Storia/Saluzzo riformata/III La Riforma nel Marchesato dalle origini al trattato di Castel Cambresis del 1559: differenze tra le versioni

Da Tempo di Riforma Wiki.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
mNessun oggetto della modifica
mNessun oggetto della modifica
 
Riga 380: Riga 380:


[70] Su questi martiri della fede riformata, cfr. CRESPIN, op. cit., II, 437-443. 487-89, III, 117; GILLES, op. cit., I, 85-86, 108-109; BURNIER, Hist. du Sénat de Savoie, Parigi, 1864-65, I, 168; JALLA, op. cit., I, 79.
[70] Su questi martiri della fede riformata, cfr. CRESPIN, op. cit., II, 437-443. 487-89, III, 117; GILLES, op. cit., I, 85-86, 108-109; BURNIER, Hist. du Sénat de Savoie, Parigi, 1864-65, I, 168; JALLA, op. cit., I, 79.
[[Categoria:Storia]]
[[Categoria:Riforma]]
[[Categoria:Riforma nel Saluzzese]]

Versione attuale delle 00:14, 27 mag 2024

Ritorno


CAPITOLO TERZO

LA RIFORMA NEL MARCHESATO, DALLE ORIGINI AL TRATTATO DI CASTEL CAMBRESIS (1559)

I primi banditori della Riforma. Brevi papali. La predicazione di Fra' G. B. Pallavicino. - La Sinodo di Angrogna. - Prime congreghe riformate nel Saluzzese. Arresto e martirio di riformati. - La Riforma in Val Macra. Afflusso di riformati dalla Provenza, dal Delfinato e dal Cuneese. - Presidî francesi dommatizzatori. Le riforme liturgiche del prete D. P. Buschetto. - Prime persecuzioni. Disputa e martirio di Gioffredo Varaglia. - Emigrazione a Ginevra. La lettera del medico

Alosiano e lo stato della Riforma in Piemonte e nel Marchesato alla vigilia del trattato di Castel Cambresis.

Non è possibile stabilire con precisione né l'anno né la località del Marchesato, in cui la Riforma Protestante trovò i suoi primi apostoli e proseliti. Movimento morale e spirituale, esso ha dapprima come campo muto e silenzioso l'intimo delle coscienze.

I primi seguaci, ancora sporadici, dispersi e timorosi di quella diffidenza ingenita in chi abbandona la vecchia strada per seguire la nuova, che non conosce ancora perfettamente, ma che già intuisce piena di sacrifici e di pericoli, procedono per più anni guardinghi e racchiusi, evitando qualsiasi manifestazione clamorosa, che attiri su di essi l'attenzione del potere civile e religioso. Ma l'assenteismo dei vescovi, l'incuria e l'ignoranza di una gran parte del clero, il disordine del governo marchionale e lo scompiglio delle guerre, creano condizioni favorevoli ed assicurano ben presto un rapido e tranquillo sviluppo alle nuove dottrine: i dissidenti, cresciuti di numero, si cercano, si raggruppano in piccole congreghe e, fatti baldanzosi dall'incuria delle Autorità civili e religiose, iniziano finalmente il periodo del loro aperto proselitismo.

Ma questo trapasso non sempre si svolge con la dovuta prudenza e tolleranza nei riguardi delle dottrine e del culto cattolico. Minacciando la compagine della società e della Chiesa, ledendo il prestigio e le prerogative del clero, intaccando i redditi ed i benefici dei monasteri e degli ordini monastici, il moto riformato provoca le prime rappresaglie e reazioni del governo e del clero. I quali, riscossi dalla loro inerzia e dal loro torpore, corrono ai primi ripari. Eccessi e reazioni, violenze e repressioni danno presto materia a provvedimenti, ad editti, a condanne, ed a persecuzioni, che chiudono il periodo oscuro dell'incubazione della Riforma ed aprono quello più sicuro e documentato delle sue vicende.

Ciò avviene, per la maggior parte del Marchesato, solo alla fine del quarto decennio del secolo.

Non mancano, invero, anche per gli anni precedenti documenti ed attestazioni di cronisti, ora contemporanei, ora di poco posteriori: ma le notizie sono spesso così incerte e contraddittorie che non è facile distinguere quanto in esse vi sia di vero, né se sotto il nome di eretico o di luterano si celino i dissidenti superstiti dei gruppi cataro-valdesi o semplici fattucchieri, bestemmiatori, sprezzatori della vergine e dei santi, profanatori di persone e di cose sacre, né se il termine di lanzichenecco sia sempre sinonimo di luterano.

È logico che i primi proseliti della Riforma siano da ricercarsi di preferenza sul posto delle antiche eresie, come in Val Paesana e Verzuolo, oppure lungo le vie, che, come le valli della Macra e della Varaita, offrivano facile accesso al Piemonte dal Delfinato e dalla Provenza. Ma non bisogna dimenticare i centri più commerciali del Marchesato, come Dronero, Carmagnola e Savigliano, dove affluivano mercanti da terre religiosamente infette o sospette, né le città, che furono più frequentemente e più lungamente presidiate da truppe tedesche, svizzere e francesi. Ma non sempre l'esiguità dei documenti ce ne offre, per quei primi anni, una conferma sicura. Siamo quindi costretti a seguire le manifestazioni sporadiche del moto secondo le testimonianze saltuarie dei cronisti e dei documenti del tempo. La più antica notizia, che accenni ad eresia nel Marchesato dopo lo scoppio della Riforma, risale all'anno 1521. In quest'anno Fra' Bartolomeo da Mortara avrebbe inquisito in Saluzzo contro un frate agostiniano, del quale però non è detto il nome, né sono specificate le dottrine. Ma per il fatto che l'inquisito apparteneva allo stesso ordine del frate di Wittemberg, si può supporre che egli ne seguisse le dottrine e che possa perciò essere considerato come uno dei primi apostoli della Riforma luterana nelle terre del Marchesato.

Negli anni seguenti a detta del Menocchio [2] rapidi progressi la Riforma avrebbe fatto a Carmagnola a causa delle milizie lanzichenecche alloggiate nel corpo di guardia di Moneta, sobborgo della città. Fra quelle truppe si era introdotto un ministro protestante, che in compagnia di frate Anselmo, agostiniano, faceva numerosi proseliti, specialmente fra le donne, tanto che dice il Menocchio «l'entusiasmo religioso in Carmagnola fu grandemente raffreddato». Ma la notizia, così come ci è data dal Menocchio, senza citazione di fonti, ci appare sospetta, non per i fatti in se stessi, ma per il tempo, in cui sono attribuiti [3]. Più sicure sono le notizie che nell'anno 1523 concernono due studenti droneresi: Francesco Garino (o Guerino) e Camillo Bonello [4], i quali erano destinati ad avere, in età più matura, larga parte nella diffusione della Riforma, l'uno nel Delfinato, nelle Valli del Pellice e del Chisone e nel Marchesato stesso di Saluzzo, l'altro fra i Valdesi riformati di Calabria.

In quell'anno i due studenti frequentavano l'Università di Torino insieme con il giovane umanista Celio Secondo Curione, che ci tramandò il fatto. Gli scritti dei Riformatori transalpini correvano, avidamente ricercati e studiati, tra le mani degli studenti e dei frati, specie dell'Ordine Agostiniano, ed erano tema quotidiano di conversazione e di dispute teologiche. Infervorati delle nuove dottrine, i tre giovani decisero di recarsi oltralpe per apprenderle dalla bocca stessa dei Riformatori. Ma l'esuberanza giovanile li trasse a manifestare troppo apertamente la loro simpatia per i novatori e la loro avversione alla fede cattolica: sicché, giunti nella valle di Aosta con l'intenzione di valicare il Gran S. Bernardo, si videro improvvisamente arrestati per ordine di Bonifacio Ferreri, vescovo di Ivrea, e chiusi separatamente in tre torri, dove rimasero parecchio tempo. Il Jalla opina che il Garino ed il Bonello, liberati, ritornarono nel loro paese di origine, e, se così fu, non v'è dubbio che essi seguitarono anche in patria a diffondere le nuove dottrine tra i loro concittadini, aprendo le prime brecce nella compagine cattolica.

All'anno 1526 l'Anonimo autore della «Histoire Véritable des Vaudois des Vallées de Piémont » [5] ascrive l' introduzione della Riforma nelle Valli Valdesi e nelle altre terre del Piemonte e del Marchesato di Saluzzo. Ne attribuisce la colpa all'esercito francese, che calò secondo lui in quell'anno in Piemonte sotto il comando del marchese di Saluzzo e che aveva tra le sue file non meno di diecimila svizzeri, per la maggior parte eretici, accompagnati da ministri e dommatizzatori [6]. Costoro avrebbero pubblicamente predicato la Riforma non solo nella cerchia delle guarnigioni militari, ma tra il popolo stesso delle città, per le quali transitavano o nelle quali soggiornarono più a lungo. Dopo la loro partenza gli ecclesiastici cattolici avrebbero cercato di mettere riparo al male, ma con poco frutto, perché ormai i germi della Riforma erano penetrati nei cuori e nelle menti di parecchi e vi avevano trovato un terreno propizio per svilupparsi ed espandersi.

Il fatto ha in se stesso ogni indizio di realtà: ma il voler limitare ad una sola discesa di truppe straniere in Piemonte la diffusione dei germi della Riforma, non corrisponde a verità storica. Ogni calata ed ogni soggiorno, più o meno prolungato, di truppe straniere svizzere, allemanne o francesi, contribuì in varia misura a diffondere in Piemonte le nuove dottrine, sebbene manchi spesso la testimonianza diretta e sincrona dei documenti. Nello stesso tempo la Riforma cominciò ad affermarsi anche in Savigliano, ancora nominalmente sabauda, ma spesso presidiata da truppe straniere. Nella quaresima del 1525 un frate, forse dell'Ordine di S. Agostino, predicò pubblicamente al popolo «molte cose de la secta dei luterani», scandalizzando il clero ed il popolo più devoto. La cosa giunse alle orecchie del papa, che se ne dolse amaramente con il duca di Savoia per mezzo dell'Agente Sabaudo a Roma, Bernardino, Arcivescovo di Atene. Costui cercò di scolpare il suo signore, adducendo le grandi guerre e tribolazioni, che erano nei suoi Stati, ed assicurando che, se il duca lo avesse saputo, vi avrebbe prontamente posto rimedio [7].

Lo stesso anno (3 settembre 1525) il papa emanava un Breve [8] diretto a parecchi Vescovi, tanto di qua quanto al di là delle Alpi, per incitarli a porre un freno all'eresia luterana dilagante. Tra i prelati è nominato anche il Vescovo di Mondovì, la cui giurisdizione ecclesiastica e spirituale si estendeva su parecchie terre non solo finitime, ma politicamente incorporate nel Marchesato. La constatata presenza dell'eresia in molte terre circostanti al Saluzzese si aggiunge, come prova indiretta, ad attestare che fin da quegli anni le regioni saluzzesi non erano immuni dal contagio ereticale o luterano. Alla diffusione delle nuove dottrine, sulla fine del terzo decennio, contribuì con clamoroso successo soprattutto un frate carmelitano, Giov. Battista Pallavicino 9, dottore e pro- fessore in teologia.

Dopo aver predicato le sue opinioni ereticali a Brescia (1527), Aosta, Torino, venne a Chieri (1528), dove la foga della sua eloquenza e la novità delle sue dottrine levarono grande scal- pore nel popolo To ancora memore della predicazione di Fra' Angelo e della forte dissidenza pullulata nel secolo precedente II. Da Chieri il frate irradiò, predicando, nelle terre contigue del ducato di Savoia, del Marchesato di Saluzzo e del Monferrato, facendo numerosi proseliti. Ma nel dicembre 1528 il pre- lato Giacomo Lanceo, procuratore fiscale del duca Carlo III ed in pari tempo Commissario papale contro l'eresia negli Stati Sabaudi, impensierito dei progressi del frate, lo accusò di proposizioni ereticali presso il duca di Savoia, e, come prova della sua ereticità, trasmise a Roma, al Cardinale Dal Monte, un Memoriale, che in 11 capi riassumeva le « scandalose» dottrine predicate dal Carmelitano nella città di Chieri. Insieme con « le conclusioni », le quali - come vedremo [12] rivelavano apertamente la loro derivazione dalle dottrine luterane, il Lanceo trasmetteva a Roma anche un altro scritto latino del Pallavicino, non meno compromettente. In esso il frate esaltava l'avvento della Riforma e la dottrina dei Riformatori, sebbene non li nominasse esplicitamente. Ne riassumiamo i punti principali.

«Gioiscano le stelle, esulti la terra e giubili ogni popolo, poiché Dio, nella sua misericordia, ha fatto rivivere la fulgente verità celeste offuscata ed ottenebrata per lungo tempo e quasi estinta dagli empi sofismi e commenti degli uomini. Ormai persone di ogni ceto e di ogni ordine, infiammati dallo spirito divino, si alzano a denunciare e ad accusare pubblicamente le perverse dottrine inventate dalla corrotta mente umana (carnis nephandissima dogmata). Non c'è città, non c'è borgo, in cui non sorga di nuovo qualche sacro testimone del Vangelo, sebbene la coorte di Satana infuria e gli empi fieramente si oppongano. Ma ciò è naturale, perché il Verbo di Dio è dato a rovina ed a risurrezione di molti ed il Salvatore stesso, come pietra riprovata e di scandalo, non è venuto a portare la pace, ma la spada ed a separare i figli dai padri, la nuora dalla suocera. Quello stesso Salvatore afferrò me, mentre stavo vagando nelle dense tenebre degli errori umani ed ero cieco ed accanito avversario della verità e mi condusse ai purissimi e schietti eloqui della Sua Maestà. Io non mi opposi e lo proclamai apertamente ed a voce alta (raucae factae sunt fauces meae). Lasciandomi guidare dal volere divino, venni a Chieri e qui, come mi dettava lo Spirito Santo, sinceramente e candidamente predicai, proclamando che, secondo le divine scritture, siamo giustificati per la fede e non per le opere, non perché le opere non siano necessarie per ubbidire a Dio e per essere di utile esempio al prossimo, ma perché Cristo è stato dato a noi dal Padre come unica giustizia, affinché, non potendo noi da noi stessi fare nulla di buono, le nostre azioni malvagie non ci fossero imputate a colpa, mercé la fede in Lui. Questa, questa è la dottrina che la carne non vuole tollerare, perché aspira ad essere buona da sé e per se stessa ed a procurarsi con le proprie opere la beatitudine eterna. Questo insegnarono ipocritamente gli uomini rapaci, i quali, negata la giustizia di Dio, ne stabilirono una propria con Messe, altari, immagini, offici ed altre simili invenzioni pro ventris libidine'. Ma voi Chieresi, destatevi, ravvedetevi, contemplate in tempo la luce, affinché le tenebre non vi avvolgano».

