», viene ora chiarito che non è possibile giungere a questo scopo senza conoscere Dio. Peraltro Calvino tiene a precisare immediatamente come non vi sia una semplice complementarietà fra le due scienze (antropologia e teologia), quanto piuttosto una subordinazione della prima alla seconda. Risulta quindi chiaro quale sia l’ordine da seguire, allorché si intraprenda la via che conduce alla sapienza: «L’ordine di un buon insegnamento richiede che in primo luogo trattiamo della conoscenza di Dio per venire poi alla seconda [conoscenza dell’uomo]»[2].

Sembra dunque di poter dire che la centralità di Dio appare anzitutto essere di natura gnoseologica. Questo non deve tuttavia indurci a credere che l’autore dell’Istituzione abbia l’intento di condurre un’indagine meramente speculativa su temi antropologici e teologici; piuttosto dobbiamo immediatamente riconoscere che per Calvino, come per ogni teologo cristiano, non può darsi alcuna conoscenza di Dio che non sia anche religiosamente connotata, né alcuna pietà che non sia anche sforzo intellettuale (nel segno dell’anselmiano fides quaerens intellectum). E’ tuttavia, questo, uno sforzo che non ci autorizza a travalicare i confini che Dio stesso ha posto alla nostra capacità di comprensione, dovendo piuttosto essere sempre volto all’edificazione della chiesa e dei credenti. Ciò che deve guidarci alla conoscenza di Dio è, dunque, un vivo «sentimento della potenza di Dio», dal quale, come due ruscelli dalla medesima sorgente, sgorgano la vera pietà e la religione: la prima definita come la congiunzione di venerazione e amore per Dio; la seconda come «fede unita a un vivo timore di Dio in modo che il timore comprenda una venerazione volontaria e comporti un servizio degno, quale Dio stesso prescrive nella sua Legge»[3].

Atteso ciò, non fa certo problema il fatto che Calvino mostri anzitutto, come già detto, la centralità gnoseologica di Dio, e la sua originarietà sotto questo rispetto: lungi dall’essere un’invenzione umana, magari escogitata per meglio dominare i popoli, la religione è considerata come il frutto di un’attitudine innata, che Calvino chiama sensus divinitatis. In favore dell’esistenza di una simile naturale «percezione» di Dio depongono, paradossalmente, i peggiori esempi di idolatria rintracciabili presso i popoli pagani: «Quando preferiscono adorare un pezzo di legno o una pietra piuttosto che essere considerati senza Dio, constatiamo quanto straordinaria sia la forza e la dinamica di questa esigenza ineliminabile dell’intelletto umano»[4]. Allo stesso modo i più malvagi fra gli uomini, che, nonostante i molti tentativi, non riescono a liberarsi dell’immagine di Dio che è stata scolpita nel loro cuore, testimoniano con il rimorso che sempre di nuovo li tormenta della presenza in ognuno di «un’impressione [di Dio] così profonda, da non poter essere abolita»[5].

Si deve d’altronde riconoscere che Calvino è ben lungi dal negare la possibilità di una teologia naturale, e si fa anzi promotore di una fisico-teologia: prove fra le più evidenti dell’esistenza di Dio sarebbe, così, l’ordine naturale del cosmo come opera della sua azione creatrice. Se sono esecrabili i tentativi di conoscere Dio quale Egli è in sé, tuttaffatto lecito risulta considerare il mondo come «una esposizione o manifestazione delle realtà invisibili, perché la sua costruzione così ben ordinata funge da specchio per contemplare Dio»[6]. Il Riformatore di Ginevra non risparmia, d’altronde, parole entusiastiche nei riguardi delle scienze naturali, i cui coltivatori sono «aiutati e avvantaggiati nel comprendere più da vicino i segreti di Dio»; a quanti, poi, non siano dati l’occasione o il talento necessari per approfondire lo studio di esse, basterà gettare un pur fugace sguardo sull’armonia e bellezza del corpo umano, per riconoscere in esso «un’opera così singolare che l’autore merita di essere l’oggetto della nostra ammirazione»[7].

