Storia/Saluzzo riformata/V La Riforma nel Marchesato dal Trattato di Castel Cambresis alla pace di Amboise (1559-1563): differenze tra le versioni

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[71] In Provenza, ad esempio, il Parlamento di Aix rifiutò di pubblicare l'editto, nonostante le reiterate intimazioni del re. A pacificare la provincia ed a far eseguire l'ordine fu mandato il maresciallo Francesco de Scepeaux de Vieilleville. ARNAUD, Hist. des Protest. de Provence, I, 174-78.
[71] In Provenza, ad esempio, il Parlamento di Aix rifiutò di pubblicare l'editto, nonostante le reiterate intimazioni del re. A pacificare la provincia ed a far eseguire l'ordine fu mandato il maresciallo Francesco de Scepeaux de Vieilleville. ARNAUD, Hist. des Protest. de Provence, I, 174-78.
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Capitolo quinto

La Riforma nel Marchesato dal Trattato di Castel Cambresis alla pace di Amboise (1559-1563)

Conseguenze del trattato di Castel Cambresis - La Riforma nel Marchesato durante il regno di Francesco II - Ripercussioni nelle terre saluzzesi delle prime guerre civili di Francia e delle persecuzioni religiose bandite nei dominî sabaudi. Primi atti della politica religiosa di Carlo IX. Nuove persecuzioni del duca E. Filiberto ed afflusso di sudditi ducali nelle terre del Marchesato. Pressioni del duca sul governatore Lud. Birago per il loro sfratto. Richiesta di predicatori riformati. - L'editto di Carlo IX del 17 gennaio 1562. - Il re vieta il pubblico culto riformato nei domini regi cisalpini. - Il ministro Francesco Truchi e la Riforma a Centallo. La Francia restituisce al duca di Savoia le piazze tenute in Piemonte. - Riflessi della cessione sul moto riformato saluzzese. - Il trattato di Amboise (19 marzo 1563).

Il trattato concluso a Castel Cambresis tra Francia ed Impero il 3 aprile 1559 restituiva al giovane principe sabaudo E. Filiberto, vincitore di S. Quintino, il possesso dei domini paterni, ad eccezione di Torino, Pinerolo, Chieri, Chivasso, Villanova d'Asti, che rimasero come pegni nelle mani del re di Francia, e delle città di Santhià e di Asti, che conservarono un presidio spagnolo.

Del Marchesato di Saluzzo non venne fatta menzione esplicita nel trattato, evidentemente perché al principe sabaudo non parve opportuno sollevare una così spinosa questione nel momento in cui occorreva molta prudenza per non pregiudicare la restituzione dell'intero dominio [2]. Tuttavia in un articolo del trattato era dichiarato che i Francesi riterrebbero alcune piazze del ducato, finché non fossero risolte « certe differenze » fra il re e il duca. Le « differenze »> comprendevano naturalmente anche la questione del Marchesato, che fu infatti agitata tre anni dopo, nel 1562 [3]; ma che per allora, di comune consenso, fu messa a tacere.

Il ritorno di un principe sabaudo sul trono paterno segnò l'inizio della prosperità e della grandezza del ducato; ma, spezzando legami di varia natura, che fino allora avevano strettamente unito il Marchesato al Piemonte sabaudo, ebbe anche notevoli ripercussioni sulle vicende religiose del Saluzzese.

Sebbene come già abbiamo notato il Marchesato fosse stato fin dal 1548 amministrativamente aggregato alla provincia del Delfinato ed alla Corte del Parlamento di Grenoble e fosse rimasto virtualmente separato dagli altri possessi francesi del Piemonte e dalla giurisdizione diretta del Parlamento di Torino, tuttavia la dipendenza dallo stesso re ed una certa larvata ingerenza dei luogotenenti generali regi al di qua delle Alpi nelle cose del Saluzzese, avevano fatto sì che i rapporti fra il Marchesato ed il restante Piemonte occupato dai Francesi rimanessero intimi e costanti e che il moto dissidente del Marchesato potesse alimentarsi e rinvigorirsi, approfittando del movimento riformato rigogliosamente affermatosi lungo le terre limitrofe usurpate al dominio sabaudo. La situazione mutò con il ritorno di tali terre sotto il sovrano legittimo e con la politica religiosa instaurata dal giovane principe E. Filiberto [4].

È noto com'egli, fin dalle Fiandre, dichiarasse al re di Francia e al Papa la sua ferma intenzione di liberare il ducato dalla mala pianta dell'eresia, e come, appena messo il piede sul suolo paterno, nel tripudio stesso delle festose accoglienze fatte alla regale consorte, emanasse da Nizza un primo editto di repressione, al quale seguirono presto altri editti sempre più rigorosi e precisi.

Per tutto il ventennio del suo regno (1560-1580), se si eccettuano brevi tregue imposte dagli avvenimenti di Francia e di Svizzera o dalla prudente ragione di Stato, E. Filiberto proseguirà, fermo ed inflessibile, nella lotta contro la fede luterana e calvinista dilagante nei suoi Stati, per ridare ai suoi popoli l'unità religiosa e, con l'unità religiosa, quella civile, sommamente preziosa in quegli anni, in cui i dissensi religiosi, degenerando in competizioni politiche ed in ambizioni personali, accendevano le terribili guerre civili di Francia. A lui, vincolato alla politica spagnola e bisognoso dell'aiuto di Spagna, gli eretici piemontesi parranno un elemento infido e pericoloso per i molti rapporti spirituali che li legavano alla Francia ed alla Svizzera evangelica.

Cuneo, Demonte, Caraglio, Busca, Villanovetta, Villafalletto, Benevagienna, Racconigi, Carignano, Cardé, Pancalieri, Chieri ed altre terre sabaude, che facevano corona al territorio del Marchesato o s'incuneavano profondamente in esso: - tutti centri attivi e promettenti del moto riformato e in cui la Riforma aveva la protezione della nobiltà del luogo saranno, collettivamente o singolarmente, teatro di persecuzioni, di spedizioni cruente, di confische e di esili che finiranno col distruggerli quasi completamente prima della morte di E. Filiberto.

Con la persecuzione ducale i contatti spirituali e religiosi, che fino allora avevano alimentato reciprocamente i nuclei dissidenti dell'una e dell'altra giurisdizione, andranno infranti definitivamente o diventeranno malagevoli e rischiosi, a causa della stretta sorveglianza degli ufficiali ducali e dei birri del S. Uffizio, liberamente scorrazzanti negli Stati Sabaudi.

È vero che dalla restaurazione sabauda verrà anche questo benefizio inaspettato alla Riforma saluzzese: che ogni violenza perpetrata sui riformati dei domini sabaudi farà affluire sulle terre del Marchesato molti sudditi ducali, i quali ingrosseranno via via le file dei religionari saluzzesi, e che questi stessi, alla loro volta, potranno trovare nel momento del pericolo un rifugio provvidenziale, per quanto infido, sulle contigue terre ducali: ma tanto l'una quanto l'altra immigrazione avrà sempre per conseguenza come vedremo di destare le implacabili recriminazioni del duca.

Infatti, sin dai primi tentativi di persecuzione religiosa, E. Filiberto dovrà amaramente constatare che i suoi sudditi riformati, perseguitati in patria, trovano pronto rifugio in terra francese e che di là ritornano appena passata la raffica della violenza; che egli spopola i suoi Stati e popola gli altrui, senza conseguire gli scopi desiderati, perché l'eresia, cacciata da un luogo, rispunta più tenace nell'altro, se non le si toglie l'occasione di un vicino e comodo rifugio. Quest'amara constatazione non solo obbligherà il duca a cercare attivamente ogni mezzo per spezzare il reciproco aiuto, che si danno a turno i riformati dei due Stati, ma lo spingerà a rivolgere anche continue proteste, ora alle Autorità del Marchesato, ora al re stesso di Francia, per ottenere che le libertà religiose, concesse ad intervalli agli Ugonotti del regno, non siano estese ai riformati del Marchesato, né alle altre piazze ancora tenute dai Francesi in Piemonte [5].

Da Torino il duca segue con vigile attenzione le mosse dei capi ugonotti sulle frontiere alpine del Marchesato; spia gli eventuali complotti orditi da essi con i riformati delle terre saluzzesi; indaga ogni discordia interna, che possa offrire occasione a pericolose discese di orde ugonotte; sicché, a tratti, si ha quasi l'impressione che l'integrità religiosa del Marchesato stia assai più a cuore al duca che ai governatori di Saluzzo e al re stesso di Francia, e che la sorte della Riforma nelle terre saluzzesi sia più nelle sue mani che in quelle del loro legittimo sovrano.

Il pericolo, che la tolleranza concessa da re o governatori ai riformati del Marchesato renda vana l'opera di repressione iniziata nelle terre ducali ed apra la porta sul Piemonte e sull'Italia al dilagare dell'eresia e delle funeste competizioni politico-religiose del regno vicin, sarà il clamoroso pretesto che prima E. Filiberto (1579-1589), poi il figlio Carlo Emanuele I (1588-89) sventoleranno in faccia al re di Francia ai principi italiani e stranieri, per mascherare e giustificare la loro ardente brama di possesso del Marchesato.

I monarchi francesi si piegheranno docilmente alla ferma politica religiosa del duca, la quale, del resto, corrispondeva in gran parte ai loro interessi. Infatti, per non estendere la discordia civile dilagante nelle province dei regno, ma soprattutto per non offrire al duca ed al re di Spagna un comodo pretesto, anche nel campo religioso, di assalire i precari domini regi al di qua delle Alpi, i sovrani francesi avranno costante cura, nei loro editti di pacificazione e di tolleranza, di dichiarare che da tali tolleranze e libertà sono escluse le terre del Marchesato e le altre piazze del Piemonte.

È vero che i riformati del Marchesato più volte insorgeranno per reclamare parità di diritti con i loro confratelli di oltralpe e riusciranno, ora con l'appoggio o col larvato consenso delle autorità marchionali, ora col patrocinio di qualche grande capo ugonotto del regno, a godere di una relativa libertà religiosa; ma sarà libertà effimera, intermittente e contrastata, la quale non permetterà alla Riforma saluzzese quella salda organizzazione ecclesiastica e quell'aperta predicazione delle sue dottrine, che le avrebbero assicurato un indiscusso successo in molte terre del Marchesato. Privata di templi pubblici, destituita dell'opera regolare ed assidua di ministri e di catechisti, intralciata, per effetto della duplice repressione regia e sabauda, nelle sue relazioni ecclesiastiche con le fiorenti chiese del Delfinato, della Provenza 6 e delle Valli Valdesi, essa dovrà, dov'è in minoranza, chiudersi in se stessa ed adottare una condotta di circospezione nociva all'espansione del moto.

Ma, per contro, il trattamento usato dai re di Francia, diverso per i protestanti regnicoli e per quelli del Marchesato, avrà il vantaggio di assicurare al popolo saluzzese la tranquillità e la concordia, perché, attenuando i rapporti religiosi fra esso e il Delfinato e rendendo pressoché separate religiosamente le due province unite politicamente ed amministrativamente, farà in modo che in questo dominio subalpino, già naturalmente protetto dalla barriera alpina, si ripercuotano più fievoli ed indirette le sanguinose lotte civili e religiose delle finitime regioni francesi. Il Marchesato di Saluzzo subirà talora il saccheggio e le devastazioni di orde di fanatici e di razziatori calati da oltralpe, ma non avrà le stragi della San Bartolomeo (1572) né vedrà le sue terre turbate dalla discordia civile e religiosa, se non momentaneamente durante la controversia Birago-Bellegarde (1579) o nell'ultimo decennio del secolo, quando il duca Carlo Emanuele I occuperà di sorpresa il Marchesato e scenderà baldanzoso in Piemonte il generale ugonotto Lesdiguières (1588-1595).

Concludendo, possiamo dire che il trattato di Castel Cambresis segna effettivamente una svolta decisiva per la Riforma del Marchesato, in quanto rende arbitri del suo destino non meno i duchi di Savoia che i re di Francia. Perciò il racconto delle sue vicende, a partire dal 1560, non può essere tracciato, se non seguendo contemporaneamente, da una parte, le fluttuazioni della politica religiosa dei re di Francia e le lotte civili e religiose divampanti oltre le Alpi, e, dall'altra, la condotta ecclesiastica dei duchi di Savoia e le mutevoli fasi della lotta da essi intrapresa contro l'eresia nelle terre piemontesi.