L'intervento tempestivo del Lanceo e la minaccia di lapidazione lanciatagli da alcuni gentiluomini chieresi, sobillati dal Commissario Papale, costrinsero il Pallavicino ad interrompere la sua feconda predicazione ed a cercar scampo a Casale, nel Monferrato, su terra mantovana. Com'era da prevedere, la risposta del S. Offizio romano fu che le dottrine del frate erano offensive per la Maestà Divina e perniciose per l'autorità della Chiesa e per la salute delle anime dei fedeli. In conseguenza di ciò, l'Inquisitore del Piemonte ricevette l'ordine di procedere all'arresto [13] del frate e di condannarlo, se risultasse veramente colpevole (16 dic. 1528).

Il Breve di cattura fu ribadito sette giorni più tardi (23 dic. 1528) 14 con una lettera del Papa diretta «a tutti i Signori temporali delle città, borghi e terre del ducato di Savoia, dei Marchesati di Saluzzo e di Monferrato e del ducato di Milano». Dopo aver ricordato la Bolla di Leone X contro gli ecclesiastici, che nelle loro predicazioni esponevano al popolo dottrine scandalose ed ereticali, pervertendo le anime semplici dei fedeli, il Papa notificava che un tale «Jo. Baptista Pallavicinus ordinis Carmelitarum nuper in reprobum sensum ductus, ut fide dignorum relatione percepimus, in diversis oppidis terris et locis Ducatus Sabaudiae et Salutiarum ac Montisferrati Marchionatuum quam plurimas conclusiones erroneas ac falsas temere publicare praesumpserit, asserens diversos fratres diversorum ordinum eadem, quae ipse predicat, tenere et disseminare in gravem divinae Majestatis offensam et ejusdem Sacrae Romanae Ecclesiae, cunctorum christifidelium matris et ministrae, ac Catholicae et orthodoxae fidei scandalum et apostolicae sedis auctoritatis enervationem necnon animarum salutis perciciem et irreparabile detrimentum».

Per porre un freno a tanto scandalo, il Pontefice ordinava ai Signori feudali di fare prigioniero il frate con tutti i suoi seguaci e di tenerli ben custoditi nelle carceri, dandone immediato avviso a Roma per i provvedimenti del caso. A chiunque cooperasse all'arresto, il papa prometteva l'indulgenza plenaria e la remissione di tutti i peccati.

Il Pallavicino fu arrestato, non sappiamo né dove né quando, e fu sottoposto a processo. Ma conscio della sorte che lo attendeva in caso di ostinazione, o ritrattò le sue dottrine o raddolcì la gravità delle sue colpe, denunciando i suoi complici ed altri fautori delle nuove dottrine [15]. Le successive peripezie del frate a Venezia e a Modena (1533) non interessano più la nostra storia. Condannato un'altra volta per eresia, nel 1539, fu chiuso in carcere a Roma, in Castel S. Angelo. Riebbe la libertà e l'uso della predicazione (1540); ma, non avendo voluto far tacere la propria coscienza, fu rinchiuso nuovamente in carcere e sottoposto alla tortura. Ed è probabile che allora, come eretico relapso ed impenitente, la sua voce importuna sia stata fatta tacere per sempre. Da quest'anno, infatti, si perdono le sue tracce [16].

Il processo del Pallavicino, che aveva rivelato a Roma la diffusione della Riforma in tanta parte del Piemonte, fu forse la causa per cui il Marchesato di Saluzzo venne implicitamente incluso fra le terre, che il papa assegnò, l' 11 luglio 1529, a Monsignor Gazzino [17], vescovo di Aosta, per procedere alla raccolta degli spogli 18 e delle decime ecclesiastiche, che dovevano sopperire alle forti spese incontrate nella repressione dell'eresia al di là come al di qua delle Alpi. E poiché nel Breve si legge che la colletta era fatta a richiesta dei prelati dei tre paesi: ducato sabaudo, Monferrato e Marchesato di Saluzzo, sembra logico dedurre che gli ecclesiastici del Marchesato, nell'adire all'invito, avessero ormai chiara la visione dei gravi mali, che il moto protestante incipiente arrecava alla fede cattolica ed ai loro interessi privati anche nelle terre della loro diocesi.

A questi primi influssi delle nuove dottrine non sfuggi forse la stessa famiglia marchionale dei Saluzzi.

Infatti, i verbali del processo 19, che Francesco dei Saluzzo intentò contro il fratello Giovan-Ludovico, tra il 1530 e 1532 registrano, accanto alle accuse di fellonia e di inettitudine, anche quella di eresia. Lo si accusò non solo d'aver bruciato la chiesa di S. Bernardino, in Saluzzo, per vendicarsi del confessore, che istigava sua madre a defraudarlo dei suoi diritti, e di aver trasformato in cannoni il bronzo delle campane, ma di aver mangiato carne per tutto il tempo della quaresima in spregio della Chiesa Cattolica e di aver fatto bruciare un crocifisso e le immagini dei Santi, di Gesù e della Vergine.

Più ancora di Giov. Ludovico simpatizzarono con la Riforma, forse fin da questi anni, altri membri della famiglia marchionale, quali i Signori di Monterosso, Valgrana, Montemale, La Morra, Cardè e Castellar, la cui eterodossia apparirà con più sicura documentazione nei decenni seguenti.

L'eco della Riforma Protestante, predicata in Germania, in Svizzera ed in Francia, giunse assai presto alle comunità valdesi, che sopravvivevano nella Provenza e nel Delfinato, al di là delle Alpi, e nelle valli del Pellice, del Chisone e dell'Alto Po, sul versante piemontese.

La grandiosità del movimento riformatore, che aveva in- vaso buona parte dell' Europa, la profonda rigenerazione della Chiesa, che esso propugnava, con il ritorno alla semplicità ed alla fedeltà della dottrina e disciplina apostolica, sembravano dover realizzare le secolari aspirazioni delle congreghe valdesi. Perciò si capisce come le prime notizie della protesta luterana, benché ancora incerte, ravvivassero in esse l'interesse religioso, che per effetto delle persecuzioni era sopito sulla soglia del sec. XVI e vi accendessero un vivo desiderio di conoscere più particolarmente le nuove dottrine e di allacciare più intimi rapporti con i novatori di oltralpe [20].

Nel settembre del 1526 una prima assemblea di 140 barbi valdesi, convenuti di Francia e d'Italia, si riuniva nell'alpestre vallone del Laus, presso Fenestrelle, nell'alta valle del Chisone, e decideva d'inviare in Germania due barbi, Giorgio di Calabria e Martino Gonin di Angrogna, per prendere più esatte notizie sulle dottrine e sugli intenti della nuova chiesa sorgente. Secondo la tradizione, si sarebbero spinti fino a Wittemberga dal grande riformatore Martin Lutero . Ritornarono, portando con sé numerosi scritti dei novatori e l'esortazione ad esaminare più attentamente, alla luce della Riforma, le dottrine valdesi, che ancora li tenevano sospesi, ed a conformarsi anch'essi alla disciplina dottrinale ed ecclesiastica instaurata dalla chiesa riformata.

Una seconda Sinodo fu convocata nel 1530 a Mérindol, in Provenza, dove le dottrine dei Riformatori transalpini furono sottoposte ad attento esame, confrontate con la confessione e la prassi delle comunità valdesi e vagliate alla luce della Sacra Scrittura. E poiché parecchi punti rimanevano dubbi, si decise di mettere per iscritto una lista assai lunga delle questioni più controverse e di rinviare due altri barbi, Giorgio Morel di Freissinière e Pietro Masson di Borgogna, in Svizzera ed in Germania, per interpellare i Riformatori e chiedere il loro illuminato consiglio. I deputati andarono a Neuchâtel, Berna, Basilea, Strasburgo, abboccandosi successivamente con Haller a Berna, con Ecolampadio a Basilea, con Bucero e Capitone a Strasburgo [22]. Da tutti costoro ebbero consigli, esortazioni ed anche risposte scritte intorno ai vari quesiti, che li lasciavano perplessi, sia intorno alle dottrine del battesimo, dei Sacramenti, del libero arbitrio, della predestinazione e del giuramento, sia riguardo alla nuova organizzazione ecclesiastica ed alla vita comunitaria [23].

Nel ritorno, attraversando la Borgogna, il Masson fu riconosciuto, condotto a Digione e giustiziato; il Morel poté scampare con gli scritti dei Riformatori, che, tradotti in idioma valdese, sottopose all'esame di una seconda assemblea riunitasi a Mérindol nel 1531. L'assemblea si chiuse, redigendo una nuova confessione di fede valdese ed indicendo una Sinodo generale, alla quale potessero partecipare i decani della setta e tutte le persone più dotte ed autorevoli, allo scopo di togliere il dissenso, che regnava in seno ad alcune congreghe valdesi tra gli elementi tradizionalisti o conservatori e quelli progressisti o novatori. I primi volevano rimanere fedeli alle dottrine, alle usanze ed allo spirito del movimento valdese, paventando le deviazioni, che l'aperta adesione alla Riforma Protestante poteva causare; gli altri, per contro, patrocinavano non solo l'adesione, ma la fusione delle Comunità valdesi nel grande movimento riformato, col quale riconoscevano affinità di principî e di intenti, consci che il sacrificio di alcuni punti dottrinali, cari alla tradizione valdese, sarebbe stato largamente compensato dalla linfa vitale, che l'intimo contatto coi Riformatori di oltralpe avrebbe trasfuso nei gruppi, ormai esigui, della dissidenza valdese.

La nuova assemblea, che doveva pronunciarsi sulla definitiva adesione dei Valdesi al movimento riformato, si tenne al di qua delle Alpi, a Cianforan, nel vallone di Angrogna, dal 12 al 18 settembre 1532. Su invito dei Valdesi, inter- vennero anche i riformatori svizzeri Guglielmo Farel ed Antonio Saunier 24. Le conclusioni della Sinodo, compendiate in 25 articoli 25, ammettevano la legittimità del giuramento, se fatto in onore di Dio ed a vantaggio del prossimo; il riposo domenicale, la predestinazione e la facoltà per i ministri di possedere quanto fosse sufficiente al sostentamento delle loro famiglie; negavano il celibato obbligatorio, la confessione auricolare, la bontà delle opere umane senza la grazia divina, la giustizia e vendetta personale, l'usura, il libero arbitrio e il digiuno a tempo stabilito; prescrivevano la preghiera ed il culto divino in spirito e verità, senza l' ingombro degli elementi formali, e la carità verso i fratelli; fissavano a due soli i Sacramenti: il battesimo e l'eucaristia; non ritenevano necessaria ai ministri l'imposizione delle mani e l'unzione ecc. La chiusa conteneva una calda esortazione a rimanere concordi nell'insegnamento e nell'interpretazione delle Sacre Scritture secondo le conclusioni sancite dall'assemblea.

L'adesione, votata a grande maggioranza, lasciò tuttavia dei malcontenti. I vecchi barbi, Daniele di Valenza e Giovanni di Molines, con parecchi loro aderenti, non vollero piegarsi alle decisioni della Sinodo e si recarono presso i fratelli valdesi di Boemia per sollecitare, a proprio favore, il loro consenso e la loro autorità. Preoccupati dell'opposizione, che minacciava di scindere la concordia delle comunità valdesi, i partigiani dell'adesione alla Riforma mandarono, alla loro volta, i barbi Gonin e Guido nella Svizzera a sollecitare l'intervento di Farel e di Saunier. Intanto indicevano una nuova Sinodo a Prali, nell'alta valle della Germanasca (15-18 agosto 1533). La Si- nodo confermò le decisioni dell'assemblea di Cianforan. Dalla Svizzera giunsero, a Sinodo ultimata, il Saunier e Pietro Ro- berto Olivetano, cugino di Calvino e celebre umanista. Mentre il Saunier faceva opera di persuasione e di concordia, Olivetano, secondo le decisioni prese nelle Sinodi di Angrogna e di Prali, si consacrava nel tranquillo recesso delle Alpi, a tradurre in lingua francese la Bibbia, che il nuovo fervore religioso reclamava fosse offerta al popolo in lingua accessibile e parlata. Il 12 febbraio 1535 la traduzione era terminata ed il tipografo ginevrino, Pietro de Wingle, ne curava sollecitamente la stampa. L'opera uscì dai torchi il 4 giugno del mede- simo anno e, sulla fine di luglio, i primi esemplari erano introdotti nelle Valli. Per la stampa della Bibbia le popolazioni valdesi versarono 800 scudi d'oro: somma, che risulta imponente per quelle misere popolazioni montane e che testimonia del loro zelo e del loro spirito di sacrificio.

L'opera riuscì preziosa non solo per il suo valore intrinseco e perché servì di base a parecchie traduzioni francesi posteriori, ma soprattutto perché fu valido strumento per accrescere nella massa del popolo la conoscenza della Sacra Scrittura, caduta in disuso per l'ignoranza della lingua latina e per la diffidenza del clero e della Chiesa.

Incoraggiati dalle appassionate esortazioni dei Riformatori transalpini e dalle notizie dei rapidi progressi ottenuti dalla Riforma nella Svizzera e nella Francia, i nuclei valdesi delle valli del Pellice e del Chisone, che, come abbiamo visto, da vari decenni sopivano per timore delle persecuzioni, si sentirono spinti a rinnovare l'antico fervore di proselitismo, così da diventare in pochi anni il fulcro di attrazione dei nuclei dispersi della dissidenza piemontese ed il centro d' irradiazione delle dottrine riformate in tutte le terre circostanti.