E tuttavia entrambe queste vie, il sensus divinitatis e la fisico-teologia, risultano per l’uomo impraticabili, al fine di giungere a una corretta e profonda conoscenza di Dio. Si può dire forse che Calvino si sia soffermato su di esse per meglio mostrare che cosa all’uomo sarebbe stato possibile, nel caso in cui il progenitore Adamo non fosse caduto, coinvolgendo tutta la propria discendenza nella medesima empietà. Sì, perché proprio il peccato originale, del quale ogni essere umano reca in sé i segni, ci nega de facto ciò che de iure dovrebbe esserci possibile. Per un verso gli uomini, ormai incapaci di prestare orecchio alla voce di Dio, pervertono quell’impressione del divino, e mossi da vanità e orgoglio «con le loro curiosità non fanno che svolazzare in speculazioni inutili»[8]; quand’anche, poi, si volgano a Dio, ciò avviene unicamente perché vi sono «costretti e trascinati loro malgrado». «La distretta conduce, infatti, anche i più malvagi a riconoscerlo», ma ciò che soggiace a questa conversione non è che un timore servile, quasi una forma di paura che, come è noto, si colloca all’opposto della fede. Non migliore sorte attende, perlatro, la teologia naturale, la quale, in luogo di servire alla conoscenza del vero Dio, viene pervertita da «spiriti mostruosi, quasi innaturali», che non hanno pudore a favoleggiare di segrete forze interne agli stessi elementi naturali (natura naturans), o di una anima mundi come spirito ordinatore immanente al cosmo. Si è perciò costretti a riconoscere che, a causa di quel terribile rivolgimento intervenuto con il peccato d’Adamo, gli stessi mezzi che dovrebbero favorire il sorgere in noi della vera religione, non contribuiscono che a «foggiare qualche nebulosa divinità per respingere ben lontano il vero Dio che dobbiamo adorare e servire»[9].

Ecco che, allora, la centralità gnoseologica di Dio, dalla quale il discorso calviniano ha preso le mosse, assume i connotati di alcunché da riconquistare: cioè a dire che nella prospettiva postlapsaria non la si può presupporre, e la si deve invece considerare quale meta di un processo, al centro del quale, ancora una volta, v’è Dio. Il processo è quello della salvezza, e la centralità di Dio a questo proposito può forse essere detta soteriologica. In questo senso, Dio si pone al centro nella sua Parola, ed è interessante mantenere viva e presente alla nostra attenzione la feconda ambiguità del termine qui usato: Parola. Anzitutto con esso vogliamo riferirci al Verbo di Dio, Gesù Cristo, il Messia che è stato inviato nel mondo per guadagnare la salvezza agli eletti per mezzo del sacrificio espiatorio della Croce. In Gesù Cristo Dio è certamente al centro, dacché in virtù della Sua grazia soltanto è resa possibile la giustificazione dell’empio: è l’azione di Dio che trae a sé gli eletti e li redime. Per altro verso, Dio in Cristo si colloca al centro come oggetto di fede e di fiducia, come Colui al quale i credenti si affidano poiché attendono da Lui soltanto ogni beneficio. In Gesù Parola, Dio si pone in medio, precisamente perché il Cristo è l’unico mediatore fra il Padre e gli uomini, colui cioè che rende nuovamente possibile la relazione fra il Creatore e le sue creature sanando la frattura occorsa con il peccato d’Adamo.