Le vicende politico-religiose del breve regno di Francesco II (1559-1560) non ebbero notevoli ripercussioni sulle terre del Marchesato [7].

Appena salito al trono (18 sett. 1559), il quindicenne monarca, succube dei suoi zii, Francesco di Lorena, duca di Guisa, e Carlo, cardinale di Lorena, continuò la politica intollerante instaurata da Enrico II. In agosto (1559) il duca di Guisa, approfittando della sua potenza, commetteva gravi violenze contro i riformati, che in Parigi abitavano il sobborgo di San Germano, ed il re, per parte sua, con i due editti datati il primo da Villers-Cotterets, il 4 settembre, ed il secondo da Blois, 9 novembre 1559, ordinava che fossero rase al suolo tutte le case, in cui si tenessero congregazioni di riformati e che fossero condannati a morte tutti quelli che si facevano promotori di assemblee illecite od intervenivano agli atti di culto dei riformati. Seguì nel febbraio un'altra ordinanza, la quale imponeva ai Signori, aventi l'alta giustizia, di applicare rigidamente nelle loro dipendenze gli editti precedenti, sotto pena di perdere la loro prerogativa ed invitava i Commissari parigini ad essere diligenti nel ricevere le denunzie, nell'arrestare i trasgressori e nel condannarli al bando, alla galera o alla morte, a seconda della gravità della colpa.

Le violenze dei Guisa provocarono le violente reazioni dei protestanti. Un complotto fu ordito per sorprendere la Corte nel castello di Amboise e per ottenere dal re il licenziamento dei Guisa ed una politica religiosa più tollerante. Invano il Consiglio del re cercò di attutire il malcontento concedendo il 2 marzo una speciale amnistia ai riformati incolpati di delitto di sedizione e di lesa maestà: ma perché l'editto non concedeva la libertà di culto, escludeva dall'amnistia i predicatori, i fautori di torbidi ed i cospiratori e faceva obbligo a tutti di vivere in avvenire nella sola fede cattolica, non valse a ricondurre la concordia e la pace. L'esecuzione del complotto di Amboise, fissata dapprima al 6 marzo (1560), poi rinviata al 16 marzo, falli per il tradimento di uno dei congiurati, provocando la morte del La Renaudie, principale capo della congiura, e di parecchi altri riformati. La persecuzione ricominciò ad infierire in tutto il regno, perché Vescovi, Parlamenti e Camere Ardenti si credettero autorizzati a perseguitare, imprigionare e torturare quanti rifiutavano di seguire la fede cattolica. Le violenze nei due campi si fecero anche più gravi dopo l'editto di Romorantin (maggio 1560), con il quale il giudizio dei crimini di eresia era delegato ai Vescovi e la punizione delle assemblee e delle conventicole ugonotte ai giudici presidiali. Non valsero a sanare il male né la nomina a cancelliere del mite Michele de l'Hôpital, né le esortazioni alla tolleranza ed alla concordia, che avevano risuonato, per parte di cattolici e di protestanti, nelle sedute degli Stati Generali convocati a Fontainebleau (21 agosto 1560): seguirono ben presto l'arresto del principe di Condé e del re di Navarra, rite nuti i principali responsabili delle sedizioni degli ugonotti dei complotti contro i Guisa e la Corte.

A propria difesa i capi riformati impugnarono le armi risposero alle violenze con le violenze, agli incendi dei templi protestanti con la rovina e la profanazione delle chiese cattoliche, e alle stragi con le stragi. Fra le terre del regno più coinvolte in questi funesti principi delle guerre civili ed in più intimo contatto col Marchesato di Saluzzo, troviamo il Delfinato e la Provenza, dove combattevano a capo delle forze cattoliche il Maugiron e il governatore Motte-Gondrin, sostenuti dai Guisa, e a favore dei riformati il barone Des Adrets, il Montbrun ed il Mouvans: gli uni e gli altri non senza grandi rovine e spargimento di sangue. Faceva opera moderatrice fra i contendenti il vecchio Claudio, conte di Tenda [8].

Fortunatamente i torbidi religiosi di quest'anno non dilagarono al di qua delle Alpi od inclinarono a spostarsi piuttosto verso le valli della Dora e del Chisone [9] che verso la frontiera del Marchesato. Ne reggeva in questo tempo il governo, a nome del re di Francia, Ludovico Birago  [10], di nobile famiglia milanese, segnalatosi per valore e saggezza durante le guerre tra Francia e Impero. Aveva fama di uomo amante della pace e fu da taluno perfino sospettato di nutrire segrete simpatie per la Riforma [11] e per i capi ugonotti, sebbene talora abbia dato prova di particolare rigore nel fare eseguire gli editti intolleranti dei re di Francia.

Ci fu qualche sconfinamento di perseguitati nelle alte valli del Marchesato, qualche scorreria di bande depredatrici e qualche allarme: ma la tranquillità del Marchesato non fu turbata.

Unico atto ostile ai riformati del Saluzzese nell'anno 1560 fu l'editto, già ricordato, del re Francesco II, in data 10 novembre 1560 (ma promulgato solo il 26 dicembre 12 morte sopravvenuta il 5 dic. 1560) con il quale si disponeva che nelle cinque maggiori città del Marchesato: Saluzzo, Revello, Carmagnola, Dronero e Dogliani, fossero nominati ogni anno dei Podestà scelti dal governatore generale del Delfinato o dal suo luogotenente nel Marchesato sopra una terna composta dalle Comunità, e che, per contro, nelle terre minori la nomina fosse fatta direttamente dai Consigli Comunali. La concessione, che ristabiliva un'antica usanza cara al popolo e modificava sensibilmente il precedente regolamento di giustizia promulgato nel 1549, era però accompagnata da una clausola, la quale costituiva un' evidente ostilità contro i riformati e li poneva in condizione d'inferiorità rispetto ai loro concittadini cattolici. La clausola, infatti, ingiungeva che tanto nelle grandi quanto nelle piccole città, potessero essere eletti alla carica solo «buoni christiani, buoni cattolici, di buoni costumi, vita, conversatione ». In tal modo i riformati venivano indirettamente esclusi dalla carica podestarile, che era la suprema magistratura del Comune. Tuttavia, tolleranza di governatori o necessità di eventi fecero sì che la legge non fosse sempre né dappertutto applicata rigidamente negli anni seguenti.

Tra le città del Marchesato quella, che per prima ebbe ad accorgersi della restaurazione sabauda in Piemonte, fu Savigliano. Tornata momentaneamente in potere dei duchi (15591562), essa, come sede del Tribunale del S. Offizio, risentì assai presto gli effetti della persecuzione religiosa, che E. Filiberto aveva scatenata da Nizza stessa, con l'editto del 16 febbraio 1560, contro le congreghe riformate della pianura piemontese e contro i Valdesi delle valli del Pellice e del Chisone. Savigliano, come udi in quest'anno la predicazione irenica del Padre Agostiniano, già ricordato, Girolamo Negri, così non di rado, vide miseri riformati tradotti da varie terre del Piemonte nelle carceri dell' Inquisizione, processati, torturati o gettati sul rogo: ed altri vide fuggire dalle proprie terre verso Ginevra, anelanti alla pace della loro coscienza ed alla libera professione della loro fede.

A detta del Turletti [13], in questo tempo, il Negri, che già abbiamo veduto alcuni anni prima in Val Macra intento ad arginare l'eresia, avrebbe intrapreso una fiera campagna contro gli eretici della città; e con la sua predicazione, con la sua dottrina [14] e con la sua austera condotta di vita sarebbe riuscito ad opporsi efficacemente ai capisetta eretici, i quali, approfittando della tolleranza o della connivenza dei comandanti francesi, avevano ottenuto, con vari pretesti, che fossero chiuse chiese e cappelle cattoliche, sciolte le Confraternite religiose od intralciate nel libero esercizio delle loro cerimonie. Le chiese furono riaperte e le confraternite ripresero nuovo vigore. Ferma ed efficace, l'opera risanatrice del Negri non dovette tuttavia essere accompagnata da notevoli atti di violenza, se egli tenne fede a quel programma moderato di conversione degli eretici e di purificazione della Chiesa, che espone in una lettera indirizzata al duca E. Filiberto, dove, con uguale franchezza, mentre denuncia gli errori e gli abusi della setta luterana e valdese, condanna gli scandali e l'ignoranza del clero e suggerisce al duca, per gli uni e per gli altri, i più acconci rimedi. Crediamo utile citarne i passi più significativi [15].

« Et qui sta il tutto, perché non facendosi altre provvisioni, altissimo mio signore, nonostante che si sparga il sangue, s'accendino i fuochi, s'adoperi la spada e molti si occidano, non di meno, sempre perseverando la radice del male, di nuovo rinasceranno umori, sette, questioni, eresie e per breve tempo pareranno sopite, ma non le si estingueranno, sicché, prudentissimo signore, vedo grandi difficoltà, le quali a mio giudizio si toglierebbero, riformandosi prima con efecto li boni costumi... Le armi della militia nostra non sono carnali, ma per possanza di Dio non durano li Principi, che per zelo d' Iddio puniscono li eretici di pena di morte, ma dico che li ministri dell'evangelio debbono solo procurare la loro conversione.... In conclusione dico el primo remedio sta in riformar li costumi e in prender di boni pastori, che stiano alla custodia del suo gregge, et cum questo replico che il negotio è molto arduo, perché bisogna stirpare le radici dell'avaritia e dell'ambitione, e le spine della parabola del Nostro Redentore soffocano il bon semente ed è necessario ancora che li principi non tenghino alla corte per pompa e gloria li prelati e pastori che hanno cura d'anime, li quali spendono i beni de' poveri senza profitto spirituale.... ». Purtroppo le sue nobili esortazioni ad una condotta di moderazione e di persuasione nella conversione degli eretici non furono ascoltate né messe in pratica, non solo dal S. Offizio di Savigliano, ma neppure dal duca, che motivi politici e religiosi spronavano al rapido sterminio dell'eresia nei suoi Stati.

Una delle vittime più illustri fu Vincenzo Adamo Cambiano dei gentiluomini di Ruffia e di Rigrasso [16], terre situate nel distretto di Savigliano. Vincenzo già era stato condannato negli anni precedenti per eresia luterana: assolto, o per abiura o in considerazione della sua nobiltà, era ricaduto poco dopo nella stessa colpa, sicché, come relapso, era stato condannato a morte in contumacia ed era stata pronunciata sentenza di confisca contro i suoi beni personali. Ma l'eretico, lungi dal piegarsi e dal riconoscere i suoi errori, si era infervorato sempre di più nelle nuove dottrine: anzi, abbandonata la patria, si era ritirato a vivere apertamente all'eretica «appo perversi heretici et huomini empii », alternando la sua dimora tra Ginevra, la valle di Luserna e le terre transalpine più popolate di dissidenti.

Il fatto fu segnalato al duca di Savoia, il quale, per punire esemplarmente l'eretico ostinato e per dare agli altri una lezione salutare, decise di spogliare per sempre Vincenzo dei suoi beni devoluti al fisco, Infatti, con Patente in data 3 giugno 1560, E. Filiberto ricompensava Giov. Battista Cambiano dei Signori di Ruffia, che si era segnalato nella difesa di Cuneo, conferendo a lui ed ai suoi eredi legittimi, come dono grazioso e perpetuo, « tutti i beni feudali ed allodiali e di qualsivoglia sorte, quali per lo passato spettavano nel castello, luogo et territorio di Ruffia al detto Vincenzo e da poi sono devoluti a noi e al nostro fisco ». Un mese dopo, con analoga Patente in data 3 luglio (1560), il duca completava la donazione, conferendo a Gaspare Cambiano, altro parente del condannato, tutti i beni già appartenuti a Vincenzo e situati “nel castello di Rigrasso e in Savigliano”.

Vincenzo si rassegnerà alla prima donazione, essendo Ruffia terra stabilmente sabauda: non così alla seconda. Infatti, non appena Savigliano (1562) ritornerà sotto il governo francese ed alle dipendenze del Marchesato, egli reclamerà - come vedremo - l'annullamento della sentenza ducale e la restituzione dei beni di Rigrasso come situati in terra francese e illegalmente caduti in mano di sudditi stranieri. Per la revoca della prima donazione interverranno, invece, ma senza frutto, i Valdesi della valle del Pellice, quando nel 1561 stipuleranno con il duca il trattato detto di Cavour, il quale poneva termine alla sanguinosa campagna militare del conte della Trinità.