Il nuovo fervore di vita si propagò ben presto anche nelle valli contigue del Marchesato di Saluzzo, specialmente in quella di Paesana, dove la popolazione valdese, già fiaccata dalla persecuzione di Margherita di Foix, fu pronta anch'essa ad agitare la nuova fiaccola religiosa ed a stringere intimi contatti con i nuclei eterodossi disseminati nella pianura sottostante. Pare che fin da quell'anno nelle valli del Po e della Macra si tenessero pubbliche congregazioni, alle quali i riformati accorrevano da ogni borgo del Marchesato, per udire la predica, prendere la Cena e celebrare battesimi e matrimoni secondo il nuovo rito. Se ne ha la prova nel Breve, che Papa Clemente VII indirizzò l'8 novembre 1532 all'Inquisitore avente giurisdizione nelle terre del Marchesato [26]. Il Breve concedeva a lui pieni poteri per inquisire, sia contro i Valdesi ed i luterani, sia contro i fautori e sospetti dell'una e dell'altra fede, i quali erano accusati di seminare le dottrine eretiche, ora segretamente, con libri e conversazioni private, ora pubblicamente, con assemblee e con prediche, e di cercare di attrarre i cattolici alle loro pratiche con arti subdole e diaboliche.

Oltre che contro i laici il Breve metteva in guardia le autorità civili e religiose contro i preti ed i frati apostati, i quali, con arti anche più subdole e con più funeste conseguenze, pervertivano le anime dei fedeli. Tutti ordinava all'Inquisitore di arrestare, senza eccezione, colpevoli o sospetti, laici ed ecclesiastici, giudicandoli e condannandoli egli stesso, se laici, in compagnia dell'ordinario del luogo e secondo il giure canonico; istruendone i processi e mandandone gli atti a Roma per le conseguenti censure, se ecclesiastici.

Non sappiamo quale attuazione abbia avuto il Breve fra le comunità valdesi di Val Paesana e fra i gruppi dissidenti della pianura. Nessun documento coevo, per quanto sappiamo, ci tramandò il ricordo di speciali vessazioni in questo tempo Le impedirono o le attutirono le incessanti guerre, che straziavano il Marchesato; le particolari franchigie, delle quali il popolo godeva riguardo al Tribunale della Santa Inquisizione; l'intervento tempestivo di magistrati ed ufficiali stranieri riformati o simpatizzanti con la Riforma e l'incuria del marchese Francesco, al quale il problema della repressione dell'eresia pareva assai meno urgente di quello dell'indipendenza e dell'integrità del Marchesato.

Comunque sia, il Breve papale è importante, perché, mentre ci attesta l'improvviso risveglio religioso delle antiche comunità valdesi stabilite nelle alte valli del Marchesato ed esplicitamente menzionate nel documento, ci conferma in pari tempo che le nuove dottrine, per l'ardita predicazione di laici e di ecclesiastici, apostati o sospetti, andavano rapidamente guadagnando terreno anche nei borghi e nelle città della pianura [27], così da rappresentare un primo grave pericolo all'università della fede cattolica.

Il pericolo crebbe e si rese più manifesto negli anni seguenti con l'afflusso di numerosi valdesi e riformati della Provenza. Quivi i fedeli della nuova religione erano esposti a gravi inquisizioni e persecuzioni da parte del Parlamento di Aix. Nei processi risultarono coinvolti parecchi piemontesi, sudditi del duca di Savoia, i quali rivelarono ai giudici gli stretti rapporti religiosi, che intercedevano tra le comunità riformate di Francia e quelle del Piemonte. Il duca Carlo III mandò in Provenza (1534) il signor di Roccapiatta e Prarostino, Pantaleone Bersore o Bersatore, per trarre dalle confessioni degli imputati i nomi di tutti coloro, che nei suoi domini piemontesi e nelle terre limitrofe professavano e divulgavano le nuove dottrine. Al suo ritorno, a capo di una schiera di 1500 armati, fornitigli dal duca, il Bersore si diede a percorrere le valli del Pellice e le terre della pianura piemontese, arrestando quanti erano indiziati e sospetti. La conseguenza fu che, contemporaneamente agli esuli di Provenza, altri riformati abbandonarono le terre ducali per cercare un asilo momentaneo o duraturo sulle terre del Marchesato, infittendo le file dei dissidenti saluzzesi [28].

L'afflusso allarmò le autorità ecclesiastiche del Marchesato e gli agenti del S. Offizio, già messi in guardia dal Breve papale sopra ricordato. Intensificata la vigilanza sui forestieri e sulle persone sospette e vaganti, cadeva nelle mani dei birri del- l'Inquisizione un valdese, nativo di S. Giovanni, in Val Luserna, chiamato Catalano Girardetto [29], il quale attendeva a predicare le nuove dottrine nella Valle di Paesana e nelle terre circonvicine. Condannato ad essere arso sul rogo, a Revello, davanti al popolo, affinché la sua morte servisse di monito agli audaci novatori, egli mostrò un' indicibile forza d'animo. Narra la tradizione che il Girardetto, condotto sul luogo del supplizio, chiese due sassi, e, dopo averli percossi l'uno contro l'altro, gridò ad alta voce ai suoi carnefici ed al popolo, che lo attorniava: «Voi vi illudete di poter distruggere le nostre chiese con le vostre persecuzioni; ma ciò non sarà più facile a voi che a me infrangere con le mani queste due pietre » (1534-35).

L'episodio, vero o leggendario che sia, può mostrare l'ardore, che animava i seguaci della nuova fede, e spiegare il crescente diffondersi di essa. Come al tempo del Cristianesimo, il martirio degli umili, ma intrepidi dommatizzatori valdesi e luterani, anziché spegnere lo zelo del proselitismo, lo ravvi- vava e conquistava nuovi aderenti nella massa del popolo.

Secondo una tradizione raccolta dal Gaberel (Hist. de l'Église de Genève, Genève, 1858, t. I, 266-67), il riformatore Giovanni Calvino, sulla fine del 1535, nel ritirarsi dalla Corte di Ferrara e prima di inoltrarsi nella Valle di Aosta, dalla quale doveva essere violentemente cacciato, avrebbe costeggiato l'Appennino Ligure ed il Contado di Nizza, visitando ed esortando vari nuclei di fedeli riformati dispersi nelle città e nelle campagne del Piemonte. Con qualche successo avrebbe predicato in Val Grana che, come vedremo, fu infatti uno dei primi e più fiorenti centri di penetrazione delle nuove dottrine; ma, giunto nella località di Cartignano, avrebbe corso grave pericolo di essere lapidato dalla folla aizzata dal clero.

Pertanto anche Calvino stesso dovrebbe essere annoverato tra i primi banditori della nuova fede nelle terre del Marchesato.

Gli anni, che seguirono, furono pieni di gravi avvenimenti politici e militari. Buona parte del Piemonte cadde sotto il dominio dei Francesi (1535-36), provocando per reazione le invasioni ed i saccheggi delle truppe imperiali. Da questi mali non andò esente neppure il Marchesato di Saluzzo, che fu spesso campo di battaglia fra i due contendenti. Sopì pertanto il furore inquisitoriale, tanto più che fra le truppe dislocate nei presidi francesi pullulavano ormai i soldati riformati e che fra l'alta ufficialità francese e tedesca si contavano in quegli anni e nei seguenti parecchi personaggi già riformati o che lo diventeranno in seguito, come il Conte Guglielmo di Fürstenberg, Gautiero Farel, fratello del riformatore, il Coligny, il Téligny, il La Noue e parecchi altri, od uomini tolleranti, come il Visconte di Gourdon, l'Annebaut, il maresciallo di Thermes, il Principe di Melfi, Martino e Guglielmo Du Bellay, Carlo di Cossé, conte di Brissac ecc. [30]. Verso il 1540 il Ferrerio pone la conversione totale alla Riforma di Acceglio, la più alpestre borgata della valle di Macra, e ne adduce come causa la predicazione infiammata di due fratelli, Lodovico e Lorenzo, e di un altro Ludovico, dei quali non tramanda i casati, e di un medico detto Ugone. Quest'ultimo, caduto incautamente nelle mani del S. Offizio e condotto nelle carceri di Saluzzo, sarebbe stato lasciato perire di fame, mentre i suoi tre compagni, più fortunati, avrebbero potuto continuare indenni la loro opera di proselitismo nella valle, conquistando alla loro fede, dopo Acceglio, anche Prazzo, San Michele, Canosio, Stroppo, Elva e Lottulo, cioè gran parte della Valle Superiore della Macra [31].

Quanto ci sia di vero in questa tradizione non è facile dire, sia a causa della imprecisione dei nomi, sia perché la testimonianza del Ferrerio non solo non è corroborata da documenti, ma sembra essere contraddetta da successive affermazioni dello stesso autore. Infatti, poco più oltre [32], egli asserisce che l'introduzione della Riforma nelle terre marchionali avvenne solo con la stabile occupazione francese del Marchesato e cita questa volta come «antesignanos corruptores et primarios erroris disseminatores in Marchionali regione » i due eresiarchi apostati dalla religione cattolica: Gioffredo da Busca e Ludovico da Cuneo. Qui i due “seminatori di eresia” sono facilmente riconoscibili e storicamente individuati. Il Gioffredo da Busca è Fra' Gioffredo Varaglia da Busca, il quale, dopo la sua apostasia come vedremo in seguito andò ministro fra i Valdesi della Valle del Pellice e sali il rogo in Torino nel 1558, martire della nuova fede. Il Ludovico da Cuneo è indubbiamente Giov. Ludovico Pascale da Cuneo, che studio teologia a Losanna e Ginevra, fu consacrato ministro ed in seguito inviato come predicatore alle comunità valdesi della Calabria. Perì anch'egli sul rogo, a Roma, nel 1560 [33].

Come personaggi storici, il Varaglia ed il Pascale hanno indubbiamente un vantaggio sopra i dommatizzatori precedentemente nominati, dai nomi confusi e frammentari. Ma, presi come «antesignani della Riforma nel Marchesato», essi farebbero ritardare più di un decennio l'introduzione della predicazione riformata nel Saluzzese. Infatti, sappiamo che il Varaglia non venne in Piemonte, come ministro, che nell'anno 1557 e che, avendo apostatato solo nel 1556, non poté predicare la Riforma nella sua terra natia che alla vigilia del suo martirio: quanto al Pascale sappiamo che solo nel 1551 egli si iscrisse come studente al Collegio ginevrino, il che lascia supporre che egli, più che antesignano della nuova fede, sia stato uno dei frutti più preziosi della preesistente predicazione protestante nelle terre del Cuneese. Dopo la sua andata a Ginevra non risulta più ch'egli abbia fatto ritorno in patria o nel Marchesato.

Concluderemo dunque affermando che la testimonianza del Ferrerio, mentre rimane incerta e dubbia per quanto concerne i nomi dei primi divulgatori della fede riformata nel Marchesato, può invece essere accettata come vera per quanto concerne la data (1540 circa), in cui la Riforma si sarebbe affermata nella valle della Macra e nelle terre adiacenti per opera di dommatizzatori francesi e italiani, preparando i primi nuclei di quelle comunità, che ci sono attestate dai documenti successivi.

Ad arrestare i progressi della Riforma, tanto in Val Macra quanto nelle attigue valli della Varaita e del Po, fu mandato in quegli anni - a detta dei suoi biografi il celebre frate fossanese Girolamo Negri [34], che risiedeva nel convento fran- cescano di Savigliano, del quale diventò Priore nel 1549: «Fidei propugnator acerrimus et pontificatus antimuralis»> lo di- cono i suoi biografi: ma la giovanile simpatia per la Riforma [35], alcune dottrine ritenute sospette e la lettera che alcuni anni dopo indirizzò al duca E. Filiberto, piena di mitezza e d'insolita tolleranza, ci inducono a credere che anche in quella missione il frate si sia astenuto da violenze e da persecuzioni, limitandosi a persuadere gli eretici con la predicazione e con l'esempio.

Ma i suoi sforzi non arrestarono i progressi della Riforma, che dalle vallate alpine continuò a spandersi con maggiore intensità verso le città ed i borghi della pianura.

Parecchi fatti ce ne offrono una prova diretta o indiretta: anzitutto l'intensificarsi degli ordini contro i bestemmiatori di Dio, della Vergine e dei Santi, dove sembrano accomunati insieme con i volgari bestemmiatori anche coloro che, come i riformati, negavano il culto della Vergine e dei Santi per un preciso precetto della loro fede, non per sprezzo e vilipendio. Con insolito rigore applicò la repressione la città di Carmagnola [36], dove l'espansione delle nuove dottrine era favorita - come già dicemmo dal traffico commerciale e dalla presenza di milizie straniere . Le stesse ragioni favorirono i progressi della Riforma anche in Savigliano. Qui comandanti e governatori francesi [37], sotto pretesto di sicurezza militare, inibirono talvolta ai cat- tolici di radunarsi nelle chiese senza autorizzazione speciale: e la confraternità dell'Assunta, che pure aveva santuario proprio, fu obbligata a pagare una determinata somma al giudice «pro licentia veniendi ad domum more solito>> (a. 1542) [38].

Negli anni seguenti si ebbero nuovi afflussi di riformati dalle terre di Francia e dai dominî sabaudi piemontesi.