La Parola, tuttavia, non risulta centrale e non esplica la sua funzione mediatrice solamente come Verbo incarnato, bensì anche come Parola rivelata nella Scrittura: solo grazie alla rivelazione è dato agli uomini di conoscere nuovamente e propriamente Dio come creatore personale, laddove, nel caso in cui siano «guidati solo dalla natura, non avranno nulla di certo, di stabile, di chiaro ma rimarranno attaccati semplicemente al generico principio di adorare qualche dio sconosciuto»[10]. Solo per mezzo della Scrittura possiamo conoscere la misericordia di Dio e la sua volontà: in questo modo nella Rivelazione abbiamo «il principio di ogni retta intelligenza», a patto che «accogliamo con riverenza quanto Dio vi ha voluto testimoniare di se stesso»[11]. Dio, dunque, ponendosi al centro della Scrittura come Colui che da essa è annunciato e di essa è autore[12], esige dai credenti anzittutto obbedienza e rispetto per l’autorità della Parola, unico e indispensabile fondamento della verità e della chiesa[13]. Ma come sempre avviene nella pedagogia divina, non ci si limita qui a formulare un’esigenza, a dare un compito: senza un diretto intervento divino non sarebbe, infatti, possibile ad alcuno sottomettersi alla verità rivelata.

Giungiamo qui a toccare uno dei punti più interessanti del discorso calviniano, che lo cartterizza singolarmente in confronto alla dottrina di altri riformatori contemporanei. E’ noto come uno dei cardini della rivoluzione teologica avvenuta nel ’500 sia espresso nel motto Sola Scriptura: la Bibbia, in quanto Parola di Dio, nella sua claritas è l’unico fondamento e l’unico criterio di giudizio di ogni discorso teologico, che da essa sola deve trarre origine e a essa sola deve sottomettersi per esserne giudicato. Lo stesso Calvino ritorna su questo punto, là ove scrive: «La Scrittura è in grado di farsi riconoscere per virtù potente e infallibile, così come le cose bianche o colorate mostrano il loro colore e le cose dolci o amare il loro sapore»[14]. E tuttavia il Riformatore di Ginevra non si limita a postulare la chiarezza e sufficienza della Scrittura, ma vuole darne una fondazione, poiché come egli stesso riconosce «mai avremo fede stabile nella dottrina finché non saremo convinti, senza ombra di dubbio che Dio ne è l’autore»[15]. Dove, però, potremo rintracciare una simile prova, se non nella stessa «persona di Dio che in essa parla»? Dio può proporsi come centrale nel medio della Parola scritta, solo in quanto testimonia di sé nella mente e nel cuore del credente, solo in quanto cioè «lo stesso Spirito che ha parlato per bocca dei profeti entri nei nostri cuori e li tocchi al vivo onde persuaderli che i profeti hanno fedelmente esposto quanto era loro comandato dall’alto»[16]. Il testimonium interiore dello Spirito, dunque, non solo si affianca al testimonium exteriore della Scrittura, ma con la sua penetrante potenza sottomette a quest’ultimo il nostro giudizio e la nostra intelligenza, poiché «non c’è vera fede all’infuori di quella che lo Spirito Santo suggella nei nostri cuori»[17]. Con ciò, si badi bene, il Riformatore non desidera significare che lo Spirito, parlando ai cuori dei singoli credenti, li provveda di un’ulteriore speciale rivelazione, diversa nei suoi contenuti da quella scritturale: piuttosto l’ufficio del testimonio interiore è quello di confermare e rendere salda la rivelazione scritturale, in sé sufficiente. Ed è proprio per questo che egli, polemizzando con gli Anabattisti e, più in generale, con gli entusiasti, tiene a precisare che «non è funzione dello Spirito Santo di sognare nuove rivelazioni, sconosciute per l’innanzi o inventare nuove forme di dottrina per sottrarci alla dottrina dell’Evangelo ricevuto; ma piuttosto di suggellare e confermare nei nostri cuori la dottrina che vi è dispensata»[18]