Meno illustri del Cambiano, ma più infelici, furono parecchi altri riformati, che in Savigliano subirono lunga prigionia e forse la morte stessa per la franca testimonianza della loro fede: Battista Agnesi, Giovanni Ranieri e Pietro Drella.

L’Agnesi era notaio e uomo “di buona dottrina e di grande zelo”, nativo di Bibian, all’imbocco della valle di Luserna. Era stato mandato a Savigliano dalle comunità valdesi “per alcuni servizi di chiesa” [17] sia che si trattasse di predicare e celebrare qualche atto liturgico in seno a quella piccola congrega riformata, sia che egli come opina il Jalla semplicemente latore di una lettera a Renata di Francia, duchessa di Ferrara, la quale si trovava colà di passaggio, ospite della Corte ducale. La lettera era stata scritta, a nome di tutte le chiese riformate delle Valli, dal celebre frate Scipione Lentolo, napoletano, che aveva predicato con grido la quaresima alla Corte di Ferrara alcuni anni prima; poi, passato alla fede riformata e da frate diventato ministro, era stato mandato dalla chiesa ginevrina a reggere la parrocchia valdese di San Giovanni, in Val Pellice. Il Lentolo, confidando nella dimestichezza avuta con la duchessa e conoscendo l'intima fede riformata di lei, la supplicava di prendere sotto la sua protezione le chiese delle Valli e della pianura piemontese, violentemente perseguitate, e di intercedere per esse presso il duca E. Filiberto e specialmente presso la consorte Margherita, che dimostrava sentimenti di tolleranza e di consenso verso le nuove dottrine.

Non sappiamo quale sia stata l'opera di moderazione, che la duchessa Renata di Francia svolse presso la Corte: sappiamo invece che ben triste fu l'epilogo del viaggio dell'Agnesi. Denunziato come eretico e dommatizzatore, fu gettato in carcere, dove già penava un altro infelice, Martino Stagniniero, di Torino 18, e dove presto lo raggiunsero due altri suoi conterranei, il notaio Giovanni Ranieri ed il sarto Pietro Drella 19, arrestati dai birri ducali nelle terre di Bibiana «< come dommatizzatori luterani » cioè valdesi. Tra infiniti maltrattamenti ed insulti i quattro infelici furono tradotti dalle carceri di Savigliano in quelle di Fossano, dove allora si era trasportata la Corte sabauda. La sorte dell'Agnesi e dello Stagniniero ci è ignota. Quanto al Ranieri ed al Drella, sappiamo che essi rimasero nelle carceri per circa trentacinque giorni, attendendo impavidi la loro sentenza, senza cessare un solo istante di dare franca testimonianza della propria fede. Una notte (16 nov. 1560), o per la negligenza delle guardie, o per la complicità di amici, essi riuscirono a fuggire, e, dopo una fuga avventurosa, a riparare in Carmagnola, terra francese, dove trovarono fraterna assistenza presso i confratelli riformati.

Meno fortunato del Ranieri e del Drella era stato alcuni mesi prima un altro religionario, che alcuni storici dicono nativo di Carignano, ma altri di Cartignano, in Val Grana, terra del Marchesato. Si chiamava Giovanni da Cartignano (o da Carignano) [20]; ma, perché fabbricava cannucce per botti e tini, era volgarmente conosciuto sotto il nome di Giovanni delle Spinette. «Era persona assai pia e da bene dice il Lentolo che gli fu contemporaneo ed era stato molte volte preso prigione per la religione e sempre per un singolare favore di Dio, se n'era uscito libero senza offendere la pietà », cioè senza abiurare la sua fede. Arrestato, mentre da Val Luserna si recava al mercato di Pinerolo, fu condotto a Carignano e quivi arso vivo il 18 marzo 1560. «Per lo cammino e nella prigione aggiunge il suo biografo et sopratutto nella morte mostrò una costanza invincibile sì per cagione della pura e libera confessione ch' ei fe' della dottrina di salute, sì anchora portando meravigliosamente in patientia gli horribili tormenti, che gli convenne soffrire et nella prigione et nella morte.

Il Ferrerio [21] pone in questo stesso anno l'introduzione di predicatori gesuiti itineranti nelle valli del Po, della Varaita, della Macra e della Grana, dove i nuclei dissidenti dovevano ormai essere numerosi ed influenti e dove l'eresia avrebbe opposto ad essi una fiera resistenza. Ma la notizia appare poco sicura ed è forse da riferire ad anni posteriori [22]. 11 5 dicembre 1560 moriva, dopo appena un anno di regno, Francesco II e saliva sul trono di Francia, sotto la tutela della madre Caterina de' Medici, il fratello Carlo IX, fanciullo di dieci anni.

Nonostante gli editti intolleranti, che provocarono in Francia le prime guerre fratricide e che nel Marchesato escludevano i riformati dalla carica di Podestà, i protestanti saluzzesi continuarono ad accrescere il loro prestigio e ad essere ricercati per importanti uffici. Lo prova il fatto che, appunto in quest'anno, Alfonso Biandrata 23, fratello del celebre medico ed eresiarca, poté sedere indisturbato come sindaco nel Consiglio Comunale di Saluzzo e che, insieme con un altro noto riformato di Dronero, Vincenzo Polloto, fu tra tutti designato dalla Congregazione Generale del 15 giugno per recarsi a Nizza a supplicare il duca di Savoia, affinché si degnasse revocare i dazi recentemente posti sull'esportazione dei grani dal Piemonte; dazi, che danneggiavano gravemente gl' interessi del Marchesato [24].

La persecuzione religiosa, che il duca di Savoia aveva scatenata fin dai primi mesi del 1560 in tutti i borghi città della pianura piemontese, ma soprattutto la guerra lunga e sanguinosa, ch'egli aveva intrapresa contro i Valdesi della Valle del Pellice [25], dove aveva mandato un corpo numeroso di milizie regolari e volontarie al comando di Giorgio Costa, conte della Trinità, avevano avuto una duplice conseguenza: che molti riformati dei domini sabaudi cercassero rifugio sulle terre del Marchesato appartenente alla Francia, e che parecchi religionari del Marchesato, a loro volta, accorressero a prestare aiuto ai Valdesi perseguitati dal conte.

Questo fatto naturalmente spiacque al duca, che in tal modo vedeva frustrate le sue speranze e le sue fatiche: perciò, come protestò presso le autorità francesi di Pinerolo e della valle della Perosa, perché lasciavano uscire dalle loro terre vettovaglie e munizioni a favore dei ribelli [26], altrettanto risolutamente si lagnò presso il governatore del Marchesato, perché permetteva agli abitanti di correre in aiuto dei Valdesi, di accogliere sulle terre marchionali i sudditi ducali banditi per causa di religione o feriti nelle azioni guerresche 27, e consentiva che di là, al sicuro, continuassero i loro traffici ed i loro intrighi con i suoi sudditi piemontesi.

Il Birago [28] si giustificò dapprima a voce, inviando al duca suo fratello Carlo, che in nome di E. Filiberto teneva la piazza di Savigliano; poi per iscritto, indirizzando una lettera al conte Giov. Matteo di Cocconato, ministro del duca: lettera, nella quale egli mostrava l' infondatezza delle accuse rivoltegli ed allegava i provvedimenti, che già di spontanea iniziativa aveva preso a carico dei riformati, che si annidavano nelle terre del Marchesato ed erano sudditi sabaudi.

Nel frattempo giungevano al Birago, sullo stesso argomento, anche due lettere da Parigi: una del re, l'altra della Regina Madre (Caterina de' Medici), le quali riferivano le lagnanze mosse dal duca per l'asilo concesso ai riformati sabaudi e gli ordinavano di ricercare immediatamente tutti i proscritti ed i fuggitivi e di consegnarli agli ufficiali ducali, perché potessero ricevere il meritato castigo.

La sollecitazione alla Corte parigina era stata fatta dal duca per il tramite del vescovo di Tolone, Girolamo della Rovere, suo ambasciatore a Parigi, e per mezzo del Signor di Tournon e del vescovo di Fermo, mons. Lorenzo Lenzio [29].

Quest'ultimo, abboccatosi con il Tournon e con la regina madre, aveva esposto con grande calore i gravi inconvenienti, i quali risultavano dal fatto che gli eretici, perseguitati dal duca, si ritiravano nel Pragelato, nel Marchesato di Saluzzo ed in altre terre regie al di qua delle Alpi, continuando dal loro rifugio a seminare il veleno della loro eresia e della loro ribellione. Le sue rimostranze riuscirono a strappare alla regina la promessa che la Corte avrebbe immediatamente scritto al Sig.r di Bourdillon, luogotenente generale del re in Piemonte, a Ludovico Birago, governatore del Marchesato, ed al Sig.r della Motta-Gondrin, governatore del Delfinato, affinché essi, ciascuno nella propria giurisdizione, prendessero provvedimenti atti a placare le lagnanze del duca di Savoia.

Il Birago, per parte sua, si scusò presso la Corte parigina, protestando che egli non aveva mai concesso né rifugio né protezione a gente di tal fatta nelle terre della sua giurisdizione ed adducendo vari fatti a riprova della sua scrupolosa diligenza. Avuto sentore che alcuni abitanti di Cuneo, religionari, si erano ritirati nella valle della Grana, li aveva fatti sloggiare immediatamente di sua iniziativa, senz'aspettare le sollecitazioni di chicchessia; nello stesso tempo aveva cacciato anche i ministri di Praviglielmo, in Val Paesana, ed un fraticello, certo Monocolo [30], che aveva un salvacondotto del duca, ma era stato accusato in certi processi « di aver insegnato tal dottrina » cioè quella ugonotta.

La rimostranza della Corte parigina obbligò il Birago non solo a confermare le precauzioni già prese di propria iniziativa, ma a proclamare in tutte le terre della sua giurisdizione un ordine più preciso e più severo, che trasmise in copia al duca stesso come prova della sua buona volontà e della sua costante lealtà.

L'ordine era del seguente tenore [31]:

«Ludovico Birago ecc. Seguendo l'ordine di Sua Maestà, qual non intende che alcun soggetto dell' Illustrissimo Sig. Duca di Savoia intitulato d' heresia habbia recapito sicuro in questo Marchesato, si ordina et espressamente si comanda che nel spatio di tre giorni dopo la pubblicatione delle presenti nei luoghi soliti, tutti li sudditi d'esso Sigr. Duca, ritirati in questo Marchesato per tal causa, habbino da assentarsene sotto pena della vita, condannando medesimamente oltre della sudetta pena della vita, nella privatione de' beni tutti quelli gli daranno recapito et più coloro che sapessero dove fossero di detta sorte di gente o che li ricettassero et non venessero subito farlo intendere a noi. Nelle quali pene incorreranno similmente tutti quelli che per diretto o indiretto daranno aiuto o favore alli heretici d' Ingrogna et Valle di Lucerna. Et a fine che meglio si possa venir a notitia di tali delinquenti, si fa manifesto che a chi li paleserà, si darà il terzo delli loro beni et il rimanente sarà irrimissibilmente applicato alla Camera Regia Marchionale. Dato in Saluzzo alli 29 di gennaio 1561».

Non ne rimase però soddisfatto il duca di Savoia, il quale il 3 febbraio replicò le sue lagnanze al governatore, precisando che a Dronero, a Val Grana, a Cerreto ed in altre terre del Marchesato si dava sicuro «suffragio et comodità di star et negotiar" agli eretici fuggiti dalle terre ducali e che in tutto il Marchesato si lasciava ai ministri ugonotti piena libertà di predicare le loro dottrine.

Di fronte a queste sempre più gravi e precise denunzie del duca, non rimase altro da fare al Birago, per mostrare l'infondatezza delle accuse e la sua incolpabilità, che mandare il Prevosto di Giustizia in giro per le terre, che si ritenevano più sospette, affinché indagasse se vi era «tal sorte di gente », e, trovandone, la catturasse, e, non trovandone, facesse del fatto regolare attestazione ».

Il Prevosto fece il giro d'ispezione prescrittogli; ma a detta del Birago non trovò nessuno. Dell'esito negativo delle indagini redasse «regolari testimoniali», che il Birago trasmise alla Corte torinese. Fu acclusa anche una lettera, nella quale (12 febbr. 1561) il governatore dava notizia di quanto aveva operato nell' interesse del servizio del duca e rinnovava a S. A. la promessa di soddisfarla in ogni occasione, e tanto più in questa, nella quale il desiderio del duca collimava con l'esplicita volontà del re, suo signore.