In Provenza, dopo la violenta persecuzione scatenata negli anni 1528-1533 dall'Inquisitore domenicano Giacomo da Roma e dopo una lunga serie di processi intentati dal Vescovo e dal Parlamento di Aix dei quali già abbiamo parlato - i Valdesi ed i riformati avevano potuto godere di una relativa tranquillità e tolleranza per effetto della protezione dei Prin- cipi Protestanti di Germania e dei Cantoni Evangelici della Svizzera. Ma nel 1545 la persecuzione si rinnovò con nuova violenza contro i dissidenti fino ad assumere il carattere di una vera crociata per opera del Barone Jean Maynier D' Oppède, nominato luogotenente del re in Provenza 39. Ventidue villaggi, popolati da Valdesi, furono saccheggiati ed incendiati, quattromila riformati rimasero uccisi, molti altri furono gettati in carcere e di questi 255 furono condannati a morte e circa 600 alle galere. I fortunati, che trovarono una via di scampo, ripararono chi nel Delfinato, chi nella Svizzera, chi nelle montagne e nelle vallate al di qua delle Alpi, in terra ducale e marchionale, dove trovarono fraterna accoglienza presso i nuclei riformati delle valli del Pellice, della Varaita, della Macra e della Stura. I signori De Bouliers (o Bolleri), ai quali appartenevano parecchie delle terre popolate da Valdesi e saccheggiate dal D'Oppède, non solo protestarono presso il re, chiedendo la cessazione della persecuzione ed il processo del fanatico luogotenente, ma vennero in aiuto ai loro sudditi, concedendo ad essi ospitalità sicurezza nelle terre, che possedevano al di qua delle Alpi, a Centallo e a Demonte, che vedremo presto diventare centri notevoli d'irradiazione della fede riformata.

Seguirono altri afflussi di dissidenti dalle vicine terre del Cuneese. A Cuneo la Riforma fin dal 1544 contava numerosi proseliti tanto fra il popolo minuto della città e della campagna, quanto nella classe nobile ed agiata; tanto fra la gente d'arme quanto fra quella togata [40]. Il governatore Paolo Vagnone si illuse di potervi mettere riparo con atti di repressione; ma il moto, anziché estinguersi, crebbe talmente di numero e di prestigio negli anni seguenti, da richiedere (1551) un violento editto di persecuzione in parte attenuato dal Consiglio stesso della città, ostile al governatore. Da Cuneo e da Caraglio i dissidenti minacciati si spostarono nelle vicine terre marchionali di Dronero e di S. Damiano all’imbocco della Val Macra.

Altra causa, non meno forte, d' infezione ereticale in quella parte del Marchesato, fu la cittadina di Busca, appartenente al dominio sabaudo, ma presidiata da truppe francesi ed incuneata nelle terre marchionali, sulla via diretta tra Dronero e Saluzzo. Qui la Riforma aveva permeato buona parte del popolo, aiutata dalla prudente o clandestina predicazione di preti e frati apostati. Se non è provato che vi abbia predicato in quegli anni il celebre frate Gioffredo Varaglia, nativo di quella terra, è certo tuttavia che, verso la metà del secolo (1548-49), vi predicò cautamente e parzialmente la Riforma il prete Giov. Pietro Buschetto [41], il quale apparteneva ad una delle più illustri famiglie di Chieri, ma aveva intimi rapporti con Busca o per vincoli familiari o per avervi l'investitura di qualche beneficio.

Nei suoi giovani anni aveva abbracciato la carriera ecclesiastica; poi, datosi agli studi, aveva visitato Strasburgo [42], Losanna, Parigi, Lione, entrando in contatto con parecchi riformatori protestanti e con riformati illustri. Una grave malattia della madre lo richiamò in patria. Mortagli la madre, forse come figlio primogenito, dovette interrompere la carriera degli studi per dedicarsi al sostentamento della famiglia. Fu perciò costretto a rientrare nelle file del clero per riavere un lauto beneficio, che gli era stato usurpato durante la sua assenza. Ma la sua fede, intimamente protestante, non poteva ormai più adattarsi ai dommi ed alle cerimonie del culto cattolico. Cercò pertanto di conciliare le esigenze della coscienza con l'esercizio della professione sacerdotale, e, con insolita arditezza, approfittando di quegli anni di guerra e di disordini, osò attuare alcune riforme liturgiche nella celebrazione del culto cattolico. Non abolì la Messa, ciò che lo avrebbe apertamente denunziato come eretico, ma aboli determinati paramenti sacri, l'elevazione dell'ostia ed «i gesti istrionici» così li chiamava che si sogliono fare davanti all'altare. Volle inoltre che il Vangelo fosse predicato in tutta semplicità e purezza ed in lingua volgare, affinché tutto il popolo lo potesse più facilmente intendere; ed in volgare pure volle che fossero letti la confessione, che precede l'atto della Messa, e il simbolo apostolico e le altre preghiere. Soprattutto si preoccupò che il Vangelo fosse largamente spiegato al popolo ed ai fanciulli. Così, nascondendo la sua intima fede protestante sotto una parvenza di ortodossia cattolica, il Buschetto sperò di poter gettare tra il popolo come egli diceva abbondanti semi di verità, capaci di diradare le tenebre dell'ignoranza e della superstizione e di condurre gradatamente le anime ad una più piena conoscenza della fede riformata.

Ma il Buschetto, nella lealtà della sua coscienza, si rendeva conto che un simile modo di procedere, se metteva la sua persona al riparo dalle accuse di aperta eresia, non poteva tuttavia esimerlo dal biasimo di viltà e di simulazione: perciò in più lettere al riformatore Calvino egli cercava di giustificare la sua condotta, gettandone la colpa sulla intolleranza della Chiesa e lasciando sperare una più aperta e totale adesione alla Riforma, non appena i tempi fossero migliori. «Se nessuno, egli scriveva, m'impedisce d'insegnare la verità, non vi è neppure alcuno che mi costringa a credere a quella falsità ed a partecipare alle pratiche superstiziose del culto. Anzi io posso, se ho in me qualche utile conoscenza acquistata presso di te, per grazia di Dio, esporla pubblicamente senza punto rendermi complice della loro idolatria, sforzandomi di estirpare gl' idoli dai cuori, se non posso toglierli dinanzi agli occhi. E ciò non mi par poco, in un paese, ove non si gode libertà».

In tale condotta simulatrice il Buschetto poté continuare fino all'anno 1557, quando o perseguitato dall'Inquisizione o desideroso di seguire una più franca professione della sua fede riformata, egli riparò a Ginevra, dove lo troveremo tra i primi iscritti all'Accademia fondata da Calvino [43]. La parziale riforma del culto cattolico e la prudente dissimulazione della fede riformata tentata dal Buschetto ebbero larga risonanza nelle terre contigue del Marchesato, alimentando quella speciale corrente pseudo-riformata, che fu detta «Nicodemita».

Di essa parleremo più diffusamente nel cap. IV.

Verso la metà del secolo, con la stabile occupazione francese, la Riforma fece notevoli progressi in Savigliano, favorita o tollerata dal governatore e dalla ufficialità francese del presidio, che già negli anni precedenti abbiamo visto alquanto ostile al culto cattolico. Vi predicò con fervore le nuove dot- trine Giovan Paolo Alciati [44], signore della Motta, il quale nei suoi anni giovanili aveva abbracciata la carriera militare, ma fin dal 1546 aveva aderito alle dottrine protestanti, allacciando relazioni con Ginevra e con Calvino e con vari gruppi anabattisti d'Italia e di oltralpe.

La riforma, oltre che nel popolo, aveva trovato aderenti in parecchie famiglie nobili della città e del contado, quali i Solaro, signori di Levaldigi, Villanova e Caraglio, ed i Cambiano, signori di Ruffia e di Rigrasso. Nel 1554 il nucleo riformato, già saldamente costituito, sentiva il bisogno della presenza stabile di un ministro per la celebrazione degli atti liturgici e per l'edificazione ed istruzione dei fedeli.

Un dubbio era sorto nella piccola congrega intorno all'amministrazione del battesimo. L'Alciati lo sottopose direttamente a Calvino in occasione di un suo viaggio a Ginevra e ne attese la risposta.

In Savigliano non vi era locale pubblico di culto né ministro fisso ed i neofiti riformati erano costretti o a non battezzare i figlioli od a farli battezzare nascostamente, fra le pareti domestiche, da persone, le quali spesso non rivestivano né il carattere né l'autorità di ministro. Sicché essi, riferendosi alla prassi tramandata dal Vangelo, si chiedevano perplessi se il battesimo praticato in tale forma fosse valido ed avesse lo stesso valore di quello amministrato davanti ad un'assemblea regolare di fedeli e per mano di un ministro legittimamente riconosciuto.

Allo scrupolo della piccola congrega il Riformatore rispose (11 ottobre 1554) con grande benevolenza e con spirito di larga comprensione [45]. Dopo aver lodato i fedeli per il loro zelo religioso e per il fermo proposito di consacrare a Dio, insieme con se stessi, i propri figlioli, Calvino dimostra loro che il battesimo è un ricevimento solenne dei fedeli, piccoli o grandi, nella chiesa di Cristo ed un' immagine terrena della cittadinanza celeste e che pertanto dovrebbe essere amministrato alla presenza di tutti i fedeli. Tuttavia, tenendo conto delle loro speciali condizioni, dichiara che non è assolutamente necessario che vi sia una chiesa regolarmente costituita né un ministro consacrato né un apposito locale di culto: basta che vi sia un nucleo di fedeli, che costituiscano un corpo di chiesa e che, chi battezza, sia riconosciuto dai fratelli unanimemente come ministro. Perciò li esorta a raggrupparsi nel maggior numero possibile, quando vogliono celebrare atti liturgici, a perseverare nella fede ed a moltiplicarsi, in attesa che sia possibile inviare anche a loro un uomo capace di assumere l'ufficio di ministro.

Quello, che accadeva a Savigliano, avveniva, in proporzione minore, anche in altre piazze del Marchesato presidiate da truppe straniere. Spesso cappellani, ufficiali e soldati luterani, nelle tregue delle fazioni guerresche, deposta la spada e l'alabarda, afferravano il Vangelo ed i trattati polemici dei Riformatori, che portavano con sé e che ormai circolavano abbondanti al di qua delle Alpi, e, prima fra le truppe della guarnigione, poi nelle case e nelle locande, che li ospitavano, seminavano con successo le nuove dottrine, trasformandosi da guerrieri in ministri e catechisti [46]. Né era infrequente il caso che, trasportati dalla violenza propria della gente d'arme, trascorressero a spiacevoli eccessi, disturbando perfino le feste e le cerimonie cattoliche [47]. Nelle città poi, dove non prendevano parte attiva alla propaganda riformata, essi riuscivano non- dimeno, con il prestigio della loro nobiltà e della loro carica [48], ad attutire i rigori delle persecuzioni ordinate dal re di Francia (19 nov. 1549) ed a frenare le intemperanze e le violenze decretate dal Parlamento francese di Torino [49]. Pertanto, nei primi anni della dominazione francese, non sembra che il Marchesato avesse a subire gravi persecuzioni né dal potere civile né da quello religioso. Il vescovo Filippo Archinto [50], che succedette ad Alfonso Tornabuoni sulla cattedra vescovile di Saluzzo, alla vigilia della dominazione francese, trovò la diocesi sconvolta dalla guerra, dalla dissidenza religiosa e dalla corruzione del clero e del popolo: ma non sembra che vi abbia saputo o potuto portare forti rimedi. Monsig. Della Chiesa afferma che egli tenne una Sinodo per porre rimedio a tanti mali e che fece una visita pastorale a tutte le chiese della diocesi: ma della Sinodo, come della visita, non è giunta a noi nessuna relazione, tanto che il Chiattone afferma che durante il periodo della sua carica" (1546-1556) egli si preoccupò assai più di assicurare al vescovato le rendite della mensa 51 che di proporre riforme religiose e salutari. Sappiamo tuttavia che in quegli anni egli stampò in Torino (1549) un libro [52] ad uso del clero, destinato a combattere l'eresia, e che sotto di lui fu fatto un tentativo per introdurre il S. Offizio nel Marchesato, ad onta delle immunità riconfermate dai re di Francia e delle norme in vigore nella chiesa gallicana. Secondo il predetto autore un Tribunale della Santa Inquisizione [53] avrebbe funzionato in Saluzzo dal 1554 al 1560, sotto la direzione di Fra' Girolamo da Vigone. Ma nulla sappiamo di preciso, perché gli ordini attribuiti a questo Inquisitore andarono sfortunatamente distrutti come si persero i successivi registri dei processi criminali intentati davanti alla Senescallia di Saluzzo.

Tuttavia che qualche maggiore repressione sia stata tentata contro i riformati nel quinquennio, che precede il trattato di Castel Cambresis (1554-1559), può provarlo il forte numero di riformati delle terre saluzzesi, che in quel periodo affluirono nella città di Ginevra. Alcuni vi andarono sospinti dal desiderio di imparare più intimamente le nuove dottrine: altri per dedicarsi al sacro ministero della predicazione dell' Evangelo: ma i più per fuggire le persecuzioni ed i pericoli, che l'aperta professione delle nuove dottrine riformate aveva tratto o poteva trarre sul loro capo. I loro nomi si possono desumere dai Registri dei Borghesi ed Abitanti di Ginevra, dai ruoli delle matricole dell'Accademia e dagli Atti vari della Chiesa Italiana, la quale raccoglieva gl' immigrati provenienti da ogni regione della Penisola [54]. Tra i partecipi della borghesia ginevrina compare il già citato Giov. Paolo Alciati della Motta, nativo di Savigliano (11 nov. 1555). Era già stato iscritto fra gli abitanti negli anni 1552 e 1554. Secondo l'uso corrente pagò all'atto del conferimento della borghesia 12 scudi ed un seillot. Già un altro saviglianese lo aveva preceduto nella borghesia ginevrina 16 anni prima (11 marzo 1539) colà trasferitosi, non sappiamo se per motivi religiosi o commerciali: Giovanni Franco di fu Perrino, il quale pagò per la borghesia 100 fiorini ed un seillot. Tra gli abitanti troviamo: Giovanni e Michele Maria (o De Maria o Marye), tessitori di Paesana (22 apr. 1555). Gioffredo (Jaffrej o Chiaffredo), figlio di Giov. Allio di Paesana (29 apr. 1555), segnato una seconda volta nel 1557, come nativo di Saluzzo, con moglie e due figli.