E’ interessante notare come in questo modo Calvino non solo ponga ancora una volta al centro Dio, questa volta come unico fondamento dell’autorità della Bibbia, ma anche riesca a congiungere e a far incontrare in un unico punto le due prospettive in precedenza menzionate: quella gnoseologica e quella soteriologica. Se, infatti, come suggerisce Richard A. Muller, la Scrittura può essere considerata il fondamento cognitivo della teologia, Calvino ci dice qui che solo in virtù dell’opera dello Spirito Santo essa può effettivamente accedere a tale status. Ora, lo Spirito è precisamente Colui per mezzo del quale l’opera redentrice di Gesù Cristo è applicata agli eletti; è per mezzo di Lui che la grazia efficace opera nei credenti la rigenerazione, illuminando la loro menti e facendo loro conoscere Dio. Dio, dunque, può essere al centro in senso gnoseologico solo in una prospettiva soteriologica, così come la sua centralità nell’opera della salvezza è comprensibile solo grazie alla mediazione cognitiva della Parola. Non si tratta qui di decidere, come giustamente nota Benjamin B. Warfield[19], se sia prioritario il principio formale (Scrittura) o il principio materiale (Giustificazione) nella fondazione della teologia cristiana: poiché entrambi sono riportati all’unico focus dell’opera dello Spirito Santo, alla grazia efficace. Da quanto s’è detto traspare peraltro come Giovanni Calvino costruisca la propria teologia non solo nel segno di uno spiccato teocentrismo, ma in una prospettiva fortemente trinitaria: il Dio creatore (Padre) che ha posto in noi il sigillo del sensus divinitatis può essere incontrato solo in virtù della mediazione del Verbo incarnato (Figlio), e grazie all’opera rigneratrice dello Spirito Santo. Padre, Figlio e Spirito Santo, dunque: è il Dio uno e trino a essere qui posto al centro, nella sua assoluta priorità e originarietà, perché ne abbiamo retta cognizione.

II. Centralità di Dio e decentramento dell’uomo: la Provvidenza

Nel corso della annunciata trattazione in tema di antropologia, all’interno del capitolo quindicesimo del primo libro, Calvino è quasi naturalmente condotto a trattare il tema del rapporto fra agire divino e volontà umana, e, nel capitolo successivo, a soffermarsi conseguentemente sul tema della provvidenza divina. Se non prendessimo in seria considerazione il fatto che Dio è provvidente, non potremmo «comprendere rettamente che cosa significhi l’affermazione che Egli è il creatore; anche se ci sembra chiara nel nostro spirito e la confessiamo con le labbra»[20]. L’attività di Dio, infatti, non può essere ristretta a un tempo limitato: non si può cioè affermare che Dio abbia dato un calcio al mondo, sì che questo poi continui a rotolare per inerzia. Bisogna piuttosto riconoscere che egli è anche «governatore e custode perpetuo» di ciò che ha fatto venire all’essere, e che, per quanto se ne debba sempre di nuovo ribadire la trascendenza, è anche presente[21] al mondo, lo sostiene e ne ha cura. A questo proposito si può ravvisare una piena concordanza fra il punto di vista di Calvino e quello di Lutero e Zwingli. Il primo, nel Grande Catechismo, afferma senza esitazione che «nessuno di noi possiede o può conservare da se stesso né la vita né alcun altro bene, per quanto piccolo e insignificante; e tutto questo è compendiato nel termine Creatore [con cui si indica Dio]»[22]. Se quindi per Lutero è la stessa denominazione di Dio come creatore a implicare la sua attività conservatrice e provvidente, non diverso è il giudizio di Huldrych Zwingli: «Dio è chiamato anche dai filosofi entelecheia ed energeia, cioè a dire forza perfetta, efficace e attiva. […] Cosicché si afferma che Dio è ciò da cui tutto trae origine, tutto viene mosso e in virtù del quale tutto vive, non tanto nel senso di una materia originaria, quanto nel senso che Egli è insieme saggezza, sapienza e provvidenza […] Attraverso la sua saggezza ogni cosa è conosciuta, prima ancora di esistere; per mezzo della sua sapienza ogni cosa è compresa, e attraverso la provvidenza, ordinata»[23].