L'ispezione del Prevosto aveva dato esito negativo, non tanto perché non esistesse il fatto lamentato dal duca, quanto perché, all'avvicinarsi del magistrato, i sudditi ducali riformati o si erano spostati o erano stati diligentemente occultati od addirittura protetti dalle autorità locali, là, dove la Riforma aveva profondamente permeato il popolo ed i Consigli Comunali. Il che poté avvenire non solo nella Valle di Paesana, popolata di forti nuclei valdesi, ma anche in tutta la Val Macra e nelle terre situate allo sbocco di essa.

Qui, infatti, la Riforma aveva fatto notevoli progressi, favorita dalle intense relazioni commerciali con la Provenza e il Delfinato e dai facili contatti spirituali con i forti gruppi riformati di Caraglio, Busca, Villafalletto, Cuneo, situati su terra ducale. Oltre ai Comuni delle alte valli della Macra e della Varaita erano centri minacciosi d'infezione ereticale: Verzuolo, Valgrana, Centallo, ma soprattutto Dronero, centro attivissimo del Marchesato. Ne fanno fede non solo le predicazioni dei Padri Gesuiti 32, appositamente inviati a fronteggiare i progressi dell'eresia; ma i provvedimenti stessi che in quel tempo furono presi in Dronero a danno della Chiesa e delle persone ecclesiastiche: atti, che mostrano come i riformati, ammessi o no nei Consigli Comunali, esercitavavo ugualmente una notevole influenza ed ingerenza nell'amministrazione della cosa pubblica.

Narra il Manuel [33] che in quest'anno il Consiglio della città prescrisse che il quaresimalista, che era solito venire ogni anno a predicare e che fino allora aveva ricevuto lo stipendio dal Comune, dovesse per l'avvenire essere risarcito dal vescovo e dai pievani sui redditi loro spettanti nelle terre droneresi. Fu pure deliberato di ricorrere alla Corte del Parlamento di Grenoble, per ottenere che la quarta parte dei beni e dei redditi della Chiesa fosse devoluta ai poveri. Queste provvidenze, fatte in odio della Chiesa ed a vantaggio del ceto più povero della città, risentono dello spirito sociale, che animava la Riforma e mostrano come essa, anche con queste e simili provvidenze umanitarie, si sforzasse di guadagnare alla sua causa sempre più numerosi aderenti nel ceto popolare.

Ma aveva fautori aperti ed influenti anche tra la nobiltà della terra. Erano a capo del partito protestante dronerese le famiglie nobili dei Guarini o Guerino, dei Reynault, dei Truchi, dei Bonelli, dei Lombardi, alcuni membri delle quali già da un decennio avevano aderito alla Riforma e annodate relazioni con la Ginevra protestante. Ma più importante ancora era il casato dei Polloto (o Polloti), che ebbe in Vincenzo 34 non solo uno dei suoi membri più illustri ed accreditati, ma uno dei più strenui propagatori e difensori della riforma nel Saluzzese.

Giurista e notaio, dotato di doti non comuni per il maneggio della cosa pubblica, esperto tanto nel campo economico quanto in quello finanziario e politico, Vincenzo Polloto ricoprì fin da giovane alti uffici e delicate missioni.

Nel 1552 fu mandato deputato al Gonzaga di Mantova e ottenere poco dopo al duca di Guisa ed al re di Francia, per speciali privilegi ed esenzioni adatti ad attutire i mali, che gravavano sul Marchesato. Non ritornò di là che l'anno seguente (1553), portando preziose concessioni a favore del Comune.

Durante il lungo soggiorno in Francia il Polloto - a detta del Manuel avrebbe abbracciata la fede protestante, di cui al suo ritorno si sarebbe fatto ardente propugnatore nella cerchia della famiglia e della città. Ma forse è da credere che come quella dei suoi conterranei, Guarino e Bonello, la sua fede riformata risalga a parecchi anni prima e possa essere assegnata agli anni stessi giovanili, quando, attendendo agli studi del giure e del notariato, frequentava università italiane o straniere.

Nello stesso anno 1553 Vincenzo fu designato come uno dei quattro Eletti del Marchesato [35] a rappresentare i Comuni di Dronero e della Val Macra Superiore, e in tale carica [36] rimase fino al 1559, quando i deputati delle Comunità, accusando gli Eletti di abusi e di malversazioni, ottennero dal duca di Guisa, governatore del Delfinato e del Marchesato, di potersi radunare per deporre gli Eletti ed obbligarli a rendere conto del loro operato. L'assemblea, adunatasi il 28 giugno 1559 in Saluzzo [37], dichiarò decaduti i quattro Eletti e ne nomino altri due. Ma a queste deliberazioni si opposero le Comunità di Dronero e di San Damiano ed i Comuni della Val Macra Superiore, sia per la grande autorità, di cui il Polloto godeva, sia perché, popolati di riformati, volessero tutelare la buona reputazione del loro correligionario e reclamassero la sua partecipazione al consiglio degli Eletti. Sta il fatto che il Polloto riuscì a liberarsi da ogni accusa, poiché nella successiva Congregazione Generale del 9 nov. 1561, in cui i suoi ex colleghi Jacobi ed Amedei furono citati in giudizio, egli poté sedere come giudice di essi in rappresentanza del Comune di Dronero. Nel 1560 (15 giugno) come già abbiamo ricordato [38] - egli fu eletto ambasciatore del Marchesato per recarsi a Nizza dal duca di Savoia, in compagnia di un altro riformato, il saluzzese Alfonso Biandrata. Negli anni 1561-62 lo troviamo Podestà di Dronero, come prescelto dal governatore Ludovico Birago nella terna presentatagli (21 agosto 1561) dai rappresentanti dei Comuni di Dronero, San Damiano, Pagliero e dei 12 Comuni minori della valle di Macra Superiore: e ciò ad onta dell'editto del 10 novembre (o 26 dic. 1560) che, ristabilendo l'elezione dei Podestà secondo il sistema marchionale, aveva tuttavia esplicitamente escluso i riformati da tale carica.

Non meno ardenti fautori della Riforma furono anche i figli di Vincenzo: Marcantonio, di cui avremo altre volte occasione di parlare, e Lorenzo, che nel 1563 s'iscrisse studente all'Accademia di Calvino a Ginevra [39].

I rigogliosi progressi della Riforma a Dronero, nella Val Масга e nelle terre adiacenti sembrerebbero legittimare le notizie del Manuel e del Rorengo [40], secondo i quali o nel 1561 o nel 1562 due frati gesuiti sarebbero stati mandati in quella parte del Marchesato notoriamente infetta. Dei due Padri, uno avrebbe esercitato il suo ministerio in Dronero stessa, l'altro nelle campagne circostanti. La loro predicazione però avrebbe incontrato scarso successo, perché una ventina appena di persone avrebbe abiurata la fcde riformata per fare ritorno alla chiesa cattolica. Ma la notizia, come altre consimili già ricordate, non ha sicuro fondamento cronologico per la confusione che regna nel racconto del Rorengo, dal quale il Manuel attinge la notizia e perché altre fonti, più attendibili e precise, ci consigliano di ritardare di circa un ventennio la data dei fatti sopra riferiti. Se ci fu predicazione di frati gesuiti in quegli anni, essa dovette essere forzatamente occasionale e saltuaria.

Come a Dronero ed in val Macra, così, sporadicamente, in altre terre del Marchesato la Riforma andava in questo tempo consolidandosi ed organizzandosi. I nuclei riformati, a mano a mano che infittivano e si trasformavano in piccole congreghe, sentivano il bisogno di sostituire alla predicazione di semplici laici o di ministri itineranti, il servizio regolare e stabile di un ministro, il quale alla predicazione unisse l'istruzione catechetica dei fanciulli e degli adulti, potesse validamente sostenere dispute e controversie ed avesse l'autorità riconosciuta per amministrare i Sacramenti della Cena e del battesimo: in una parola si addossasse l'intera responsabilità della condotta morale e spirituale della chiesa nascente. Tale bisogno era tanto più sentito, in quanto la persecuzione e le guerre scatenate contro i Valdesi delle valli del Pellice e del Chisone rendevano sempre più saltuari e pericolosi i contatti, prima intensi, dei riformati del Marchesato e della pianura piemontese con le fiorenti chiese di Val Luserna.

Di questa esigenza ecclesiastica troviamo l'eco accorata in una lettera, che il ministro di Angrogna, Stefano Noël, scrisse alla Compagnia dei Pastori di Ginevra nella prima metà del maggio 1561. Riferiamo il testo nella sua forma originaria latina, perché la traduzione italiana 41, che ne fu fatta, può dar luogo a qualche dubbio ed a qualche obiezione: Marquisani vos obsecrant ut ad se ministrum pium, doctum, in ministerioque (si fieri possit) exercitatum, mittatis. Illi in Marchionatu Saluciarum siti sunt, ac soli. Multi cotidie ad illum undique confluent non solum ad concionem audiendam, sed etiam ad consilium de religione petendum. Eius loci homines valde pii sunt spectataeque probitatis, qui ante annum papismum prorsus obnegaverunt. Distant autem a nobis ferme decem miliaribus. De gente illa, moribus ac situ, melius a tabellario cognoscetis. Mittunt nonnihil ad impensas in itinere faciendas ».

Il Jalla, che dà la versione italiana del passo, traduce il termine «marquisani » con quelli del Marchesato», che, a nostro avviso, non ha senso, se si mette in riferimento con la frase seguente: « essi sono nel Marchesato di Saluzzo e soli ». Evidentemente il termine « marquisani » ha valore restrittivo, indica cioè «alcuni del Marchesato », non già « tutti quelli del Marchesato». Anzi, per analogia con il termine «marquisana », che nel latino medievale significa spesso «marchesa » 42, si potrebbe legittimamente vedere nella parola << marquisani >> un'allusione ad alcuni di quei Signori di nobiltà antica o di stirpe marchionale, che come i Saluzzo di Valgrana, Montemale, Verzuolo e Cardé, avevano aperte simpatie per la Riforma. Ma determinare con sicurezza di quale località o di quale famiglia nobile o marchionale si parli nel documento sopracitato, non è cosa molto agevole. Il Jalla opina che si possa trattare di Busca e cita a sostegno della sua congettura non solo i rigogliosi progressi fattivi dalla Riforma ed attestati dalla lettera del medico Alosiano, ma anche una testimonianza dello storico Bernardi 43, secondo il quale nel 1561 a Busca, a Chieri ed altre località del Piemonte sarebbero “accaduti fatti”, a quanto sembra, di natura religiosa. Ma il Jalla dimentica che Busca da tempo non faceva più parte del Marchesato di Saluzzo e che per la sua vicinanza con Dronero, dove già predicavano ministri riformati, non aveva urgente bisogno della condotta spirituale di uno stabile predicatore. Noi propendiamo piuttosto per Levaldigi, terra marchionale, nel distretto di Savigliano, e più vicina di Busca alla valle di Luserna. Erano signori di questa terra i fratelli Solaro, i quali verso questo tempo aderirono apertamente alla Riforma, proteggendola e propagandola con grande zelo tanto nel loro feudo di Levaldigi quanto in quello di Caraglio, dove quasi la totalità della popolazione abbraccerà le nuove dottrine [44]. Ma per quanto dubbia sia la località designata, il documento rimane pur sempre importante per il suo contenuto: ci attesta infatti l'interesse crescente che la nuova fede veniva suscitando nel popolo del Marchesato e come affluissero da molte parti verso i nuclei riformati numerose persone desiderose di essere istruite nelle nuove dottrine. Sicché era ormai urgente, per il buon andamento delle congreghe, sostituire i laici dommatizzatori con dei ministri stabili e provetti e dare alle chiese nascenti un'organizzazione ecclesiastica simile a quella delle chiese riformate di Francia o della valle di Luserna.

Qualche congrega già stava organizzandosi ecclesiasticamente in Val Paesana, dove ai Valdesi riformati dei villaggi di Bietonetto, Bioletto e Praviglielmo era stato mandato dalla valle di Luserna, come predicatore e conduttore, nonostante lo sfratto dato dal governatore Birago l'anno precedente, il ministro Domenico Vignaux, persona dotta e zelante [45]. A Centallo aveva iniziata la sua opera di fecondo proselitismo il ministro Francesco Truchi, nativo di quella terra: e a Dronero, Valgrana e Val Macra il ministro Francesco Guerino (o Garino) 46, anch'esso nativo di quella valle, e reduce, come il Truchi, da Ginevra, dove essi avevano compiuti i loro studi teologici ed erano stati consacrati ministri. Il Truchi era uomo di grande pietà e dottrina; più esuberante e talora intemperante il Guerino. Ignoriamo, se fossero venuti in quelle terre di propria iniziativa per diffondere le nuove dottrine nella cerchia dei loro parenti e concittadini, oppure se vi fossero stati mandati dalla Chiesa ginevrina per prestarvi il loro regolare ministerio e dare una stabile disciplina ecclesiastica a quelle congreghe ormai fiorenti.