  • Antonio Garcin (Garcino), della località di Elva, in Val Macra (3 maggio 1555).
  • Costanzo Garcino, di Elva, forse parente del precedente (3 maggio 1555).
  • Tommaso, figlio di Antonio Garino (Garin, Guerino), di Dronero (24 giugno 1555).
  • Tommaso Margaria (Marguerie, Maguerie), di Busca (8 luglio 1555).
  • Giovanni di Bon, nativo di Scopa (Schoue, Schesne), in Val Sesia, ma residente a Valgrana, nel Marchesato di Saluzzo (15 luglio 1555).
  • Enrico Allio, tessitore, di Paesana (2 sett. 1555). Giovan Luigi Ramondo (Raimondo), di Busca, con moglie (7 ott. 1555).
  • Lorenzo Truscio (Truchi, Truchy,) di Centallo, con moglie e un figlio (15 apr. 1555).
  • Domenico Bertone, di Val Paesana, con moglie e 4 figli (a. 1555).
  • Luigi Gallizia (Halicia, Gallicia), di Acceglio (Sesey, Segly), in Val Macra (23 marzo 1556).
  • Luigi Gallicia (Gallizia), di Acceglio (Asseille), mercante, con moglie, madre e un figlio o nipote (18 maggio 1556). Forse da identificarsi col precedente.
  • Giacomo Bonello (Bonelle), di Dronero (1 giugno 1556). Fu ministro tra i Valdesi di Calabria e morì, martire della sua fede, a Palermo nel 1562 [55].
  • Giorgio Bonairio, di Carmagnola, con moglie e 4 figli. Giorgio Roma Romè), di Carmagnola (1 febbr. 1557). Bernardino Caprin, di Valgrana (14 ott. 1557). Giorgio * Biandrata (Blandrata), di Saluzzo, dottore in medicina (4 nov. 1557) [56].
  • Giovanni Allio di Saluzzo (o Val Paesana ?), con moglie, padre e figli (1557).
  • Gioffredo (Chiaffredo) Rinaldi (o Reynault), con moglie e I figlio (1557): riscritto sotto il nome di Reynauld l'8 maggio 1559.
  • Bernardino Garino, di Dronero, con moglie e 5 figli (1558).
  • Francesco Culotto, di Dronero (1558).
  • Pietro Martino, di Dronero (1558).
  • Antonio Lombardo, di Dronero (1558), tessitore, riscritto 1'8 maggio 1559.
  • Antonio Bertone, di Val Paesana (1558).
  • Francesco Garino (Guerin), di Dronero (1558), riscritto il 29 maggio 1559; studente il 9 nov. 1559, poi ministro nel Delfinato, nelle Valli Valdesi e nel * * * * * Marchesato di Saluzzo [57].
  • Francesco Trucchio (Truchi), di Centallo (8 maggio 1559), studente ed in seguito ministro nel Marchesato e in Val Luserna. Giorgio Gastaud (Gastaldo), sarto, di Carmagnola (15 maggio 1559).

L'elenco è certamente incompleto, ma sufficiente per attestarci che le località, da cui provenivano gli esuli, corrispondevano perfettamente ai centri più attivi della propaganda riformata, e che essa aveva ormai trovato seguaci in ogni ceto della popolazione, tanto fra la nobiltà e la gioventù studiosa, quanto fra gli umili braccianti ed artigiani. Rivela inoltre che l'esodo avvenne più fitto tra gli anni 1555 e 1558; periodo che, come vedremo, corrisponde ad un più forte risveglio dell'intolleranza religiosa contro i seguaci delle nuove dottrine.

Nel 1556 succedette all'Archinto nella sede saluzzese il Vescovo Gabriele Cesano [58], nativo di Pisa, dotto giureconsulto, il quale era stato negli anni precedenti al seguito del Cardinale Ippolito De' Medici ed era stato prescelto a confessore della regina di Francia, Caterina De' Medici. Nominato vescovo nel dicembre 1556, non fece il suo ingresso in Saluzzo, se non alla fine dell'anno seguente (3 dic. 1557).

A detta dei suoi biografi, egli avrebbe atteso con mano ferma a purgare la diocesi di Saluzzo dai mali che l'affliggevano, tenendo un' apposita Sinodo e promulgando ordini e provvidenze per mettere una ferrea briglia all'eresia, che si diffondeva nelle terre marchionali.

Erano, del resto, questi gli anni, in cui la persecuzione infuriava, per ordine del Parlamento Francese di Torino, anche contro i Valdesi delle Valli del Pellice ed i dissidenti di tutta la pianura sottostante compresa nei domini francesi 59. Di questa ventata d'intolleranza sarebbe stato vittima sulle terre del Marchesato, negli anni che corrono dal 1557 al 1559, frate Elia Golla, abate di Caramagna, una fra le più antiche abbazie del Marchesato. Accusato di predicare il luteranesimo, fu sottoposto a processo e condannato ad essere arso sul rogo 60. Al processo, secondo la testimonian za del Rorengo, avrebbe assistito lo stesso Cardinale Carlo Borromeo, dato che il frate era stato sorpreso a dommatizzare sulle terre della sua giurisdizione. Più clamoroso, per la celebrità della persona e per la risonanza grande, che ebbe in tutto il Piemonte, fu il processo ed il martirio di un altro frate, Gioffredo Varaglia [61].

Nacque costui da nobile famiglia in Busca, sui limiti del Marchesato, verso il 1507. A tredici anni (1520) entrò nell' Ordine dei Frati Minori e vi rimase fino al 1547, servendo Messa dal 1528 al 1542. Predicò con grido in varie città d'Italia, fra cui Forlì e Roma. Avendo creduto di riscontrare nel rito cattolico della Messa gravi abusi ed errori contrari all'Evangelo, tralasciò di celebrarla e depose l'abito fratesco. Fu per qualche tempo al servizio del Legato Pontificio, residente alla Corte di Francia, ed insignito di lauti benefici; ma il tormento interiore, che lo spingeva verso le nuove dottrine, lo costrinse ben presto a prendere una franca ed ardita risoluzione.

Nel viaggio di ritorno, giunto a Lione, si congedò dal Legato e se ne fuggì a Ginevra, per meglio istruirsi nelle dottrine riformate. Fu consacrato ministro nella primavera del 1557 e mandato come predicatore in Piemonte, nella Valle d'Angrogna, dove si reclamava urgentemente il ministero di un predicatore, che, esperto della lingua italiana, potesse edificare ed istruire i numerosi fedeli, che accorrevano nella valle da ogni parte del Piemonte. Qui predicò per cinque mesi continui tre o quattro volte la settimana con grande affluenza di fedeli e con grande successo di eloquenza.

La notizia della sua venuta al di qua delle Alpi giunse ben presto alla nativa Busca, a Dronero e nelle terre adiacenti, dove ormai la Riforma contava numerosi proseliti.

Era stato mandato colà a predicare la fede cattolica ed a combattere i progressi delle nuove dottrine, un frate zoccolante, Angelo Malerba. Il frate aveva suscitato un certo scalpore tra la popolazione, disputando intorno agli articoli della giustificazione per la fede ed intorno alle indulgenze. Non essendoci allora in Busca un ministro, che rintuzzasse con una pubblica disputa le affermazioni del frate, i riformati di Val Macra pensarono di ricorrere alla dottrina ed all'eloquenza del loro conterraneo Varaglia.

Il 19 novembre di quello stesso anno Bernardino Guarino, di Dronero, che capeggiava la Riforma in quella valle, invitò il Varaglia a venire a Busca, per affrontare in pubblica disputa il frate zoccolante. Il ministro, senza badare al pericolo, al quale si esponeva, accolse con entusiasmo l'invito rivoltogli e si preparò al viaggio, che gli dava occasione di rivedere la sua terra nativa. Nell'andata visitò tutti i nuclei di riformati disseminati sul suo cammino, spiegando il Vangelo, insegnando le nuove dottrine ed esortando tutti a perseverare nella nuova fede, nonostante le insidie e le persecuzioni.

Non è sicuro il luogo, in cui avvenne la disputa: il Varaglia nelle sue lettere lascia supporre che essa avvenisse a Busca stessa, mentre altre fonti del tempo pretendono che essa si tenesse a Dronero o nel palazzo stesso dei Signori di Montemale e Monterosso, che aderivano, sia pure con qualche cautela esteriore, alla fede riformata.

Alla disputa accorse gran gente, segno del vivo interessamento che il problema religioso e le nuove dottrine suscitavano in quelle popolazioni. Vi assistettero anche parecchi nobili, tra cui Bernardino Guarino, patrocinatore della disputa, e vari membri della famiglia dei Saluzzi. Ignoriamo particolarmente quale fu lo svolgimento e l'epilogo della controversia, i cui temi verisimilmente furono quelli della giustificazione la fede e della validità delle indulgenze. Ma è certo che il certame oratorio e teologico fra le due fedi ebbe un'eco grandissima nel Marchesato, tanto da intimorire il clero e da mettere in movimento gli agenti della S. Inquisizione.

Se ne ritornava il Varaglia verso la valle del Pellice, evangelizzando e predicando come nell'andata, quando a Barge fu improvvisamente fermato dal nipote dell'Arcidiacono di Saluzzo, luogotenente dell'Arciprete e del Priore di Staffarda. In casa di costui, alla presenza di due monaci e di un frate francescano, il ministro subì un primo sommario interrogatorio, nel quale gli fu rinfacciata aspramente l'apostasia dalla fede cattolica romana e gli furono gettate in faccia le più sozze accuse, affermando che la causa principale, se non unica, della sua conversione al calvinismo era il desiderio di procurarsi un mezzo più comodo per soddisfare alle sue disordinate concupiscenze carnali. A queste maligne accuse- solite ad essere lanciate contro tutti gli apostati - il Varaglia rispose dignitosamente, denunciando a sua volta tutti i mali e gli scandali, che affliggevano la Chiesa e mostrando come fosse molto più facile soddisfare alle basse passioni rimanendo nelle file del clero cattolico che passando in quelle dei riformati, dove la professione della fede comportava la purezza dei costumi e il sacrificio dei beni e della vita stessa.

Dalla casa dell'Arciprete, il ministro fu trasferito, per maggior sicurezza, in quella di Messer Giuseppe De' Roggeri, dove rimase 24 giorni, controbattendo tutte le accuse, che gli erano rivolte e spiegando l' Evangelo. Di là venne condotto a Pinerolo, dove sulle vie e sulle piazze trovò una folla fanatizzata di donne e di fanciulli, che, augurandogli il rogo, gli gridarono in faccia: « ammazza! ammazza! fascine! fascine!». Dopo nuovi interrogatori, fu finalmente condotto a Torino, senza che egli mai tralasciasse d'istruire nella sua fede i soldati di scorta ed il popolo delle località per cui transitava. Nelle carceri del Parlamento francese gli furono messi i ferri ai piedi e le manette ai polsi come ad un volgare delinquente. Pochi giorni dopo il suo arrivo venne a visitarlo nella prigione, con la speranza d'indurlo all'abiura, il Presidente stesso del Parlamento, il sig. Di San Giuliano, che il Varaglia aveva conosciuto a Parigi, alla Corte del re, come primo Collaterale. Per bontà sua furono tolti al prigioniero i ferri e le manette, ma per 14 giorni il ministro fu quotidianamente interrogato ed assillato da 3 o 4 Collaterali del Parlamento. La vigilia di Natale (1557) si iniziò il regolare processo, che durò sei giorni. Mentre era minutamente interrogato sulla sua fede, il Varaglia non si stancò mai di spiegare le verità dell'Evangelo e di denunciare i gravi mali, che affliggevano la Chiesa ed il papato. La qualità di ex frate esigeva che, secondo la prassi del Parlamento, il Varaglia, prima di essere condannato, fosse rimesso per un altro interrogatorio all'Arcivescovo di Torino. Era costui Cesare Usdimare Cybo, che il frate aveva conosciuto familiarmente a Forlì ed a Roma, «nel qual tempo egli non era alieno dall'Evangelio», e che mostrò o simulò di mostrare anche allora per l'infelice ministro una speciale compassione.

Ricominciarono gli interrogatori alla presenza dell'Arcivescovo, dell' Inquisitore e di parecchi frati, i quali insistevano perché il Varaglia ripudiasse le sue erronee dottrine, ora ricorrendo alle lusinghe, ora prospettandogli la terribile sorte che lo attendeva. Ma il ministro sostenne imperterrito l'assalto dei suoi Inquisitori, senza mostrare nessuna titubanza, disputando sulle opere e sulla fede, sul culto delle immagini e dei San- ti, sulla confessione auricolare, sulle indulgenze, sulla Messa, sulla predestinazione e sull'autorità del Papa e della Chiesa, e dimostrando, con i passi del Vangelo e con le dottrine dei primi apostoli, le gravi deviazioni, che a poco a poco si erano introdotte nella Chiesa di Cristo.

Il 4 febbraio il Varaglia fu giudicato reo di morte come scismatico ostinato, condannato alla degradazione e rimesso al Parlamento francese per l'esecuzione della sentenza. Invano il Presidente Di San Giuliano, il Porporato ed altri auto- revoli Collaterali fecero sul ministro un ultimo tentativo per indurlo all'abiura e salvargli la vita. Vista la sua ostinazione, il 7 marzo 1558 il frate fu condotto, per essere degradato, nello stesso duomo, dove trent'anni prima era stato ordinato a dir Messa: di là fu ricondotto al Parlamento, dove gli furono lette le risultanze del processo e gli furono rivolte le ultime esortazioni all'abiura. Poi le porte delle tetre prigioni si ri chiusero su di lui, in attesa del giorno fatale.

Il 29 marzo 62 altri dicono il 25 o il 30 - il frate apostata, irresistibilmente fermo nella testimonianza della sua fede, veniva condotto con solenne apparato in Piazza Castello e fatto salire sul rogo. A detta dei testimoni oculari subi il martirio con animo forte e sereno, proclamando pubblicamente la sua fede e perdonando i suoi carnefici.