Nulla v’è, dunque, in comune fra la provvidenza del Dio dei cristiani e il fato dei pagani, poiché Dio è personale, onnisciente e onnipotente, nulla sfugge al suo controllo e all’ordine che Egli ha stabilito: «Egli sovrintende agli avvenimenti in modo tale, che quanto accade è frutto di una specifica determinazione e nulla si verifica per caso fortuito»[24]. Più volte, per ribadire questo punto, Calvino torna a citare le parole del Signore in Matteo, 10: 30: «Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati», e sottolinea come si possa parlare di fortuna solo a causa di un errore di prospettiva. Riprendendo Agostino, fa notare infatti che per fortuna non si intende altro, se non «la possibile linea di una volontà nascosta»; cosicché «chiamiamo fortuna solamente quanto avviene senza che la causa e la ragione ce ne siano apparenti»[25]. Ma la fede non cade vittima di una simile illusione ottica, poiché «riconosce come azione nascosta di Dio quanto sembra essere accidentale. Non sempre, né in ogni caso ne appare evidente la ragione: bisogna tener tuttavia per certo che tutti i rivolgimenti nel mondo provengono dal moto segreto della mano di Dio»[26]. Sottolineando con tanta enfasi l’azione di Dio nel mondo e nella storia, risulta peraltro scartata l’idea per cui Dio sarebbe, bensì, presciente, ma non provvidente in senso proprio; come è noto, questa era la tesi sostenuta già da Origene[27], secondo il quale non perché Dio conosce gli eventi, essi accadono, ma perché essi accadono, Dio li conosce. La risposta di Calvino è tanto limpida quanto lapidaria: «Questa parola [provvidenza] si riferisce tanto alla mano quanto agli occhi di Dio: vale a dire, non solo vede, ma anche stabilisce ciò che vuole sia fatto»[28]. Per la stessa ragione per cui si è rifiutato di considerare l’azione di Dio come limitata al primo atto creativo, si deve ora rigettare una visione che farebbe di Lui un semplice spettatore degli eventi mondani: ancora una volta Dio è al centro con le sue sapienza e potenza, talché Egli non ha solo un generico «potere di decisione, ma altresì la decisione, la volontà e la determinazione di quanto si deve fare»[29].

Molteplici sono, secondo Calvino, i benefici che per il credente sorgono da una simile dottrina: anzitutto, «considerando l’ampia facoltà di agire di Dio, dato che tutte le creature dipendono dal suo beneplacito, ci si assoggetta a Lui nell’obbedienza»; d’altronde, e per gli stessi motivi, si è spinti ad affidarsi con piena fiducia alla Sua protezione. Considerando, poi, che da questa convinzione si è spronati a rendere grazie a Dio nella prosperità, e a sopportare con pazienza le avversità, ben sapendo che entrambe procedono dal medesimo Signore, Calvino conclude che il risultato di una fede siffatta è «una particolare beatitudine dei credenti»; poiché «è un sollievo meraviglioso sapere che il Signore tiene in mano ogni cosa con la sua potenza, governa con la sua volontà e modera con la sua pazienza, di sorta che nulla avviene senza esser stato da lui stabilito»[30]. E tuttavia una simile visione intorno all’agire divino solleva anche alcune difficoltà, allorché si dica, per esempio, che Dio guida ogni evento: come è possibile continuare a ritenere responsabile l’uomo di azioni la cui causa è Dio stesso? A questo proposito il Riformatore, trovandosi a fronteggiare l’eterna questione del rapporto fra onnipotenza divina e libertà umana, fa appello a due distinzioni tradizionali, cui anche Lutero fa ricorso nel De servo arbitrio: quella fra volontà segreta e rivelata[31] di Dio, e quella fra causa prima e cause seconde[32].