Intanto in Francia la situazione sembrava gradatamente mutare a maggiore tolleranza verso i protestanti, perché la Corte temeva la crescente potenza dei Guisa.

I Tre Stati, radunatisi ad Orléans, dal 13 dicembre 1560 al 31 gennaio 1561, avevano, alla loro chiusura, emanato (28 genn.) un'ordinanza - confermata poi con le Patenti del 22 febbraio [47] - nella quale, mentre si affermava la necessità della riforma del clero e si protestava contro la venalità degli uffici e si prescrivevano nuove norme per l'elezione dei Vescovi, si ordinava, in pari tempo, la sospensione della persecuzione religiosa, il rilascio dei prigionieri detenuti per motivo di religione, ad eccezione dei capi e dei cospiratori, « en les admonestant de vivre catholiquement à l'advenir ». E poiché l'editto aveva provocato la reazione dei cattolici più intransigenti, il 19 aprile (1561), con altro editto, era stato vietato a cattolici ed a protestanti di insultarsi reciprocamente ed era stato interdetto anche il culto privato dei riformati, ma più ufficialmente che effettivamente, perché, in segreto, esso era stato autorizzato con lettere private al Procuratore Generale 48. I riformati, insoddisfatti, reclamarono la libertà del culto pubblico e la convocazione del Parlamento (23 giugno-14 luglio 1561). In luglio 49 la Corte promulgò un nuovo editto, che interdiceva bensì le conventicole private e pubbliche “nelle quali si facessero prediche ed amministrazione di Sacramenti in altra forma che quella usata dalla Chiesa Cattolica”, con o senza armi, ma si temperavano in pari tempo con altri articoli gli eccessi di zelo dei magistrati, si punivano con severe sanzioni i falsi delatori, si proibivano le ingiurie, le intemperanze dei predicanti e dei fedeli dei due culti e le inchieste del popolo nelle case dei riformati e si sospendevano i supplizi fino alla riunione di un Concilio Generale.

L'editto non soddisfece tuttavia né cattolici né protestanti: ai primi parve che si fosse troppo concesso all'eresia ed ai secondi che fosse stato concesso troppo poco per instaurare una politica di concordia e di tolleranza [50].

In settembre si radunò il famoso colloquio di Poissy (9 sett.18 ott. 1561), dove teologi cattolici e protestanti sostennero i propri dommi con grande sfoggio di eloquenza e di dottrina, ma senza raggiungere né l'unità della fede né la conciliazione degli animi [51].

La Riforma approfittò delle benevole disposizioni della Corte e della mitezza del Cancelliere Michele de L'Hôpital per fare ulteriori progressi ed il 17 gennaio 1562 otteneva un nuovo editto 52, assai più favorevole dei precedenti, il quale segnava come la carta del suo affrancamento, poiché da un regime di persecuzione essa passava quasi al godimento del diritto comune.

L'editto, seguito da una Patente esplicativa del 14 febbraio, concedeva piena amnistia ai riformati, e, in attesa delle deliberazioni del prossimo Concilio, permetteva loro di radunarsi di giorno fuori delle città per fare prediche, preghiere ed altri esercizi del loro culto; di convocare sinodi e concistori e di fare collette per le necessità delle loro congreghe. Prescriveva tuttavia che a tali adunanze potessero assistere, senza impedimento né molestia, gli ufficiali regi, ogni qual volta lo ritenessero opportuno, specificando che per ufficiali (patente del 14 febbr.) si dovevano intendere quelli ordinari (come ballivi, senescalli, prevosti, luogotenenti), non quelli della Corte Sovrana dei Parlamenti né altri estranei. Ordinava inoltre che nessuna Sinodo potesse essere tenuta senza la preventiva autorizzazione delle autorità designate dal governo e che in esse non si potesse trattare altra materia che quella attinente a questioni religiose. In cambio delle concessioni ricevute i riformati si obbligavano a restituire le chiese ed i beni ecclesiastici, di cui si fossero impadroniti. Infine ai predicatori delle due religioni era vietato d'insultarsi reciprocamente dai pulpiti delle chiese.

L'editto, che sembrava aprire alla Riforma un'era di maggiore tranquillità e di progresso, ebbe immediate ripercussioni al di qua delle Alpi [53]. I riformati di Torino, di Chieri e delle altre piazze, ancora tenute dai Francesi, ne approfittarono per raddoppiare il loro zelo e per reclamare che anche ad essi fosse riconosciuta la libertà di avere ministri e pubblici templi e di poter celebrare indisturbati i loro culti ed i loro atti liturgici.

La concessione poteva avere gravi conseguenze per la fede cattolica! Perciò Torino fu pronta a correre ai ripari (29 gennaio 1562).

In questa città, dopo l'occupazione francese (1536), le dottrine della Riforma avevano aperta una breccia allarmante tra la popolazione cittadina. Ne avevano favorito i progressi: la tolleranza dei governatori e dei luogotenenti generali del re; la presenza di presidî, di ufficiali e magistrati luterani e calvinisti; l'assidua predicazione di riformati e di frati apostati e l'afflusso di numerosi mercanti transalpini [54].

Per arginare i mali, che le nuove libertà concesse in Francia avrebbero potuto aggravare o favorire, i decurioni della città [55] decisero d' inviare a Parigi un deputato nella persona di Giovanni Antonio Parvopassu. Costui, munito di apposito Memoriale, doveva provocare dal re pronti e salutari provvedimenti, mostrando il grave danno che l'incalzante eresia arrecava non solo alla fede cattolica, ma all'integrità ed alla sicurezza stessa dei dominî francesi al di qua delle Alpi, e il discapito e la rovina che Torino, capitale del Piemonte, avrebbe risentito nel suo prestigio e nella sua attività commerciale, se si fosse sparsa la fama che essa era città eretica [56].

La deputazione, patrocinata dal vescovo di Tolone, Girolamo della Rovere, ambasciatore del duca alla Corte parigina, incontrò facile successo. Infatti, la Corte, a voce e per iscritto, diede le più ampie assicurazioni che il culto riformato sarebbe stato interdetto non solo nella città di Torino, ma in tutte le altre piazze francesi e che ne sarebbero cacciati i ministri ed i dommatizzatori. Premeva certamente al re di togliere al duca di Savoia ed al papa, che lo assisteva, il pretesto del pericolo dell'eresia per reclamare la restituzione delle piazze, che la Francia ancora teneva in Piemonte.

Il 27 febbraio i Reali di Francia, Carlo IX e Caterina de' Medici, indirizzarono un apposito ordine a Guiberto de La Platière, Sr. di Bourdillon, governatore di Torino e Luogotenente Generale del re al di qua dei monti, per esortarlo a porre immediatamente e diligentemente in atto quanto gli era ordinato per reprimere i progressi dell'eresia. J'ay bien voulu Vous fere incontinent la presente pour vous prier, mon cousin, de regarder et empescher le plus qu'il vous en sera possible les dictes assemblées et presches par ceulx de la dicte nouvelle Religion soit dedans la dicte ville ou dehors et non seulement audict Thurin, mais par tout le reste des villes et places, que je tiens en Piemont, enjoignant a tous predicants et ministres de vuyder hors des dictes villes et places, et a ne fere cy apres aulcun presche ou assamblée soit en public ou privé, soubs peine den fere telle correction et chatiment que tous aultres leurs semblables y prendront exemple: a quoy de vostre part je vous prie y tenir main affin que telles choses nadviennent.... ».

Il Bourdillon fu pronto a far eseguire l'ordine non solo nelle terre direttamente dipendenti dalla luogotenenza generale del re al di qua delle Alpi, quali Torino, Chieri, Pinerolo e Val Perosa, ma anche in altre terre regie situate fuori di questi confini. Gliene davano piena autorità le Patenti [57] rilasciategli da Francesco II, in data 31 marzo 1559, con le quali il re gli conferiva la luogotenenza generale al di qua dei monti e fissava le mansioni e le attribuzioni inerenti alla sua carica. In esse, constatata la continua assenza, per servizio del re, del duca di Guisa, governatore del Delfinato e del Marchesato di Saluzzo, la Corte deferiva al Bourdillon anche la sorveglianza generale sul Marchesato, ordinandogli di «provvedervi e di darvi ogni soccorso, favore e assistenza », in modo che non si dovesse lamentare in esso nessun inconveniente. In virtù di questi ampi poteri è verisimile che il Bourdillon, o direttamente, o indirettamente per il tramite del Birago, luogotenente del duca di Guisa nel Marchesato, estendesse gli stessi ordini repressivi anche alle terre saluzzesi. Ciò sembra confermato dal suo pronto intervento in una delle terre più lontane del Marchesato, Centallo, posta allo sbocco della Valle di Maira. La Riforma aveva messo colà tenaci radici da oltre un ventennio, sotto la palese protezione dei Bolleri, signori della terra, i quali erano vassalli degli antichi marchesi per i loro possessi piemontesi, ma vassalli dei re di Francia per i loro feudi transalpini situati nella Provenza, presso gli antichi centri valdesi di Mérindol e di Chabrières, che essi avevano validamente protetto come già abbiamo visto durante la violenta persecuzione del barone d'Oppède (1545). Fin dal 1561 vi predicava apertamente le nuove dottrine il ministro Francesco Truchi. Il pericolo che la città a poco a poco abbandonasse la fede cattolica, insidiata dalla presenza di un forte nucleo di riformati, dalla predicazione del ministro e dalla acquiescenza o connivenza dei Signori stessi della terra, indusse l'Arcivescovo di Torino, dal quale Centallo dipendeva spiritualmente, a premere sul Bourdillon, affinché facesse eseguire anche in quella terra gli editti repressivi del re di Francia. Il luogotenente cedette ed il 4 aprile 1562 indirizzò una lettera 58 al castellano di Centallo, per intimargli di cacciare il Truchi e con lui ogni altro dommatizzatore.

Signor Castellano. Siamo avvertiti dal Vicario di Monsignor di Torino essere costì uno chiamato Francesco Truchio, il quale fa professione di predicare la nova religione, cosa che sua Maestà ne ha mandato et espressamente ordinato non tolerare nelle terre di sua obbedienza di qua dai monti. Anzi di licentiar et far partire subito li ministri et predicanti, acciò ch' il populo vivi col suo antico et solito modo di religione. Imperò con questa in esecutione di tal ordine vi ordiniamo d'imponyer al detto Truchio di desister di tal sue prediche et tanto a lui come altri chi appartenerà di non predicar in modo alcuno dentro detto loco di Centallo, suo finaggio et mandamento: et volendo perseverare, che abbiano a dislogiar quanto prima et ritirarsi da esse terre di Centallo et mandamento. Oltre di ciò fatte (fate) con pubblica crida inhibire le congregationi, tanto in publico come nelle case particolari per tal effetto di predicar la nova religione, come s'è fatto in questa città, seguendo l'ordine di Sua Maestà, a chi farete servicio grato et accettabile. A Turino li IIII di aprile M.D.L.XII. Così signato: Vostro buon amico Bourdillon ».

Il Truchio abbandonò momentaneamente la terra di Centallo e si rifugiò sui monti vicini o in Val Macra: ma non interruppe la sua opera di predicazione e di proselitismo neppure negli anni seguenti.

Oltre che a Centallo, l'attenzione del Bourdillon e del Birago dovette volgersi in quell'anno anche alla città di Carmagnola, dove la Riforma aveva trovato numerosi aderenti nella popolazione e zelanti predicatori nel presidio francese. Fra le truppe della guarnigione vi erano nuclei di soldati ugonotti e luterani, i quali tenevano presso di sé un ministro o cappellano, perché predicasse in mezzo a loro le nuove dottrine e celebrasse tutti gli atti di culto richiesti dalla loro religione. Ma l'intraprendente ministro, non pago di predicare fra i suoi, estese la predicazione al popolo della città, suscitando simpatie ed adesioni alle nuove dottrine. Pare ch'egli riuscisse perfino a trarre alla fede riformata un ecclesiastico stesso, padre Anselmo, agostiniano, il quale non esitò a farsi a sua volta aperto banditore dei nuovi dommi religiosi 59.