Taceva per sempre la voce importuna del frate; ma il fatto che un ecclesiastico così famoso avesse osato sostenere con la morte le dottrine condannate dalla Chiesa, fu per molti un incitamento assai più efficace della più eloquente predicazione, che il frate avesse pronunciata da vivo [63]. Lo riconobbero gli scrittori cattolici stessi, i quali, narrando le vicende della Riforma, sia nel Saluzzese, sia nel Piemonte, sogliono concordemente porre il Varaglia fra gli antesignani ed i predicatori più fecondi e più perniciosi delle dottrine riformate nella prima metà del secolo.

L'anno 1559 segna col trattato di Castel Cambresis fine delle guerre di predominio fra Francia ed Impero, e la restituzione sul trono sabaudo del suo legittimo sovrano E. Filiberto.

Per quest'anno, così memorando, abbiamo un prezioso documento, il quale ci permette di gettare uno sguardo, per così dire panoramico, sopra lo sviluppo e le condizioni della Riforma Protestante in tutte le terre piemontesi, compreso il Marchesato di Saluzzo.

Il documento, edito sotto il titolo di «Lettera di Busca » [64], è la relazione assai particolareggiata, che un medico di Busca, Girolamo Raffaele Alosiano, scrisse il 13 aprile 1559 - appena dieci giorni dopo la conclusione della pace, ch'egli ancora ignoava (3 apr. 1559) - ai Principi Protestanti di Germania, radunati in dieta ad Augusta, per ringraziarli del loro generoso intervento presso il re di Francia a favore dei Valdesi e dei riformati violentemente perseguitati dal Parlamento di Torino [65]. Nella lettera il medico Alosiano li informava dei progressi, che la Riforma compieva in Piemonte, e dei motivi di gioia e di apprensione, che accompagnavano la difficile opera di apostolato nelle terre subalpine.

Nel Marchesato di Saluzzo dice l'Alosiano ormai “vi sono due chiese regolarmente costituite ove senza timore dei nemici di Cristo, rigettate ed abolite tutte le tradizioni profane e le bestemmie dei papisti [66], si predica puramente il Sacro Evangelo del Salvator Nostro, si fanno pubbliche preghiere e si amministrano i Sacramenti, giusta l'istituzione di Cristo e degli apostoli”.

Le due chiese, alle quali allude il medico Alosíano, erano quelle di Praviglielmo e di Bioletto-Bietonetto, situate nell'alta valle del Po, detta di Paesana, dove il secolare nucleo valdese, scampato alla persecuzione di Margherita di Foix, aveva aderito, come già abbiamo veduto, alle dottrine riformate nella Sinodo di Cianforan (1532) e stretto i fedeli in un regolare organismo ecclesiastico sullo stampo delle chiese calviniste di Francia.

Nelle altre terre del Marchesato [67] non vi erano chiese vere e proprie, con ministri stabili, che attendessero alla regolare predicazione e celebrazione dei riti sacri, ma non c'era quasi borgo o città, dove non si trovasse «una chiesa di Cristo occulta o palese, le quali, se non possono avere dei ministri, almeno pregano, e quelli d'infra loro che sono letterati e più saggi leggono le Sacre Scritture nelle dimore private».

Cosi avveniva a Carignano, Racconigi, Pancalieri, Busca, Cuneo, Caraglio tutte terre attigue od incuneate nel territorio del Marchesato di Saluzzo ed entro i confini stessi del Marchesato, a Dronero, Acceglio, Valgrana e Verzuolo.

Potenti stimolatrici alla diffusione della Riforma nel Marchesato erano soprattutto le due cittadine di Caraglio e di Busca. A Caraglio tutti o quasi tutti gli abitanti avevano ormai accolto favorevolmente le nuove dottrine e reclamavano a gran voce da Ginevra l'invio di un ministro riformato: a Busca parteggiavano per la Riforma quasi tutti i maggiorenti del paese, tra cui i Consoli stessi ed il pretore o vicario, che amministrava la giustizia ed era comandante del presidio e governatore della terra.

In altri borghi o città i riformati, perché meno numerosi o perché più violentemente osteggiati, non osavano ancora riunirsi in pubbliche adunanze per pregare e salmodiare, ma non trascuravano nessuna occasione per diffondere le nuove dottrine con l'esempio della propria vita e con l'efficacia della propria testimonianza. La situazione nel 1559 era dunque assai promettente per l'incremento della Riforma, sia nelle terre sabaude, sia in quelle marchionali. Il fortunato successo, secondo l'Alosiano, era in gran parte da attribuire alla classe nobile e specialmente all'ufficialità tedesca e francese, che militava al soldo del re di Francia e che presidiava piazze e fortezze. « La maggior dice il medico parte dei personaggi illustri e nobili dei comandanti delle città fortificate del Re, conoscono la verità e la favoriscono. Troppo lungo sarebbe nominarli tutti »>. È in vero gran danno questa reticenza dell'Alosiano, la quale ci priva dell'elenco dei più efficaci promotori del moto riformato cisalpino. Tuttavia alcuni nomi possiamo dedurre dal suo scritto: sono, infatti, specificatamente ricordati: il marchese Paolo di Thermes, luogotenente del re in Piemonte, e la moglie sua, Margherita di Cardé, fervente ugonotta, la quale, col fratello Giacomo di Saluzzo 68 e la cognata Anna di Tenda, aveva trasformato il piccolo feudo di Cardé in un saldo propugnacolo della fede riformata, proprio sui limiti del Marchesato; il signor Alberto Arbogasta, barone di Hena e di Frienzis, pre- fetto e colonnello di tutti i capitani tedeschi militanti in Pie- monte; il capitano tedesco Enrico, barone di Merspery e di Belfort 69, ed il tesoriere Teobaldo Guglielmo di Montbéliard. Tutti costoro, in più occasioni, si erano adoperati ad attutire le persecuzioni regie contro i Valdesi o a strappare qualche vittima ai rigori eccessivi del Parlamento Francese di Torino.

Il profilo, che il medico Alosiano ci traccia del tesoriere Teobaldo, può valere per tutti gli altri soprannominati. « Per cinque mesi - egli scrive nei quali soggiornò in questa città di Busca il presidio di due capitani con i loro soldati tedeschi, questo personaggio sempre intervenne nella nostra chiesa e congregazione di Busca, alle preghiere ed alle spiegazioni della Parola di Dio, al catechismo e ci ha spesso esortati a perseverare come abbiamo cominciato, avendo egli lo stesso nostro sentire intorno alla religione di Cristo, unico mediatore, pel quale solo ci è aperto l'accesso a Dio Padre, per beneficio del quale, redenti per fede, siamo riconciliati con Dio, giustificati e santificati ».

La fioritura della Riforma, che - a detta dell'Alosiano contava circa quarantamila fedeli nelle valli del Pellice e del Marchesato ed un gran numero nella pianura, era promettente e rallegrava l'animo del medico di Busca: ma non lo rendeva immune da timori e da preoccupazioni. I supplizi avvenuti recentemente del ministro Leonardo Sartoris di Chieri, del libraio Bartolomeo Hector 70 e del frate Gioffredo Varaglia, gli facevano temere prossima la riscossa della parte avversa. Perciò con accorate parole supplicava i Principi di Germania, affinché nell'imminenza della pace tra Francia ed Impero che non sapeva già conclusa essi volessero proteggere con particolare zelo i fedeli delle chiese nascenti del Piemonte ed ottenere per essi buone condizioni sia dal re di Francia, sia dal duca di Savoia, ed in pari tempo adoperarsi perché fosse finalmente radunato un Concilio, che ponesse fine al di- sordine della Cristianità e restituisse in Roma la purezza della chiesa primitiva apostolica. «Ben possiamo promettere riguardo a questa provincia che, se non fosse il pericolo di persecuzione, quasi tutti accetterebbero e professerebbero la Parola di Dio, fra i quali moltissimi sono così turbati e dubbiosi imbevuti come sono di vanità e di bestemmie papistiche, nelle quali han sempre vissuto, pur dubitando che esse siano la legge di Dio, la sacrosanta chiesa di Cristo e la vera religione che, per ignoranza e per tema di errare, incapaci di giudicare, non sanno da che parte voltarsi e non osano abbracciare la vera religione di Cristo, finché sia altrimenti provveduto e stabilito da un Concilio Generale di Cristiani».

C'era dunque in Piemonte e nel Marchesato, accanto ai riformati militanti ed agli avversari dichiarati, una categoria assai numerosa di persone, le quali, non sapendo scegliere da se stesse tra l'antico ed il nuovo, rimanevano irresolute e perplesse sentivano la necessità della riforma della Chiesa, del risanamento della fede e della gerarchia ecclesiastica: accettavano molte dottrine e pratiche riformate come più aderenti allo spirito del Vangelo, ma non osavano romperla con il magistero e con la tradizione della Chiesa né con le pratiche esteriori del culto cattolico; e, nella irresolutezza e contraddizione delle loro coscienze non prendevano partito né per l'una né per l'altra fede, rinviando la soluzione del loro angoscioso problema ad un Concilio Generale della Cristianità, che indicasse ad essi la via sicura da seguire.

Il Concilio fu una pia illusione! Più che dai Concili la decisione e la scelta tra l'una e l'altra fede fu imposta dalle persecuzioni del potere civile e dalle violenze del S. Offizio, che fecero gli uni perseguitati, proscritti e martiri, ma ricacciarono i pa- vidi e gl'indecisi nella massa inerte dei praticanti della Chiesa ufficiale, soffocando in essi ogni velleità di riforma e di libera fede personale.

Note

[I] Cfr. Estratto dalle Memorie di Monsignor Della Chiesa, Vescovo di Saluzzo, della Cronologia degli Inquisitori del Marchesato, anno 1521, in A. S. T., Mater. Eccles., categ. 9, Inquisizione, m. I, n.º 8.

[2] Op. cit., p. 107.

[3] Infatti il Menocchio, subito dopo aver accennato alla peste dell'anno 1522, dice testualmente: «Era giunto in questo frattempo un'eco della riforma religiosa predicata da Calvino e Zuinglio a Ginevra e Lucerna». Ma ognuno sa che in quell'anno Calvino né aveva formulata la sua dottrina né tanto meno l'aveva predicata a Ginevra: sicché è da credere che vi sia stato da parte del Menocchio un incauto accostamento di fatti o di «pesti ». L'episodio da lui narrato è probabilmente da porsi assai più tardi, forse al tempo del governo di Ludovico Birago, citato nella stessa pagina o al 1543, come afferma il PEGOLO, Stor. di Carmagnola, Carmagnola, 1925, p. 89.

[4] JALLA, op. cit., p. 23.

[5] Mss. nella BIBL. REALE DI TORINO, Miscell. di Stor. Patr., CXCVI, Pp. 285-86; 376-78; 391-93. L'autore afferma che questi soldati non solo erano essi stessi eretici in gran parte, ma giungevano «accompagnés de Prédicants, qui préschèrent publiquement dans le Piémont et le Marquisat, couvrant l'erreur avec le manteau de la vérité et ne parlant que de Réforme.... L'amour de la nouvauté se glissa du soldat étran- ger au sujet naturel: elle parut agréable à quelques uns du pays, utile à plusieurs autres, de sorte que bien qu'elle fust née dans les caves et dans les tenèbres, élevée dans les ruelles et dans les cercles, débitée dans les cabinets et dans le secret, elle eut pourtant alors bien de la vogue et de l'audace, parceque la licence des armes qui l'appuoit, l'em- porta sur l'autorité des loix qui la punissoit.... Comme les maladies populaires se répandent bientôt et ne se guérissent qu'avec bien du temps, ce ne fut pas sans peine que les ecclésiastiques fermèrent à loisir dans le calme les plaies que leurs ennemis avoient fait pandant l'orage ». Cfr. anche JALLA, op. cit., I, 24; RUFFINI, op. cit., in loc. cit., p. 396.

[6] La calata, cui allude la Histoire Véritable sarebbe da porsi, secondo il MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 43, non già all'anno 1526, ma al 1524.

[7] Vedi la lettera indirizzata al duca di Savoia da Bernardino, Arci- vescovo di Atene, in data 29 aprile 1525, in JALLA, op. cit., I, 24. Esiste mss. nella BIBLIOT. REALE DI TORINO, Lettere di Negozi del sec. XVI, vol. n. 1072. MSS. Stor. Patr.

[8] A. S. T., I, Mater. Eccles., categ. 9, Inquisizione, m. I, fasc. 12. Edito in PASCAL, La riforma nei domini sabaudi delle Alpi Marittime Occidentali, in «B. S. B. S.», a. 1950, PP. 47-50.

[9] Sul Pallavicino, cfr. la lett. di Giacomo Lanceo al duca di Savoia Carlo III (2 dic. 1528), in G. CLARETTA, Spigolature sul regno di Carlo III, Torino, 1878, pp. 20-22 (estr. da «Arch. Stor. Ital. », t. XXIII, pp. 253-71, 441-468); B. FONTANA, Documenti Vaticani contro l'eresia luterana, in «Arch. d. Soc. Rom. d. Stor. Patr. », XV (1892), pp. 104-109, 138-39, doc. XXII (16 dic. 1528), XXIV (12 dic. 1529), XLIII (8 nov. 1533); JALLA, op. cit., I, 27-29; TACCHI-VENTURI, Storia della Compagnia di Gesù, Milano, 1910, I, 245, 330-31; RODOCANACHI, Histoire de la Réforme, cit., I, 217-222; F. C. CHURCH, I Riformatori Italiani (trad. ital. di D. CANTIMORI, Firenze, 1935), p. 201.

[10] «Vehemente oratore » lo proclama il Lanceo, il quale lamenta che egli con grande concorso di auditori.... veramente si affaticava di seminarvi la zizzania » e che «se non fosse che alcuni gentiluomini a quell'ora minacciarono di lapidarlo, per le quali minacce lui è fuggito e andato a predicare a Casale, io credo che avria fatto un mal frutto in quel popolo ». CLARETTA, loc. cit.

[11] F. GABOTTO, Roghi e Vendette, pp. 26-31; BOFFITO, op. cit., Eretici in Piemonte, p. 9; M. ESPOSITO, Un auto de fé à Chieri en 1412, in << Revue d'Hist. Ecclés, », a. XLII (1947), pp. 422-32.