Dio ha rivelato la sua volontà agli uomini nella Legge e nell’Evangelo, e questi costituiscono la norma dell’agire umano, in base alla quale esso deve essere giudicato; certo il credente riconosce che «il modo mirabile in cui Dio regge il mondo è definito a buon diritto: abisso profondo»[33], ma non insorge contro Dio per questo né protesta contro di Lui, adorandolo piuttosto con riverenza e umiltà. D’altra parte non si può dire che l’onnipotenza divina renda impossibile ogni imputazione morale per le azioni umane: l’onnipotenza, infatti, guida l’agire degli uomini ma non annienta la loro natura di esseri razionali, né la loro volontà. Ogni evento, anche l’azione volontaria dell’uomo, è certo agli occhi di Dio, in quanto Egli è causa prima di tutto ciò che avviene; e tuttavia la sua azione si esplica anche con la mediazione di cause seconde, le quali agiscono in conformità alla propria natura. Nel caso, poi, di quella particolare causa seconda che è la volontà umana, si può dire che essa agisca sempre in conformità alla propria natura, cioè a dire volontariamente ovvero spontaneamente, e proprio perciò, in conformità al volere di Dio che tale la creò. Non può esistere contraddizione fra il volere delle creature e quello del Creatore, il quale mostra la propria saggezza segnatamente nel tenerci nascoste le cose future «affinché viviamo senza sapere ciò che deve accadere e non cessiamo di adoperare i rimedi che egli ci dà contro i pericoli fin quando li abbiamo superati o abbiano avuto il sopravvento»[34].

Appare evidente come la trattazione della provvidenza costituisca un aspetto nodale del discorso calviniano intorno alla centralità di Dio: ciò che forse è ancor più interessante, è il fatto che ponendo Dio al centro si debba necessariamente decentrare l’uomo. Non già per annientarlo o reificarlo sino a renderlo non dissimile da un qualsiasi oggetto inanimato; ma per ribadirne la assoluta eteronomia e la assoluta dipendenza da Colui che lo creò e lo salva. Più avanti nel corso dell’opera Calvino rigetterà senza mezzi termini l’opinione dei filosofi, secondo la quale: «La ragione posseduta dall’intelletto umano è sufficiente a guidarci e a indicare il giusto cammino»[35]. Una simile opinione non solo non sembra tenere conto dello statuto creaturale dell’essere umano, ma appare altresì in aperta contraddizione con la dottrina del peccato originale e della salvezza per sola grazia: l’uomo, emarginato dal peccato d’Adamo e posto fuori dalla comunione con Dio, deve da Dio stesso essere liberato. Allora egli sarà pronto a riconoscere e confessare la assoluta centralità di Dio come Padre misericordioso e radice di ogni bene, e non pretenderà più di essere, come pure alcuni Padri greci hanno sostenuto, autexousion (autonomo). Ecco che constatiamo, ancora una volta, come il riconoscimento cognitivo della centralità di Dio si leghi sempre all’esperienza della Sua centralità soteriologica: solo attraverso il diretto intervento salvifico di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo nella vita del singolo credente, sarà dato a quest’ultimo non solo di comprendere, ma anche di avvertire sensibilmente quella centralità, altrimenti sempre negata. 

Si può vedere quindi quanto il pensiero del Riformatore di Ginevra sia lungi dall’umanesimo così tipico di alcuni filosofi e teologi suoi contemporanei, destinati a essere annoverati fra i maitres à penséer dell’Illuminismo (si pensi, per esempio, a Sebastiano Castellione o ai due Sozzini). D’altronde si può comprendere come suoni estraneo alle orecchie dell’uomo d’oggi che, pur avendo, forse, abbandonato i sogni di progresso della modernità, non è certo maggiormente disposti a riconoscere la propria limitatezza di fronte all’unica verità di Dio. Un pensiero, quello di Calvino, allora e sempre inattuale, e dunque, proprio per questo, sempre fecondo.                                                                                                                                

Note

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[1] Giovanni Calvino, Istituzione della religione cristiana, UTET, Torino 1983, I, 1,1, p. 137.

[2] Ivi, I, 1, 3, p. 140.

[3] Ivi, I, 2, 2, p. 143.

[4] Ivi, I, 3, 1, p. 144.