Ciò che avveniva a Carmagnola, doveva verificarsi, sebbene forse in maniera meno clamorosa, anche in parecchie altre piazze del Marchesato, dove soggiornavano presidî francesi. Lo si deduce dalla fiera rimostranza, che il duca di Savoia presentò a Roma in quel tempo, sebbene si possa dubitare che il grido di allarme sia stato volutamente esagerato per mostrare al Papa l'urgente necessità della restituzione delle piazze francesi e per sollecitare a suo favore l'intervento della Santa Sede nelle trattative, che si stavano faticosamente svolgendo tra i delegati francesi e sabaudi per l'esecuzione del trattato di Castel Cambresis: «Potrebbesi vedere - scriveva al Bobba, suo ambasciatore a Roma [60] un'altra Ginevra, un'altra Lione o un'altra Orléans, in Italia, che Dio non voglia! Perciocché in alcuni presidî che i Francesi tengono di qua, vi sono libri eretici copiosamente disseminati, gustati et studiati; ministri di Calvino pregati, ricevuti et carezzati; le loro orazioni predicate et sono udite, frequentate et osservate et finalmente vi si ordiscono le medesime trame che si ordivano a Lione» (14 agosto 1562).

Come si vede, accanto agli altri forti e sostanziali motivi, anche la propaganda religiosa straniera ed il pericolo crescente dell' infezione ereticale venivano abilmente sfruttati dal duca per reclamare dalla Corte parigina il sollecito sgombero dei presidi francesi dal Piemonte e per pretendere che durante le trattative fosse tenuto conto anche del Marchesato di Saluzzo, ch' egli, per la sua posizione, chiamava la « terza chiave di casa » e la cui sorte era stata lasciata sospesa nel trattato di Castel Cambresis.

Le trattative per la restituzione [61] cominciarono nel novembre del 1561 e continuarono sino alla fine del gennaio 1562 nell'Abbazia di Sanit Just, presso Lione: ma non approdarono a buon fine per le esose pretese dei delegati francesi. Furono riprese con maggior successo nell'aprile del 1562. Il 26 di questo mese la Regina Madre Caterina, il Gran Cancelliere l'Hôpital, il Cardinale Carlo di Borbone ed il Connestabile di Montmorency, che costituivano il Consiglio della Corona durante la minorità di Carlo IX, diedero il loro assenso alla restituzione delle piazze: ma per lunghe settimane si discusse ancora per stabilire quali piazze dovessero essere restituite al duca e quali altre tenute in pegno dalla Francia.

Solo l'8 agosto si poté giungere ad un accordo definitivo, stabilendo che la Francia terrebbe per sé Pinerolo, Perosa e Savigliano, e cederebbe al duca Torino, Chieri, Chivasso e Villanova d'Asti con i rispettivi distretti. Ma il mal animo e la più o meno interessata opposizione del maresciallo di Bourdillon e degli alti ufficiali e magistrati francesi ritardarono lo sgombero sotto pretesto che da più mesi le milizie non erano state pagate e che il loro licenziamento sarebbe stato causa di torbidi. Perciò l'ordine di cessione non poté avere definitiva esecuzione che verso la fine dell'anno. Solo il 12 dicembre la guarnigione francese acconsenti ad uscire da Torino e solo il 14 successivo il duca E. Filiberto poté fare un trionfale ingresso nella capitale dei suoi Stati.

Nulla il duca poté invece ottenere riguardo al Marchesato di Saluzzo, perché alla richiesta i Francesi non solo accamparono i diritti del re sul Saluzzese, come erede legittimo dei Delfini di Francia, ma pretesero in più la restituzione di parecchie altre terre (Barge, Racconigi, Busca, Moretta, ecc.), che avevano un tempo appartenuto al Marchesato e che gli erano state strappate dai duchi di Savoia 62. E. Filiberto non ritenne prudente insistere in questa controversia con la Francia, che avrebbe potuto pregiudicare tutta la questione della restituzione, né volle accettare un giudizio arbitrale, temendo come egli stesso confessò al suo ambasciatore a Madrid, Giov. Francesco Costa, conte di Arignano - che il verdetto avrebbe forse dato ragione alla Francia, attribuendole non solo Pinerolo e Savigliano, ma anche Cuneo ed altre località importanti [63]. Né miglior esito incontrò la proposta di uno scambio del Marchesato con la Bressa: cambio, che conveniva al duca per togliersi di casa lo straniero e per rendersi potenza più indipendente ed italiana, ma che solo in parte conveniva alla Francia. Infatti, mentre avrebbe contribuito ad arrotondare e rinsaldare le frontiere del regno verso la Savoia, l'avrebbe, d'altro canto, privata di importanti valichi alpini e di una preziosa piattaforma al di qua delle Alpi, utile, in tempo di pace per mantenere il prestigio fra gli Stati della Penisola, ma indispensabile nel caso deprecato di una guerra contro Spagna o Savoia.

Mentre l'ardua questione della restituzione delle piazze si avviava a felice soluzione [64], un grave pericolo, provocato dal rincrudire delle discordie civili e religiose di Francia, sorgeva a minacciare tanto la tranquillità degli Stati Sabaudi, quanto la sicurezza delle terre del Marchesato.

L'editto del 17 gennaio 1562, per il suo spirito tollerante, era spiaciuto al partito cattolico capitanato dai Triumviri: duca di Guisa, maresciallo di Saint-André e connestabile di Montmorency; parecchi Parlamenti avevano rifiutato di registrarlo o di farlo osservare, come quello di Provenza, dove continuarono le stragi e le persecuzioni contro i riformati, le distruzioni di chiese e le sanguinose vendette dei riformati a danno dei cattolici. Il r° marzo (1562) Francesco di Guisa compieva la famosa strage detta di Vassy, dove circa sessanta riformati sorpresi a celebrare gli atti del loro culto, furono barbaramente massacrati. Fu quello come il segnale della guerra aperta fra cattolici e protestanti [65].

In Provenza, per non parlare che delle province francesi più prossime al Marchesato, il Parlamento di Aix il 26 marzo, in aperto contrasto con l'editto del 17 gennaio, vietò ogni celebrazione del culto riformato. Al vecchio Claudio, conte di Tenda, che aveva sempre cercato di favorire la causa della pace e rifuggiva dalle cruente persecuzioni, i Guisa sostituirono nel governo il figlio Onorato, conte di Sommariva, ardente cattolico, che si trovò di fronte il fratello Renato, barone di Cipières, ed il cognato Giacomo di Saluzzo, conte di Cardé, i quali militavano nelle forze ugonotte. Mentre nel Delfinato i protestanti occupavano Gap (22 apr.) e Grenoble (26 giugno) ed altre città forti sotto il comando del feroce barone Des Adrets, e dei Capitani Furmeyer, Lesdiguières e Montbrun, in Provenza il conte di Sommariva investiva la piazzaforte di Sisterone (10 luglio 1562) e la costringeva a capitolare (4 sett. 1562), nonostante il valore degli assediati ed i soccorsi del Lesdiguières e del Montbrun. Seguirono alla resa feroci eccidi in tutta la Provenza [66].

La guerra minacciò di estendersi anche in Piemonte, quando il barone Des Adrets, capo del partito ugonotto del Delfinato e padrone di quella provincia, mandò le sue truppe ad interdire il culto cattolico nella valle di Pragelato e in quella dell'Alta Dora Riparia, difese dal capitano La Casette, che comandava truppe cattoliche.

La Regina Madre frattanto, con astuta politica, aizzava fra loro i capi dei due partiti in più province del regno nella segreta speranza che essi, combattendo, si indebolissero a vicenda e che sulle loro rovine si riaffermasse l'autorità regia profondamente minata dai due partiti [67].

Le ostilità si fecero anche più vive dopo l'Arresto del Parlamento di Parigi (13 luglio 1562), che poneva i protestanti fuori legge, permetteva a tutti i cittadini di armarsi e di correre contro i saccheggiatori di chiese e di immagini sacre e contro quelli che si radunavano in private conventicole per celebrare gli atti del loro culto: in altre parole legittimava, se non ordinava esplicitamente, la caccia spietata a tutti gli ugonotti.

Per premunirsi dai pericoli di una possibile vittoria dei protestanti, che avevano occupato parecchie città del regno e minacciavano di scendere in Piemonte, e, soprattutto, per aver amica o neutrale la Francia nella vagheggiata impresa contro Ginevra, il duca di Savoia si accostò al partito cattolico capitanato dal duca di Guisa, e mandò un esercito a combattere con le truppe cattoliche nella Provenza e nel Delfinato. In pari tempo si diede a riattare ed ad innalzare fortezze sui valichi alpini e nella pianura, a reclutare milizie ed a stringere accordi con gli Stati vicini nel caso che la guerra sconfinasse in Piemonte, ma soprattutto ad affrettare lo sgombero delle piazze ancora tenute dai Francesi. Correva voce, infatti, che i comandanti francesi di queste città, malcontenti della restituzione, sobillassero gli abitanti a far causa comune con essi e ad accordarsi con il principe di Condé 68, capo degli ugonotti del regno.

Uguali provvidenze prese anche il Birago nelle terre del Marchesato, sia ch'egli agisse di spontanea iniziativa, sia che a ciò fosse sospinto dal duca di Savoia, il quale attraverso le valli della Macra e della Varaita vedeva facile per gli eserciti francesi la discesa, sollecitata ed agevolata dalla presenza di una numerosa popolazione riformata. Perciò fin dal maggio 1562 il Birago ordinava ai sindaci di Dronero di aumentare le guardie, adducendo come pretesto, ora i moti di Francia, ora la presenza di numerosi riformati, che la persecuzione ducale sospingeva incessantemente sul suolo del Marchesato o che tumultuavano sui confini nel vano tentativo di rientrare in possesso dei loro beni. Anzi, per meglio assicurarsi che i suoi ordini fossero stati eseguiti, il governatore venne di persona ad ispezionare le difese e le guardie di Dronero [69].

Nonostante molte apprensioni l'anno 1562 passò senza che gravi tumulti né allarmi turbassero la pace del Marchesato. La caduta di Rouen, roccaforte ugonotta, e la sconfitta dei protestanti a Dreux (19 dic. 1562), dove furono fatti prigionieri il principe di Condé ed il Connestabile di Montmorency, fiaccarono a tal punto il partito ugonotto, accrescendo la già minacciosa potenza dei Guisa, che la Corte temette di esserne sopraffatta e si trattenne dall' infierire contro il partito ugonotto per non aumentare a suo danno la tracotanza dei Guisa.

Frattanto il 18 marzo Francesco di Lorena, duca di Guisa, cadeva proditoriamente ucciso, mentre assediava Orléans, tenuta dagli ugonotti. Il partito cattolico accuso il Coligny come mandante del vile assassinio e si accinse a dare più gagliardo impulso alla guerra.

Ma le condizioni del regno erano gravi! La guerra civile, prolungandosi, minacciava di coinvolgere nel disordine e nella rovina tutta la Francia: l'Imperatore, approfittando dei torbidi, reclamava i tre vescovati di Metz, Toul e Verdun; gli Inglesi occupavano la Bassa Normandia ed il duca di Savoia pretendeva la cessione del Marchesato di Saluzzo in cambio dell'aiuto prestato. Le finanze anch'esse erano esauste o prossime ad esaurirsi. Prevalse allora alla Corte il partito della pace. Con sottile diplomazia Caterina riusci momentaneamente a pacificare le due fazioni e proclamò l'editto o trattato detto di Amboise (19 marzo 1563), che poneva fine alla prima guerra civile [70].

In virtù di esso venivano perdonati tutti i delitti commessi in materia di religione e sospesi i processi in corso; i protestanti erano obbligati ad osservare le feste cattoliche, ma ottenevano, per contro, la libertà del culto pubblico tanto nelle città, che essi occupavano alla data del 17 marzo, quanto nel castelli e nelle terre feudali sottoposte alla giurisdizione dell'alta nobiltà ugonotta; ebbero in più in ogni baliaggio, esclusa la prevostura di Parigi e le città di residenza della Corte, una località aperta al libero esercizio della loro religione. In tutto il regno fu assicurata la libertà di coscienza e la pratica della religione riformata nel segreto delle famiglie. Ma parecchie terre, popolate di ugonotti, rimasero escluse dal beneficio del culto pubblico, ed i fedeli furono costretti a fare lunghi e pericolosi viaggi per raggiungere quella località, nella quale, a tenore dell'editto, potevano celebrare liberamente il culto riformato.