[12] Le «conclusioni» messe per iscritto dal frate hanno per titolo: Conclusiones Veri Christiani Johannis Baptistae Pallavicini. Le analizzeremo al cap. IV.

[13] Le ragioni del suo arresto sono: l'anno precedente in Brescia, nel predicare al popolo, «quamplurima erronea ac falsa ac scandalosa publice recitasse, nunc vero in oppido Cherii ducatus Sabaudiae certas conclusiones erroneas et falsas temere publicare presumpsisse in gravis- simam divinae majestatis offensam et sanctae Romanae Ecclesiae cunctorum Christifidelium matris et magistrae ac catholicae et ortodoxae fidei scandalum et apostolicae sedis auctoritatis enervationem, nec non animarum salutis perniciem et irreparabile detrimentum». FONTANA, loc. cit., p. 104.

[14] A. S. T., I, Mater Eccles., categ. I, Negoziati con Roma (1510- 1534), n.º 28 (23 dic. 1528).

[15] Così risulterebbe dalla lettera, che il S. Offizio di Roma mandò al Vescovo di Aosta, nunzio torinese, in data 12 dic. 1529. L' Inquisizione gli ordinava di chiamare a sé il diletto figlio G. B. Pallavicino professore », per avere da lui più esatte informazioni intorno ad alcuni eretici e sospetti, che il frate aveva dato in nota: informazioni che non risultavano abbastanza precise per poter procedere contro di essi per delitto di eresia. Le risposte, scritte per mano di notaio, dovevano essere inviate a Roma con grande sollecitudine ed in grande segretezza. FONTANA, loc. cit., p. 109.

[16] FONTANA, loc. cit., p. 138-39; TACCHI-VENTURI, op. cit., I, pp. 245, 330-32. Il Pallavicino nel 1540 avrebbe predicato a Roma, in San Giacomo degli Spagnoli, a richiesta di Margherita d'Austria.

[17] FONTANA, loc. cit., pp. 105-109.

[18] Così chiamavasi il diritto di applicare alla Mensa Vescovile ed Arcivescovile le rendite dei benefici non concistoriali vacanti ed i beni mobili degli ecclesiastici diocesani, che venissero a morte senza aver lasciato disposizioni testamentarie. Cfr. SEMERIA, op. cit., p. 277.

[19] TALLONE, op. cit., in loc. cit., pp. 308-314: Double des interrogations faictes par Monseigneur Guy de Breslay et Perrinet Parpaille (in BIBLIOT. REALE DI TORINO, Miscell. Stor. Patr., no CLX); SAVIO, op. cit., I, 183.

[20] La bibliografia dell'argomento è assai ricca. Citeremo solo le opere principali: SCIP. LENTOLO, Historia delle grandi e crudeli persecutioni fatte ai tempi nostri ecc. (a. 1562), edita da T. GAY, Torre Pel- lice, 1906, pp. 22-23; J. CRESPIN, Hist. des Martyrs persécutez et mis à mort pour la vérité de l'Evangile depuis le temps des apostres iusques à présent (a. 1619), Tolosa, 1885-89, I, 317; P. GILLES, op. cit., cap. V; LÉGER, Hist. Génér. des Églises Evangéliques des Vallées de Piémont ou Vaudoises, Leyde, 1669, I, 95-96; EM. COMBA. Il sinodo di Chanforan e le sue conclusioni, in «Rivista Cristiana », Firenze, 1870, pp. 265-69: IDEM, L' introduction de la Réforme dans les Vallées Vaudoises du Pié- mont, in « Bull. de la Soc. du Protest. Franc. », a. XLIII (1894), pp. 7-35: JALLA, Farel et les Vaudois du Pièmont, nel vol. G. FAREL, biographie nouvelle écrite.... par un groupe d' historiens, professeurs et pasteurs de Suisse», Neuchâtel, 1930, pp. 285-97; gli studi di ERN. COMBA, I Valdesi prima del Sinodo di Cianforan, pp. 7-34; di JALLA, Le Synode de Chanforan, pp. 34-48, e La Bible de Olivétan, pp. 76-92; di ART. MUSTON, I Valdesi dopo il Sinodo di Cianforan, pp. 49-75, contenuti nel « Bollet- tino Commemorativo del Sinodo di Cianforan », edito dalla Soc. di Studi Valdesi, Boll. n.° 58, a. 1932; R. BALMA, La Ville de Strasbourg et les Vaudois, in «Boll. Soc. Studi Vald. », n.º 67, a. 1937, pp. 63-95; G. GONNET, La Protesta Valdese. Da Lione a Chanforan (Disp. lit. della Facoltà Valdese di Teologia di Roma, a. acc. 1951-52), pp. 337-432; IDEM, Le premier Synode de Chanforan de 1532 avec une note sur les itinéraires vaudois entre l' Italie et la Suisse, in « Bull. Soc. Hist. Protest. Fr. », a. 1935, pp. 201-221; IDEM, I rapporti tra i Valdesi franco-ita- liani e i Riformatori d'oltralpe prima di Calvino, nel vol. Ginevra e l'Italia, Firenze, 1959, pp. 3-63, (Bibl. Stor, Sansoni, Na Se, t. XXXIV). Per studi più particolari, cfr. ARMAND-HUGON e G. GONNET, Bibliografia Valdese in «Boll. Soc. Studi Vald. », n.° 93, a. 1953, pp. 131-134.

[21] Che Lutero fosse in contatto con i dissidenti piemontesi e conoscesse la situazione religiosa del Piemonte, è provato dalla lettera che il 7 sett. 1523 indirizzò al duca di Savoia Carlo III, in LUTHERS, Briefe, pubbl. dal DE VETTE, Berlino, 1826, II, 400, n.° DXXVIII. Una traduz. ital. è in JALLA, Stor. della Riforma, cit., I, 15-19.

[22] II GILLES, op. cit., I, 47-48, afferma che i deputati valdesi si sa- rebbero recati anche da Zuinglio a Zurigo. Lo mette in dubbio il GONNET, La protesta Valdese, in loc. cit., p. 352.

[23] I carteggio Morel-Ecolampadio-Bucero, fonte essenziale per questo periodo, è minutamente esaminato dal GONNET, op. cit, loc. cit. Ne tratteremo anche noi più ampiamente al cap. IV, trattando delle dottrine valdesi e riformate nel Marchesato.

[24] L'opinione emessa dallo HERMINJEARD, Correspondances des vé- ormateurs dans les pays de langue française, (1512-44) Lausanne, 1866-97 (II, pp. 448-455), che alla Sinodo di Cianforan fosse presente anche Pietro Roberto Olivetano, non è sicura. Cfr. GONNET, op. cit., loc. cit., pp. 426-27.

[25] Le esamineremo al cap. IV.

[26] FONTANA, op. cit., in loc. cit., p. 134 (8 nov. 1532) e JALLA, op. cit., I, 35.

[27] Lo riconosce esplicitamente sia pure con le solite insinuazioni endenziose, che non hanno bisogno di confutazione l'autore della cit. Histoire Véritable des Vaudois: « Les villes de Piémont ploioient peu à peu les unes après les autres soubz le joug de l'erreur par les intrigues des ministres, qui débitoient leurs dogmes en public dans les chaires et leurs maximes en particulier dans les compagnies. Les habitants prenoient goût à cette nouvauté attraiante et quelque raison qu'on leur apporta pour les en détourner, ils ne laissoient pas de mépriser ouver- tement l'ancienne créance et de se mocquer des cérémonies de l'Église.... On ne voioit que pasteurs et que vendeurs de livres hérétiques venus de Genève et d'Allemagne, on n'entendoit que Prédicans, qui les distri- buoient en particulier après les avoir fait valoir en public: tout ce qu'il y avoit de vicieux et de corrompu dans les moeurs couroit à la nouvauté, qui flatoit le vice et qui fomentait la corruption: les villes et les villages mesmes ne pouvoient se garentir de cette peste soit que la jeunesse y donna d'abord et que les curieux s'en accomodassent, soit que les officiers des troupes l'introduisissent et que la licence de la guerre, qui se fait une gloire et une occupation de détruire les loix, l'autorisa.... », Ivi, pp. 377, 391.

[28] Ne trattano più o meno diffusamente tutti gli storici valdesi: GILLES, LÉGER, MUSTON, COMBA, JALLA ecc. Più specialmente cfr.: LENTOLO, op. cit., cap. I; E. ARNAUD, Hist. des prémières persécutions des Vaudois luthériens du Comtat Venaissin et de la Provence, in « Bull. Soc. Hist. Vaud.» (oggi «Studi Valdesi »), n.° 8 (1890), pp. 43-58, e n.º 9 (1891), pp. 3-14; IDEM, Hist. des Protest. du Dauphiné au XVIe, XVIIe et XVIIIe siècles, Paris, 1875-76; JALLA, Storia della Riforma in Piemonte, I, 37 e segg.

[29] GILLES, op. cit., I, 64; JALLA, op. cit., I, 39.

[30] Cfr. RUFFINI, op. cit., p. 396; C. PATRUCCO, La lotta con i Valdesi, nel vol. cit., Em. Filiberto, Torino, 1928, p. 432.

[31] M. FERRERIO, Rationarium chronographicu m Cappuccinorum, Torino, 1659, II, 168; MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 43-44.

[32] Op. cit., II, 168.

[33] Del Varaglia parleremo più diffusamente alla fine del capitolo. Sul Pascale, cfr. A. LOMBARD, Jean Louis Paschale et les martyrs de Calabre, Ginevra, 1881; A. MUSTON, Giov. Luigi Pascale. Saggio storico, Roma, 1892. Molte lettere del martire sono conservate in LENTOLO, op. cit., lib. VI, pp. 227-317.

[34] CALVI, Monum. Istor. de la Comp. Osserv. di Lombardia dell' Ord. di S. Agostino, Milano, 1679, p. 331; DELLA TORRE, Elogio di Girol. Negri Agostiniano, in « Piemontesi Illustri », Torino, 1783, III, 113-165; G. MASSA, Diario dei Santi e Beati e Venerabili Servi di Dio ecc., Torino, 1815, II, 318 e segg.; TURLETTI, op. cit., II, 19; III, 275-286; GROSso- MELLANO, op. cit., I, 47-48. Un profilo critico del Negri si può leggere nel recente vol. di R. DE SIMONE, Tre anni decisivi di storia valdese, Roma, 1958, Cap. I, pp. 39-47. (Analecta Gregoriana, t. XCVII).

[35] Fu appunto il Negri, che con le sue polemiche incoraggiò il giovane umanista Celio Curione a leggere i libri dei Riformatori, mentre frequentava l' Università di Torino. V. JALLA, op. cit., I, 13, 23, 53. Delle sue opere ricordiamo: Aaron, sive de Institutione Pontificis Christiani, «nella quale additava gli abusi introdottisi nel clero e ne suggeriva i rimedi » (rimasta manoscritta) e il De admirando mysterio, et Christo adorando in Eucharestia, libri quatuor contra hereses, che, pubblicato nel 1554, gli procurò l'accusa di eresia. Non fu liberato da ogni sospetto, se non nell'anno 1562.

[36] ARCH. COMUN. DI CARMAGNOLA, Ordinati, vol. VI (19 apr. 1541). Si chiedono al Consiglio provvedimenti contro i bestemmiatori in se- guito ad un editto del marchese di Saluzzo: «Si placet quod elegantur duo, qui habeant elligere et deputare sex homines idoneos et bonae vocis et famae pro singulo burgo, qui habeant blasphematores deum et sanctos accusare juxta reppresentationes et ordinationes Ill. mi D. D. Marchionis sub pena capitali connibenda et incurrenda pro eorum blas- phemia ». La pena, eccezionalmente grave rispetto a quelle precedentemente comminate per lo stesso delitto, induce a credere che non si trattasse di volgari bestemmie, ma piuttosto di bestemmie ereticali.

[37] Secondo il TURLETTI, op. cit., I, 770 furono governatori in Savigliano nel 1541 il D'Ambres, luogotenente del re; dal 14 giugno 1542 il Thermes con il Sig.r di Monluc; dal 12 ott. 1548 il visconte di Gourdon, che si fece rappresentare da altri. Il 3 agosto 1559 Bartolomeo Ranzo venne a prendere possesso della città a nome del duca E. Filiberto.

[38] TURLETTI, op. cit., I, 307-308 ed ARCH. DELL'ASSUNTA, in Savi- gliano, cart. Erezione, n.° 7-8. Sono quivi registrate alcune richieste dell'Arciconfraternita di Santa Maria del Sepolcro e della Crociata di S. Pietro per poter radunarsi e celebrare gli Uffici nella propria cappella o nel duomo (8 febbr. 1550; 20 sett. 1550; 23 dic 1552). Accluse sono le autorizzazioni del governatore. Cfr. anche MASSA, op. cit., II, 319.

[39] Oltre le storie generali sui Valdesi (GILLES, LÉGER, MUSTON, COMBA, JALLA, ecc.) cfr. più spec. LENTOLO, op. cit., lib. I; CRESPIN, op. cit. (ed. 1887-89), I, 381-419; 529-534; E. ARNAUD, Hist. des pre- mières persécutions des Vaudois luthériens du Comtat Venaissin et de la Provence, in loc. cit., e Hist. des Protest. du Dauphiné, cit., I, cap. I-II; e Hist. de Provence et Conté Venaissin et la Principauté d' Orange, Pa- rigi, 1881, I, 55-101; R. BALMA, op. cit., in loc. cit., pp. 79-83.

[40] MANUEL DI SAN GIOVANNI, Una pagina inedita della storia di Cuneo al secolo XVI ecc., Torino, 1879, pp. 6-9; GABOTTO, Storia di Cuneo, cit., p. 150; G. BARELLI, L'assedio di Cuneo del 1557, nel vol. « VII Centenario della fondaz. di Cuneo », Cuneo, 1898, pp. 261-78; PASCAL, Storia della Riforma Protestante a Cuneo, Pinerolo, 1913, pp. 10 e segg.; JALLA, op. cit., I, 69-71.