[5] Ivi, I, 3, 2, p. 145. L’esempio che Calvino usa a questo proposito è quello dell’imperatore Caligola: si vedano le analoghe riflessioni che Søren Kierkegaard conduce ne La malattia mortale intorno alla cosiddetta «angoscia del bene» provata da Nerone.

[6] Ivi, I, 5, 1, p. 152.

[7] Ivi, I, 5, 2, p. 153.

[8] Ivi, I, 4, 1, p. 147.

[9] Ivi, I, 5, 5, p. 158.

[10] Ivi, I, 5, 11, p. 166. Cfr. Heinrich Bullinger Compendium christianae religionis decem libris comprehensum, Tiguri 1559, II, 2: «Allo stesso modo in cui ciò che è nell’uomo nessuno lo conosce, se non lo spirito umano che è in esso, così anche ciò che Dio è non può esplicarlo nessuno oltre a Dio nel suo Verbo. Chiunque si costruisca altre opinioni, e cerchi in altro modo di avere conoscenza di Dio, costui si inganna e non venera che le immagini fittizie del proprio cuore».

[11] Calvino, op.cit., I, 6, 2, p. 172.

[12] Cfr. François Wendel, Calvin. Source et évolution de sa pensée religieuse, Presses universitaires de France, Paris 1950, p. 116: «Sempre di nuovo Calvino insiste sul fatto che lo Spirito ci assicura che Dio parla nella Scrittura. Il suo contenuto è divino, perché gli autori dei diversi libri biblici non sono stati che gli strumenti di cui Dio si è servito per mettere per iscritto la sua rivelazione. […] Questa ispirazione si estende a tutta la Scrittura» (corsivo mio). Vedi anche quanto scrive Calvino stesso, op. cit., IV, 8, 9: «Gli apostoli sono stati come i notai giurati dello Spirito Santo […]; i loro successori non hanno che il compito di insegnare ciò che essi trovano contenuto nelle Sacre Scritture».

[13] Cfr. Calvino, op. cit., I, 7, 2, p. 175: «Se il fondamento della Chiesa è rappresentato dalla dottrina che ci hanno lasciata i profeti e gli apostoli [Efesini, 2: 20], occorre che tale dottrina risulti certa prima che la Chiesa cominci a esistere».

[14] Ivi, p. 176.

[15] Ivi, I, 7, 4, p. 178.

[16] Ivi, p. 179.

[17] Ivi, I, 7, 5, p. 181.

[18] Ivi, I, 9, 1, p. 195.

[19] Cfr. Benjamin B. Warfield, Calvin’s Doctrine of the Knowledge of God, in Works, vol. 5, pp. 107, 115: «Calvino penetra al di là della fede sino all’atto creativo dello Spirito Santo che opera nei cuori e crea l’uomo nuovo, il cui atto è la fede […] Di conseguenza la grazia efficace diviene il principale fondamento della soteriologia di Calvino, egli stesso divenendo in senso eminente il teologo dello Spirito Santo. […] Vediamo qui incarnato il vero principio protestante, superiore ai così detti principio formale e materiale, cioè a dire la testimonianza dello Spirito di Dio nel cuore».

[20] Calvino, op. cit., I, 16, 1, p. 305.

[21] Cfr. François Wendel, Calvin. Source et évolution de sa pensée religieuse, Presses universitaires de France, Paris 1950, p. 131. Per sintetizzare in una breve formula la convinzione che Dio, in quanto unico vero fondamento dell’essere del mondo, debba considerarsi in qualche modo a esso immanente, la Scolastica coniò l’esametro Enter, praesenter Deus est, et ubique potenter; questo “verso”, citato poi tradizionalmente, voleva forse riprendere, nella sua triplice scansione, il detto paolino: «in Lui viviamo, ci moviamo e siamo» (Atti 17: 28a; v. inoltre Henri Blocher, «Immanence and transcendence in trinitarian theology», in The Trinity in a Pluralistic Age. Theological Essays on Culture and Religion, a cura di Kevin Vanhoozer, Eerdmans, Grand Rapids 1997, p. 111).