L'editto, accettato e firmato dal principe di Condé, fu disapprovato da Calvino e dal Coligny e giudicato lesivo alla Riforma per le troppe limitazioni che conteneva e perché, tutelando più gli interessi della nobiltà che quelli del popolo, apriva un solco pernicioso nelle classi sociali proprio quando era più necessaria la concordia di tutti.

Scontentò anche i cattolici, che nell'editto ravvisarono una prova di debolezza della sovranità reale ed una grave offesa alla fede cattolica [71]. Pertanto i dissensi fra le due parti continuarono, preparando i pretesti per la seconda guerra civile.

Note

[1] Traités Publicqs de la Maison de Savoie, par SOLAR DE LA MARGUERITE, Turin, 1836, t. I, pp. 12-44.

[2] RICOTTI, op. cit., II, cap. IV; MANFRONI, C. Emanuele I e il trattato di Lione, in loc. cit., pp. 4-5; EGIDI, op. cit., cap. III.

[3] Nel trattato di Castel Cambresis era stato stabilito che le piazze francesi del Piemonte sarebbero mantenute fino alla nascita del principe ereditario sabaudo. Carlo Emanuele nacque appunto in quest'anno (12 gennaio 1562).

[4] Per la politica religiosa di E. Filiberto cfr.: RICOTTI, op. cit., II, lib. IV, cap. 3° e lib. V, cap. 3°; CLARETTA, La successione al trono di E. F., cit.; EGIDI, E. Filiberto, cit.; RUFFINI, Politica eccles. di E. F., in loc. cit., CAVIGLIA, Profilo religioso di E. F., in loc. cit.; PATRUCCO, op. cit., in loc. cit.; PASCAL, II Piemonte Riformato, in loc. cit.; IDEM, La lotta contro la Riforma in Piemonte, in loc. cit.; IDEM, La Riforma nei domini sabaudi delle Alpi Maritt. Occid., in loc. cit.; JALLA, La riforma in Piemonte, vol. 1; MELLANO, op. cit.; GROSSO-MELLANO, op. cit., pass. DE SIMONE, op. ct, capp. 1-XI.

[5] Se ne vedranno le prove a più riprese nel corso del nostro studio.

[6] Gli stretti rapporti religiosi esistenti tra le chiese riformate del Delfinato e quelle del versante piemontese furono sempre considerati come un grave ostacolo alla distruzione dell’eresia nelle terre piemontesi. Lo affermavano pubblicamente gli ambasciatori veneti residenti alla Corte sabauda, come il Molino (1576) e il Barbaro (1581) e il duca stesso (lett. 11 ott. 1565 alla Corte di Madrid); Cfr. Ruffini, op. cit. pp. 397-399.

[7] Per la politica di Francesco II nei confronti dei Riformati di Francia, cfr. DAVILA, op. cit., I, 86-87; LAVISSE, Hist. de France, Parigi, 1904, vol. VI, pp. 11-25; MARIÉJOL, Catherine de Médicis, op. cit., PP. 74-75: JALLA, op. cit., I, 195.

[8] ARNAUD, Hist. des Protest. du Dauphiné, cit., I, 62 e segg.; IDEM, Hist. des Protest. de Provence ecc., I, 117-125.

[9] Avendo i Valdesi del Pragelato, nell'alta valle del Chisone, sudditi del re di Francia, soccorso i Valdesi della valle di Luserna, che erano perseguitati da E. Filiberto, questi ne mosse aspre lagnanze al governatore del Delfinato. Lorenzo di Maugiron, il quale già si era segnalato per la sua ferocia nei saccheggi di Valenza e di Romans, ebbe ordine di preparare una spedizione punitiva contro quelli della valle di Pragelato, d'accordo con il governatore Motte-Gondrin. Con essi avrebbe dovuto cooperare anche il maresciallo di Bourdillon, luogotenente generale del re in Piemonte, ma il maresciallo, di sentimenti più tolleranti, rifiutò d' intervenire, scusandosi di non potersi spogliare di tutte le sue truppe, come gli aveva ordinato il duca di Guisa. La morte del re (5 dic. 1560) fece sospendere l'esecuzione dell'impresa. Cfr. ARNAUD, Hist. des Protest. du Dauphiné, 1, 62 e seg.; J. A. CHABRAND, Vaudois et Protestants des Alpes. Recherches histor. contenant un grand nombre de doc. inéd. sur les Vaudois et les Protestants des Alpes Dauphinoises et Piémontaises, Grenoble, 1886, pp. 84-103; JALLA, op. cit., I, 194-96.

[10] Ebbe come cugino il Gran Cancelliere di Francia, poi Cardinale Renato Birago. Ludovico fu governatore e luogotenente del Marchesato, in assenza del duca di Guisa, dal 1559 al 1563. In quest'anno, insieme con il governo del Marchesato, ebbe anche la luogotenenza generale del re al di qua dei monti in assenza del maresciallo di Bourdillon, richiamato in Francia. Nel 1567 riebbe la luogotenenza generale del re al di qua dei monti, in assenza del duca di Nevers, succeduto al Bourdillon. Tenne il governo del Marchesato di Saluzzo initerrottamente fino alla morte avvenuta il 28 dic. 1572.

[11] MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 65, 81.

[12] Già cit. al cap. II.

[13] Op. cit., I, 807-808; cfr. inoltre: CLARETTA, Spigolature sul regno di Carlo III, p. 26 e segg.; JALLA, op. cit., I, 116, 140.

[14] Secondo il CLARETTA, loc. cit., il Negri nel 1560 avrebbe scritto un trattato di confutazione delle dottrine valdesi, intitolato: Contra Valdenses. L'opera, che avrebbe potuto mostrarci chiaramente non solo il grado di dottrina del Fossanese, ma anche il suo senso di moderazione nel polemizzare con gli avversari della Chiesa, è andata purtroppo perduta. Nel 1579, fatto Vicario degli Osservantini (1573), il Negri pubblicò in Padova quattro libri di Epistolae et Orationes contro Haereses Valdensium. Nel 1560 egli era stato mandato dal duca E. Filiberto come predicatore tra i Valdesi di Luserna, in compagnia del P. Possevino ed aveva avuto a protezione della sua persona un manipolo di soldati. JALLA, op. cit., I, 140, 364; GROSSO-MELLANO, op. cit., I, 47-48. DE SIMONE, op. cit., capp. VI e segg.

[15] La lettera è pubblicata per intero dal CLARETTA, loc. cit.

[16] Sul Cambiano, cfr. A. S. T., I, Lett. di Partic., S. m 88; lett. del Cancelliere Stroppiana alla Corte (6 apr. 1572); A. S. T., II, Patenti del Piemonte, vol. 6º, fol. 173-74 e Patenti Controllo Finanze (invent. gener. art. 689), reg. 8°, f. 11 (3 giugno 1560); JALLA, op. cit., I, 181.

[17] Gilles, op. citata, I, 181-82; Lentolo, op. cit. p. 161; Fontana, Renata di Francia, III, 30-31.

[18] LENTOLO, op. cit., loc. cit.

[19] LENTOLO, op. cit., pp. 153-170; JALLA, op. cit., I, 143-44.

[20] LENTOLO of cat, pp. 119-120; GILLES, op. cit., 1, 121; JALLA, op. c. 1. 130 31 11 FERRERIO, op. cit., P. 11, p. 270, dà come nativi di Cartignano, nel Marchesato di Saluzzo, anche due altri riformati arsi nello stesso tempo sul rogo a Carignano: Maturino e sua moglie. Ma è più probabile che essi fossero cittadini di Carignano, terra ducale.

[21] Op. at, 11, 34.

[22] Cosi anche opina il Savio, op. cit. I, 290.

[23] I CANTIMORI, Profilo di G. Biandrata, in loc. cit., p. 355 parlando del fratello Alfonso, ha forse alcune inesattezze cronologiche. Anzitutto i fatti, ch'egli riferisce all'anno 1560, sono come vedremo - di sette anni posteriori (1567); in secondo luogo non risulta provato che Alfonso riparasse a Ginevra, insieme coi suoi figli, nel 1559, cioè un anno appena dopo il fratello Giorgio. Se Alfonso fu in quell'anno a Ginevra, certo non vi fece che un breve soggiorno. Infatti, l'anno seguente (1560) lo troviamo sindaco e consigliere di Saluzzo, poi ambasciatore al duca di Savoia in compagnia di Vincenzo Polloto. Nel 1571 fu arrestato dal duca E. Filiberto, ma riusci miracolosamente a fuggire. Solo nel 1582, dopo un probabile soggiorno a Losanna, pose stabile dimora a Ginevra insieme con la moglie Andreetta Morina, figlia dello speziale Bonifacio Morina, nativo di Cavour, il quale emigrò verso il 1554. Alfonso prese parte attiva alla vita ecclesiastica della piccola congrega italiana di Ginevra ne fu diacono nel 1583. anziano dal 1584 al 1589. In terra d'esilio ebbe dalla moglie Andreetta parecchi figli: Bernardino, Paulo (1581), Pietro (1582), Camilla, Giovanni (1585). Dalla stessa moglie o da altra a noi ignota, aveva già avuto: Aurelio, segnalato presente a Ginevra nel 1582, e Lucrezia, che in prime nozze sposò Franzois de La Pale ed in seconde nozze Giov. Antonio Sarasin (25 genn. 1591). Lucrezia morì a 72 anni il 30 aprile 1641, lasciando vari figlioli, che ebbero onorata discendenza. Ricaviamo questi dati genealogici, assai incompleti, dal GALIFFE, op. cit. pass. e da uno spoglio sommario di parecchi registri di battesimi, matrimoni e decessi delle chiese ginevrine, conservati negli ARCHIVI NAZIONALI di quella città, e che sarebbe troppo lungo specificare individualmente. Cfr., anche il mio studio recente: La colonia piemontese a Ginevra nel sec. XVI, in loc. cit.

[24] BOLLATI, op. cit., I, 36 e seg.

[25] Cfr. LENTOLO, op. cit., lib. IV; GILLES, op. cit., I, cap. XI-XVIII; EM. COMBA, La campagna del conte della Trinità narrata da lui medesimo, in: “Boll. d. Società di Studi Valdesi”, n. 21 (1904), pp. 3-32 e n. 22 (1905), pp. 7-27; Jalla, op. cit. cap. VIII; Patrucco, op. cit. in loc. cit.; De Simone, op. cit., cap. VI e segg.

[26] JALLA, op. cit., I, 161.

[27] Cfr. le lettere del conte della Trinità, in COMBA, loc. cit. (Lett. 6 marzo 1561) «dei quali (feriti) una parte li hanno mandati verso il Marchesato di Saluzzo a medicare, imperò non son volsuto scriver al Sigr. Ludovico Birago sin a tanto che se ne sia meglio certificato per homo a posta che ho mandato in quella banda »; (Lett. 28 genn. 1561) « Il Sigr. Truchieto mi ha deto per cosa certa che da la banda verso il Marchesato di Saluzzo hano portato in la valle di Luserna quattro somate d'arcabusi.... Quello che con questi denari si può levare non basta a questa impresa adesso che oltre i delphinenghi et quelli del Marchesato di Saluzzo le vallate hanno avuto modo di havere arme et stano alerta ».

[28] A. S. T. I, Lettere di Partic., B., m. 88 (Lett. di Ludovico Birago al duca di Savoia, in data 30 genn. e 12 febbr. 1561). Le lettere sono datate dell'anno 1561. Secondo il calendario francese allora vigente l'anno terminava alla Pasqua: si dovrebbe quindi leggere 1562 secondo l'era volgare. Ma è evidente, per la natura stessa dei fatti narrati, che il Birago si è attenuto al calendario vigente in Piemonte.

[29] A. S. T., Lett. di Vescovi e Arcivescovi esteri. Cfr.: Lett. scritte da Orléans e dalla Neveresa al duca da Lorenzo Lenzio, Vescovo di Fermo (23 genn. 1561).

[30] E quello stesso frate Monocolo, che nel decennio precedente aveva predicato dottrine luterane a Cuneo e che, sfrattato per l'intolleranza del governatore Vagnone, aveva ricevuto dal duca la revoca del suo sfratto in seguito al Memoriale di lagnanze, che il Comune aveva inoltrato al duca per il tramite del senatore Pasero. Cfr. GABOTTO, Storia di Cuneo, cit., pp. 158-59; G. BARELLI, L'assedio di Cuneo nel 1557, nel VII Centenario della fondazione di Cuneo, Cuneo, 1898, pp. 261-67; PASCAL, Stor. d. Riforma Protest. a Cuneo, cit., pp. 11-14. Il Monocolo apparteneva all' Ordine di San Francesco dei Conventuali ed era stato denunciato al Birago dal duca stesso come uno dei dommatizzatori più pericolosi.