[41] Si con oscono di lui due lettere a Calvino, datate una da Busca VIII Idus Dec. 1548, l'altra da Chieri - 7 sett. 1549. Cfr. BAUM- CUNITZ-REUSS, Opera Calvini, t. XIII, pp. 112-115, 378-80, doc. 1103 e 1287; JALLA, op. cit., I, 63-64.

[42] Risulta iscritto alla Facoltà di Teologia di Strasburgo all'anno 1546 sotto il nome alterato di «Bruschetti ». Cfr. D. PONS, L' Eglise Vaudoise et les Réformés d'Alsace, in «Écho des Vallées», Torre Pellice, a. 1930, n.o 37 R. BALMA, La Ville de Strasbourg, in loc. cit., p. 88.

[43] FICK, Le livre du Recteur, cit. (5 nov. 1559); JALLA, op. cit., I, 381; S. STELLING-MICHAUD, Le livre du Recteur, Geneve, Droz, 1959, I, 84.

[44] Cfr. PASCAL, Gli Antitrinitari Piemontesi: Giov. Paolo Alciati, Pinerolo, 1920 (estr. dal « B. S. B. S. », a. 1920, XXII, 1-3). Della sua vita e delle sue dottrine parleremo più particolarmente nel cap. IV, dove tratteremo delle varie correnti religiose rappresentate nel moto riformistico saluzzese.

[45] BAUM, CUNITZ e REUSS, Opera Calvini, XV, 265; PASCAL, Gli antitr. piemont., pp. 14-15 (estr.).

[46] PATRUCCO, La lotta coi Valdesi, nel vol. «E. Filiberto ». To- rino, 1928, p. 432; RUFFINI, op. cit., in loc. cit., p. 396; TESAURO (Historia della Compagnia di S. Paolo, Torino, 1657, I, pp. 540, 554; II, p. 123) afferma che parecchi ministri riformati accompagnavano le truppe del maresciallo Brissac, quando assediava Vercelli, e che altri predicavano tra le milizie di Torino.

[47] ARCH. COMUN. CARMAGNOLA, Ordinati, vol. 9° (25 ott. 1558 e 5 apr. 1559). Alcuni consiglieri lamentano i frequenti disordini che i lanzichenecchi, alloggiati nel borgo di Moneta, compiono a danno dei cittadini. Si nominano dei deputati, perché si rechino dai comandanti a riferire «l'eccesso seguito nella chiesa di S. Agostino il giorno di Pasqua, dove certi soldati francesi batterono persone di Carmagnola ». 48 Citiamo, come esempio, il conte Guglielmo di Fürstenberg e Gualtiero Farel, i quali difesero i Valdesi dalle violenze del governatore francese, Renato di Montejean, negli anni 1536-1539; i marescialli D'Annebault e Guglielmo Du Bellay, che intervennero efficacemente per far cessare le persecuzioni scatenate dagli editti regi contro Valdesi e riformati del Piemonte negli anni 1540-1543, e Carlo di Cossè, conte di Brissac, che protesse i riformati di Torino contro le violenze dei loro nemici e diede prova di una grande tolleranza. Cfr. BOURRILLY, Guill. Du Bellay, seigneur de Langey (1491-1543), Parigi, 1904; PASCAL, I Vald. ed il Parlam. Franc., pass.; e JALLA, Stor. della Riforma, I, 48-50, 53-54, 86, 93.

[49] Sull'attività repressiva del Parlamento di Torino, cfr. L. ROMIER, Les Vaudois et le Parlement français de Turin, in « Mélanges d'archéol. et d'hist. de l'École française de Rome », XXX, a. 1910; IDEM, Les Institutions françaises en Piémont sous Henry II, in « Revue d'hist. », a. 360, t. CVI, a. 1911; PASCAL, I Valdesi ed il Parlamento francese di Torino, Pinerolo, 1912; JALLA, Il Parlamento francese e la Riforma in Piemonte, in «Rivista Cristiana », Firenze, 1912, pp. 437 e seg.; IDEM, Storia della Riforma in Piemonte, I, cap. V-VI, pass.

[50] Cfr. CHIATTONE, Primi Vescovi di Saluzzo, in loc. cit., pp. 287-90; SAVIO, op. cit., cap. XVI, pp. 206 e seg. L'Archinto fu tre volte am- basciatore dei Milanesi a Carlo V: fu Consigliere Imperiale, delegato a decidere la spinosa questione della successione al Marchesato di Mon- ferrato. A 41 anno abbracciò la carriera ecclesiastica: fu Vicario, Pro- tonotario, Referendario e Prefetto Apostolico: nel 1538 accompagnò il Papa al convegno di Nizza e nel 1554 fu Nunzio a Venezia. Nel 1556 lasciò la diocesi di Saluzzo per quella di Milano e mori a Bergamo nel 1558. Governò la diocesi saluzzese quasi sempre da Roma, lascian- done la cura al Vicario Silvestro Tapparelli di Lagnasco. Prese parte a varie sedute del Concilio di Trento (1547, 1551, 1552).

[51] CHIATTONE, Primi Vescovi di Saluzzo, in loc. cit., pp. 287-90; SAVIO, op. cit., I, 218-222. Fiere dispute ebbe a sostenere specialmente contro le Monache del convento di S. Antonio di Dronero e contro la Collegiata di Carmagnola.

[52] S'intitola: Christianum de fide et sacramentis edictum. Fu stam- pato nel 1545 a Roma e a Cracovia, nel 1546 a Ingolstadt, a Torino nel 1549. Cfr. SAVIO, op. cit., I, 223; TACCHI-VENTURI, op. cit., I, 328, 411, 519, 629.

[53] A. S. T. I, Mater. Ecclesiast., cat. 9a, m. I, n.º 8, già cit.

[54] Sono registri di battesimo, matrimonio e decessi, memorie fami- liari, atti testamentari, contratti di matrimonio e dotali, conservati in parte negli ARCHIVI NAZIONALI, in parte nella BILIOTECA PUBBLICA ED UNIVERSITARIA DI GINEVRA. Contengono liste di esuli e notizie sulla chiesa italiana di Ginevra le opere seguenti: GABEREL, Histoire de Genève, Ginevra, 1858, I, 207 e seg.; G. FICK, Le Livre du Recteur, già cit., pass.; J. B. GALIFFE, Le Refuge Italien de Genève aux XVIe et XVIIe siècles, Ginevra, 1881; A. COVELLE, Le Livres des bourgeois de l'ancienne Genève, Ginevra, 1897; O. GROSHEINTZ, L'Église Italienne à Genève au temps de Calvin, Losanna, 1904; JALLA, op. cit., I,372-382; P. F. GEISENDORF, Livre des habitants de Genève, Genève, Droz, 1957, I (1549-1560), in « Travaux d' Humanisme et Renaissance », t. XXVI; A. PASCAL, La colonia piemontese a Ginevra nel sec. XVI, nel vol cit. « Ginevra e l'Italia » pubblicato per il IV centenario della fondazione dell'Università di Ginevra, edito dalla Facoltà Valdese di Teologia di Roma, Firenze Sansoni, 1959, pp. 63 e segg.

[55] LENTOLO, op. cit., p. 227; C. A. GARUFI, Contributo alla storia dell' Inquisizione e della Riforma in Sicilia nei secoli XVI e XVII, in «Arch. Stor. Sicil. », vol. N. S. XXXVIII, pp. 264 e segg., XL, 304-389. II JALLA, op. cit., I, 23, 69, 101, 375, identifica questo Jacobo o Gia- como Bonello con il Camillo, amico di Curione, citato all'anno 1523. Un Giacomo Bonello, secondo il CALVI, op. cit., p. 332, avrebbe abiu- rato solennemente la fede riformata in Fossano ad opera di Girolamo Negri. Se trattasi della stessa persona, è evidente che l'abiura, tanto strombazzata, non fu che fittizia e riscattata più tardi dal martirio. Vedi anche DE SIMONE, op. cit., pp. 39-40.

[56] Sul Biandrata, cfr. M. MALACARNE, Commentario delle opere e della vita di G. Biandrata saluzzese, archiatro in Transilvania e Polonia, Padova, 1814; D. CANTIMORI, Profilo di G. Biandrata saluzzese, in «B. S. B. S. », XXXVIII, 1936, n.º 3-4, pp. 352-402; G. PIOLI, Fausto Socino Vita, opere, fortuna, Modena, 1952, pass. Di lui tratteremo più diffusamente nel cap. seg. Il GEINSENDORF, Livre des habitants de Genève, in loc. cit., p. 142, lo cita sotto la strana grafia di « Giorgio Blandereta».

[57] Di lui, come del Truchi, che segue, avremo occasione di parlare a più riprese nel corso del nostro studio.

[58] CHIATTONE, op. cit., in loc. cit., pp. 290 e segg.; SAVIO, op. cit., I, cap. XVIII, pp. 235 e segg. Fu vescovo di Saluzzo dal 1557 al 1568. Mori il 27 luglio 1568.

[59] Cfr. le opere citate in questo stesso capitolo a proposito del Par- lamento Francese di Torino (nota 44). Inoltre: PASCAL, Le ambascerie dei Cantoni e dei Principi Protestanti di Svizzera e Germania al re di Francia a favore dei Valdesi durante il periodo della dominazione francese in Piemonte, in «B. S. B. S. », a. XVIII, fasc. V-VI, e a. XIX, fasc. I-III; BALMA, op. cit., in loc. cit., pp. 84-87.

[60] L'anno del martirio varia negli storici, dal 1557 al 1559. Cfr. GILLES, op. cit., I, 65; M. A. RORENGO, Memorie Historiche della intro- duzione dell'eresia nelle valli di Lucerna, Marchesato di Saluzzo ecc., p. 65; FERRERIO, op. cit., II, 168; JALLA, op. cit., I, 107.

[61] LENTOLO, op. cit., pp. 87-113, ove sono raccolte le lettere del martire, gli atti processuali e le testimonianze di vari fedeli; CRESPIN, op. cit., II, 519-528, III, 127; RORENGO, op. cit., p. 65 e seg.; FER- RERIO, op. cit., II, 168; MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 45-46; JALLA, op. cit., I, 94-95.

[62] Seguiamo la data segnata dal LENTOLO, che vide gli atti proces suali e fu contemporaneo del Varaglia.

[63] Puà avere relazione con la disputa del Varaglia l' invio a Dronero, sulla fine di quell'anno, di un Padre Predicatore ed Inquisitore, al quale il Comune corrispondeva nel dicembre fiorini tre et grossi sei », MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 47.

[64] La lettera è scritta in latino: fa tradotta in francese, col testo latino a fronte, da A. VINAY, in «Bull. Soc. Hist. Vaud. », n.° 7, 1890, PP-43-60; in italiano dal JALLA, op. cit., 1, 97-104.

[65] LENTOLO, op. cit., lib. 2, pp. 77 e segg: Histoire des persécu tions et guerres faites depuis l'an 1555 iusques en l'an 151, in Cresvis, op. cit. (ediz, Tolosa, 1885-89), II, 487-89; III, 115-159; PASCAL, Amba scerie dei Cantoni e Principi Protestanti ecc., cit.; BALMA, op. cit., PP. 84-87.

[66] L'Alosiano segue il frasario violento usato in quel secolo dai polemisti delle due fedi. Per lui la verità cristiana é naturalmente la riformata; bestemmie ed idolatrie sono molte dottrine e pratiche della chiesa cattolica: «babilonia »la corte papale e anticristo » il papa.

[67] L'ALLAIS (op. cit., pp. 269-70) dice che nel 1559 gli ugonotti irruppero nella valle della Varaita, avendo come predicatore un certo Guglielmo Brunetto Allemandi, che poi andò ministro nel Queyras.

[68] Giacomo di Saluzzo-Cardé, figlio di Giov. Francesco Maria di Cardé e di Filiberta Bianca di Miolans, sposò il 28 maggio 1556 Anna, figlia di Claudio di Tenda (figlio di Renato detto il Gran Bastardo) e della seconda moglie, Francesca, figlia di Giovanni di Foix-Candale, nobile famiglia provenzale, che da tempo aderiva alla fede valdese. Giacomo militò nelle guerre civili di Francia e mori nel 1568, com- battendo tra le file ugonotte al comando del duca dei Due Ponti. Lasciò vari figlioli: Paolo e Claudia, che morirono in tenera età; Susanna, che rimase nubile, ed Enrico, che fu investito di Cardé, Caramagna e Miolans nel 1571 dal duca E. Filiberto, sposò Benedetta Spinola, mar- chesa di Garessio, vedova di Giov. Battista di Savoia-Racconigi, e mori nel 1616 infermo di mente. Dopo la morte del marito, Anna di Tenda si ritirò definitivamente con la famiglia a Losanna, dove già aveva cercato rifugio temporaneo dopo la morte del fratello Renato di Cipières. Sposò in seconde nozze Antonio di Clermont, signore di Revel e Amboise, il quale perì nel massacro della S. Bartolomeo; e in terze nozze il cugino di costui, Giorgio di Clermont, signore di Gallerande. La sorella di Giacomo, Margherita, sposò in prime nozze (1544) il ma- resciallo Paolo de La Barthe, signore di Thermes, già ricordato, e in seconde nozze il maresciallo Ruggero di Saint-Lary, signore di Bellegarde. Di lei avremo occasione di parlare a varie riprese, a causa della tenacia della sua fede riformata. Cfr. LITTA, Famiglie Nobili d' Italia, vol. 13, tav. XVII; HAAG, France Protestante, vol. IX, p. 120.

[69] II VINAY, loc. cit., traducendo il passo «D. Baronis D. Mespergli et Belfortis centurionis Germani pro rege Gallorum »fa dei nominati tre personaggi distinti; il JALLA, loc. cit., uno solo.

[70] Su questi martiri della fede riformata, cfr. CRESPIN, op. cit., II, 437-443. 487-89, III, 117; GILLES, op. cit., I, 85-86, 108-109; BURNIER, Hist. du Sénat de Savoie, Parigi, 1864-65, I, 168; JALLA, op. cit., I, 79.