[22] Martin Luther, Grosser Katechismus, Verlag der Lutherischen Buchhandlung, Gross Oesingen 1997, p. 83.

[23] Huldrych Zwingli, Kommentar über die wahre und falsche Religion, in Zwingli Schriften, Bd. III, Theologischer Verlag Zürich, Zürich 1995, pp. 62-64.

[24] Calvino, op. cit., I, 16, 4, p. 312.

[25] Ivi, I, 16, 8, p. 317. Cfr. Agostino d’Ippona, Retractationes, I, I, 2.

[26] Ivi, I, 16, 9, p. 319.

[27] Cfr. Origene, Contra Celsum, II, 20: «un fatto non avviene perché è stato predetto […] ma l’avvenimento stesso, che avrebbe luogo anche se non fosse stato predetto, è ciò su cui si basa la possibilità di predire il suo accadere».

[28]  Calvino, op. cit., I, 16, 4, p. 310.

[29] Ivi, I, 16, 6, p. 313.

[30] Ivi, I, 17, 10-11, pp. 333-334. Si rammenti quanto dirà Girolamo Zanchi a proposito della predestinazione dei santi, la fede nella quale è da lui definita un «solatium ineffabile».

[31] Cfr. Girolamo Zanchi, De natura Dei seu de divinis attributis, trad. inglese del capitolo sulla predestinazione a cura di Augustus Montague Toplady (1769), ultima rist. Sovereign Grace Publishers, Lafayette IN 2001, p. 13: «Nonostante che la volontà di Dio, considerata in sé, sia semplice e immutabile, tuttavia, per sovvenire alle attuali capacità dell’uomo, la volontà divina è molto propriamente distinta in segreta e rivelata. Così era Sua volontà rivelata che Faraone lasciasse libero il popolo d’Israele, che Abramo sacrificasse suo figlio, e che Pietro non rinngasse Cristo; ma, come fu provato dai fatti, era Sua volontà segreta che Faraone non lasciasse andare Israele (Esodo 4: 21), che Abramo non sacrificasse Isacco (Genesi 22: 12), e che Pietro rinnegasse il suo Signore (Matteo 26: 34)».

[32] Cfr. Francesco Turretini, Institutio theologiae elencticae (Locus III, quaestio 12), trad. inglese a cura di G. M. Giger, Presbyterian & Reformed, Phillipsburg NJ 1997, I, 210s.: «Non può esservi conoscenza certa e infallibile di ciò che è assolutamente, e sotto ogni rispetto, indeterminato. Ma i futuri contingenti non sono di questa specie. Poiché se essi sono indeterminati rispetto alle cause seconde e in sé, non sono tali quanto alla causa prima che ha stabilito la loro futurizione. Se la loro verità è indeterminata rispetto a noi (che non possiamo vedere in quale direzione la causa seconda libera inclinerà se stessa), non è altrettale rispetto a Dio, al quale tutte le cose future appaiono come presenti. […] L’infallibilità e certezza dell’evento non toglie la natura contingente delle cose, perché esse possono accadere necessariamente quanto all’evento, e tuttavia contingentemente quanto al modo di produzione. Se viene stabilita una prescienza dei futuri contingenti, ogni cosa avverrà necessariamente, per necessità di conseguenza e infallibilmente; non per necessità del conseguente e assoluta. Quindi, rimane sempre questa distinzione fra cose necessarie e contingenti. Le prime posseggono una necessità intrinseca, poiché derivano da cause prossime necessarie, e sono tali in sé; laddove le contingenti, nonostante posseggano una necessità estrinseca in ragione dell’evento, tuttavia, quanto alla loro natura, hanno origine da cause contingenti»

[33] Calvino, op. cit., I, 17, 2, p. 322. Cfr. Salmi, 36: 7.

[34] Ivi, I, 17, 4, p. 326.

[35] Ivi, II, 2, 3, p. 371.