[31] PASCAL, Stor. d. Riforma Protest. a Cuneo, cit., pp. 11-14. Il Monocolo apparteneva all' Ordine di San Francesco dei Conventuali ed era stato denunciato al Birago dal duca stesso come uno dei dommatizzatori più pericolosi.

[32] RORENGO, op. cit., pp. 217; FERRERIO, op. cit., II, 32. Ma la notizia è poco attendibile.

[33] MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 52.

[34] Era figlio di quel Francesco Polloto, che il Comune aveva mandato insieme con altri, nel 1503, a stipulare importanti atti col marchese Ludovico II. Su Vincenzo Polloto, cfr. MANUEL DI SAN GIOVANNI, . cit., II, 22, 25, 37-39, 50-54, 296.

[35] Nella BIBLIOT. NAZION. di PARIGI, Fondo Francese (F. Fr.), n.º 20544, si conserva la lettera, con la quale (19 giugno 1553) i quattro eletti danno notizia della loro nomina al duca di Guisa e lo assicurano della loro devozione.

[36] Già abbiamo ricordato al cap. I come nel 1557, essendo venuto per conto del Marchesato a Torino, fu arrestato da un tale, al quale il Marchesato era debitore e, come responsabile del mancato pagamento non riebbe la libertà, se non quando il creditore fu soddisfatto.

[37] Per questa e per la successiva Congregazione Generale, cfr. BOLLATI, op. cit., I, 16 e segg. (28 giugno 1559) e I, 80-99 (9 nov. 1561); MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 38-39.

[38] BOLLATI, op. cit., I, 36-47 (15 giugno 1560).

[39] FICK, Livre du Recteur, all'anno 1563; JALLA, op. cit., I, 381; STELLING-MICHAUD, op. cit., p. 85.

[40] RORENGO, op. cit., p. 217; MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 52.

[41] JALLA, op. cit., I, 196-97.

[42] Cfr. DUCANGE, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Niort, 1885, V, pp. 270-71.

[43] J. BERNARDI, Torre di Luserna e i Valdesi. Cenni Statistici, Milano, 1854, p. 15 (estr. dal Dizion. Corogr. Univers. d' Italia di G. STEFANI, Milano, 1854).

[44] Cfr. la lettera già cit. del medico Alosiano di Busca all'anno 1559 e la nostra Storia della Riforma a Cuneo, passim.

[45] JALLA, op. cit., I, 197.

[46] I GIOFFREDO, Storia delle Alpi Marittime, Torino, 1839, IV, 431, dice di lui che i riformati: «ayant imposées leurs griffes, ils l' installèrent au Ministère, le firent leur conducteur, leur capitaine, leur prophète, leur docteur, leur apôtre, leur tout ».

[47] DAVILA, op. cit., I, 143; LAVISSE, op. cit., VI, 32-40; MARIÉJOL, Cayherine de Médicis, p. 92. La regina giustificava le concessioni fatte ai riformati in una lettera al suo ambasciatore in Spagna, Vescovo di Limoges, dimostrando l' inutilità delle violenze. « Nous avons durant vingt ou trente ans essayé le cautère pour cuyder arracher la contagion de ce mal (l'hérésie) d'entre nous et nous avons veu par expérience que ceste violence n'a servy qu'a le croistre et multiplier, d'autant que par les rigoureuses pugnitions qui se sont continuellement faictes en ce royaume une infinité de petit peuple s'est confirmé en ceste oppinion jusques à avoir été dict de beaucoup de personnes de bon jugement qu'il n'y avoit rien plus pernicieux pour l'abolition de ces nouvelles opinions que la mort publique de ceulx qui les tenoyent, puisqu'il se voyoit que par icelles elles estoyent fortiffiez ».

[48] MARIEJOL, Catherine de Médicis, pp. 95-96; HECTOR DE LA FERRIERE e DE PUCHESSE, Lettres de Catherine de Médicis, in «Collect. des docum, inédits de l'Hist. de France », Parigi, 1880, I, 193.

[49] DAVILA, op. cit., I, 154-56; LAVISSE, op. cit., VI, 45; MARIÉJOL, Catherine de Médicis, p. 99.

[50] Nel 1561, per ordine del Parlamento di Aix, molte violenze furono commesse contro i protestanti in varie località della Provenza. Fu mandato come commissario regio, a pacificare la provincia, il conte di Crussol. Capo del partito cattolico era il Flassans. A lui si opponevano, col Crussol, il conte Claudio di Tenda, il figlio suo Onorato, conte di Sommariva, ed il genero Giacomo di Saluzzo-Cardé. Cfr. ARNAUD, Hist. des Protest, de Provence, I, 125-134.

[51] LAVISSE, op. cit., VI, 47-51; MARIEJOL, op. cit., pp. 102 e segg.

[52] DAVILA, op. cit., I, 159-60; LAVISSE, op. cit., VI, 53-54; MARIÉJOL, op. cit., pp.

112-113, JALLA, op. cit., I, 203.

[53] Il conte di Crussol, entrato in Aire, fa pubblicare ed eseguire l'editto del gennaio 1562 e concede ai protestanti di avere un locale di culto. Al culto, celebrato il giorno successivo all'entrata del Crussol, assistono, insieme con altri gentiluomini, Onorato di Tenda, conte di Sommariva, e Giacomo di Saluzzo-Cardé. Cfr. ARNAUD, Hist. des Protest. de Provence, I, 134-140. Il Cardé si adopera per far cessare i massacri degli abitanti di Baryol dopo la fuga del Flassans.

[54] Per i progressi della Riforma a Torino, cfr. JALLA, op. cit., pass. 55 ARCH. CIV. DI TORINO, Liber consiliorum, vol. 114, a. 1562, pass.; ARCH. CIV. DI PINEROLO, Categ. XXV, m. I; TESAURO, Storia della Compagnia di S. Paolo in Torino, Torino, 1701, I, 16 e segg., II, 124-27; FERRERO DI LAVRIANO, Storia di Torino, Torino, 1712, P. II, pp. 552-54, 705-706, 724-28; JALLA, op. cit., I, 203-206.

[56] II FERRERO DI LAVRIANO, loc. cit., dice che « la necessità di governare Torino vi teneva un gran numero di ufficiali di guerra e di toga, che per la libertà conceduta a tutti i Francesi (editto del 17 genn. 1562) professavano pubblicamente il calvinismo. Vi era il Parlamento, del quale sapevasi che i più della medesima lepra erano infetti».

[57] A. S. T., I, Città e Provincia di Saluzzo: Registro dei Tesorieri, vol. 20 (1560-1570), fasc. III-VII.

[58] G. RODOLFO, Documenti dei secoli XVI e XVII riguardanti i Valdesi, in Boll. Soc. Studi Valdesi» («Bulletin Soc. Hist. Vaud. »), e n.º 50, pp. 13-14, doc. 9.

[59] Crediamo che in quest'anno si possano collocare i fatti sopra riferiti, che il MENOCCHIO, op. cit. attribuisce ad epoca anteriore.

[60] L. CRAMER, La Seigneurie de Genève et la Maison de Savoie de 1559 a 1603, Ginevra, vol. II (1912), p. 86; PASCAL, La lotta contro la Riforma in Piemonte, in loc. cit., doc. XIII.

[61] Per più ampie notizie sull'argomento, cfr. A. S. T., I, Mater. Polit., Negoziazioni con Francia, m. III-IV; SOLAR DE LA MARGUERITE, Traités publicqs de la R. Maison de Savoye, Turin, 1836, I, pp. 59 e segg.; RICOTTI, op. cit., libr. IV, cap. IV del t. II, pp. 194-224; MANFRONI, C. Emanuele I e il trattato di Lione, in loc. cit.; CLARETTA, Successione al trono di E. Filiberto, pp. 334 e segg.; SEGRE, Riacquisto ed ingrandimento dei domini, in loc., cit., pp. 99 e segg.

[62] A. S. T., I, Negoziazioni Francia, m. III. Al capo 4° del Sommario di quanto è operato si legge: «Contiene il quarto capo de le domande loro (cioè dei delegati francesi) certe terre et castella dei Marchesi di Saluzzo, le quali dicono havere da lungo tempo usurpato di quel Marchesato i conti e duchi di Savoia, pretendendo loro che quel Marchesato sia feudo riconosciuto per li marchesi da Delfini. Il quale Delfinato senza dubbio è in mano del re o vero del suo primogenito per antico costume ». I delegati sabaudi obiettarono «che quello che possiede il duca in Piemonte et specialmente quelle castella domandate, lo possiede per giusti tituli e legali, et per tanto tempo, che non gli è memoria d'huomo in contrario. Anzi a lui aspetta tutto quel Marchesato di Saluzzo, et non al re né al Delfino ». Molti altri documenti sulla stessa questione sono conservati in A. S. T., II, invent. gener., art. 788: Marchesato di Saluzzo. Tra le carte è la «Donatione del Marchesato di Saluzzo e Monferrato fatta a Carlo IX da Giov. Ludovico di Saluzzo (156120 maggio), senza pregiudizio dei diritti appartenenti già acquisiti al re >>.

[63] Il Chantonay (Tommaso Perrenot de Granvelle), ambasciatore spagnolo a Parigi, diceva che alla Corte di Francia esisteva una carta geografica del Marchesato di Saluzzo con colori diversi sulle terre tenute dalla Francia e su quelle che possedeva il duca di Savoia e che vi era segnata una linea diretta da Pinerolo a Revello, la quale attribuiva alla Francia quanto sulla pianura e sulla montagna trovavasi alla sinistra di detta linea. Cfr. SEGRE, Riacquisto e ingrandimento dei domini, in loc. cit., pp. 114-115.

[64] Il duca di Savoia, per vincere l'opposizione della Regina Madre, le promise l'aiuto di 3.000 fanti e di 200 cavalli per ristabilire l'autorità del re. Cfr. HECTOR LA FERRIÈRE, Lettres de Catherine, I, 359 (lett. 17 luglio 1562 al maresciallo di Bourdillon); V. PROMIS, Cento lettere concernenti la storia del Piemonte, dal 1544 al 1592, in «Miscellanea di Storia Patria», IX, 1870, p. 578 (lett. del duca E. F. al duca di Ferrara giugno 1562).

[65] Su questi fatti generali, cfr. DAVILA, op. cit., I, 160-269; LAVISSE, op. cit., VI, pp. 58-71; MARIÉJOL, op. cit., pp. 120 e segg.

[66] Per le lotte in Provenza e Delfinato, cfr. più particolarmente: ARNAUD, Hist. des Protest. de Provence, I, pp. 144-174; IDEM, Hist. des Protest. du Dauphiné, I, 105-168; CH. CHARRONET, Les guerres de religion et la Societé Protest. daus les Hautes Alpes, Gap, 186, pp. 23-31; CHABRAND, Vaudois et Protestants des Alpes, I, 144; R. DUFAYARD, Le Connestable de Lesdiguières, Parigi, 1891, pp. 14 e segg.; JALLA, op. cit., I, 211-215.

[67] Caterina aizzava il barone des Adretz a combattere contro i Cattolici sostenuti dal Guisa in Delfinato e in pari tempo sollecitava aiuti dalla duchessa Margherita di Savoia a favore degli ugonotti, che avevano occupato Lione, cfr. PINGAUD, Le Saulx-Tavannes, Parigi, 1876, p. 38; JALLA, op. cit., I, 212.

[68] PASCAL, La lotta contro la Riforma in Piemonte, in loc. cit., doc. XIII.

[69] MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 53.

[70] Sul trattato di Amboise e sui fatti che lo prepararono, cfr. DAVILA, op. cit., I, 249-276; LAVISSE, op. cit., VI, 70-74; MARIÉJOL, op. cit., pp. 120-123. Per le sue ripercussioni nel Delfinato, cfr. ARNAUD, Hist. des Protest, du Dauphiné, I, 181-88; DUFAYARD, op. cit., pp. 26 e segg.; JALLA, op. cit., I, 216-18.

[71] In Provenza, ad esempio, il Parlamento di Aix rifiutò di pubblicare l'editto, nonostante le reiterate intimazioni del re. A pacificare la provincia ed a far eseguire l'ordine fu mandato il maresciallo Francesco de Scepeaux de Vieilleville. ARNAUD, Hist. des Protest. de Provence, I, 174-78.