Storia/Storia dei Valdesi/Il glorioso rimpatrio: differenze tra le versioni
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E nell'autunno 1690 Io vediamo in Svizzera intento ad organizzare insieme col conte Solare di Covone — quegli stesso che un anno prima era stato dal Duca incaricato di farlo assassinare! — il rimpatrio di tutti gli esuli. Ritornarono in massima parte prima della fine dell'anno. Non è possibile precisare quanti furono i rimpatriati ; sappiamo però che nove anni dopo le Valli contavano sei mila abitanti, ben pochi ancora in confronto dei tredici mila che vi dimoravano al principio del 1686. Il fatto della reintegrazione dei Valdesi nelle loro Valli, riconosciuto nel 1690, fu poi legalizzato con un editto prowisorio nel 1692 e con un editto definitivo il 23 maggio 1694, che provocò le ire di papa Innocenzo XII. Il Santo Padre nella sua protesta giunse sino a denunziare l'editto in parola al Sant'Uffizio dell'Inquisizione e ad intimare al clero di tenerlo per nullo. Punto sul vivo e vincolato dai patti, il Duca di Savoia si risentì ed alla sua volta incaricò il Senato di Torino di annullare il decreto pontificale, vietandone la pubblicazione nei suoi Stati. | E nell'autunno 1690 Io vediamo in Svizzera intento ad organizzare insieme col conte Solare di Covone — quegli stesso che un anno prima era stato dal Duca incaricato di farlo assassinare! — il rimpatrio di tutti gli esuli. Ritornarono in massima parte prima della fine dell'anno. Non è possibile precisare quanti furono i rimpatriati ; sappiamo però che nove anni dopo le Valli contavano sei mila abitanti, ben pochi ancora in confronto dei tredici mila che vi dimoravano al principio del 1686. Il fatto della reintegrazione dei Valdesi nelle loro Valli, riconosciuto nel 1690, fu poi legalizzato con un editto prowisorio nel 1692 e con un editto definitivo il 23 maggio 1694, che provocò le ire di papa Innocenzo XII. Il Santo Padre nella sua protesta giunse sino a denunziare l'editto in parola al Sant'Uffizio dell'Inquisizione e ad intimare al clero di tenerlo per nullo. Punto sul vivo e vincolato dai patti, il Duca di Savoia si risentì ed alla sua volta incaricò il Senato di Torino di annullare il decreto pontificale, vietandone la pubblicazione nei suoi Stati. | ||
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15.Il glorioso rimpatrio
Ben lungi dal dimenticare la patria, gli esuli sentivano crescere ogni giorno il desiderio e la speranza di ritornarvi. Si dolevano di non aver seguito i consigli di Enrico Arnaud e di non aver lottato per la libertà sino alla morte.
Fra coloro che maggiormente si adoperavano a tener accesa nell'anima degli esiliati la volontà del rimpatrio era, oltre all'Arnaud, il vecchio capitano Giosuè Gianavello. Questi, non potendo pensare, a motivo dell'età avanzata, a dirigere in persona l'audace impresa, stava scrìvendo delle "Istruzioni", che dovevano effettivamente riuscire di grande utilità. Due tentativi di ritorno a mano armata — il primo nel 1687, indipendentemente dai due condottieri, ed il secondo, meglio organizzato, alla fine di giugno del 1688 — erano stati sventati dalle autorità svizzere ed avevano provocato la espulsione temporanea di Gianavello da Ginevra, e di Arnaud con i capitani Pellenc e Robert da Neuchàtel.
Quanto a Vittorio Amedeo, avuto sentore di questi complotti, pensò che il miglior modo di finirla fosse di far assassinare Arnaud, la cui testa del resto era già stata messa a prezzo, ed incaricava il suo agente in Svizzera, il conte Solaro di Covone, di assoldare dei sicarii a tal fine. E ancora nell'agosto 1689 il Duca gli scriveva : «Vediamo com'è riuscito al ministro Arnaud di andare a Zurigo senza dar nella rete che gli avevate tesa, e che sperate sia per cadervi di ritomo a Coira, il che sarebbe un buon colpo» [Dom. Ferrerò, Il rimpatrio dei Valdesi, 1889, p.41].
Ma il «buon colpo» stava facendolo Enrico Arnaud. Perchè il terzo tentativo di rimpatrio non fallisse, bisognava preparare minuziosamente la spedizione ed attendere senza impazienza che giungesse il momento favorevole.
Questo seppe fare Anaud, in collaborazione con Gianavello e con Gabriele di Covenant, commissario di Gugliemo d'Orange. I fondi necessari erano stati raccolti, l'itinerario ed i minimi particolari dell'impresa accuratamente studiati e discussi; e quando finalmente il valoroso principe d'Orange, cinta la corona d'Inghilterra, si fu messo alla testa della lega europea contro Luigi XIV, Enrico Arnaud ed i suoi intrepidi compagni compresero che l'ora fatidica, era suonata!
Così venne decisa quella meravigliosa spedizione, quel Glorioso Rimpatrio che formò l'oggetto della più viva ammirazione di Napoleone Bonaparte e che in verità va annoverata fra le imprese più tipiche più straordinarie che la storia universale ricordi. Ne possediamo una narrazione redatta dal condottiero stesso, Enrico Arnaud, in base alle relazioni di tre suoi compagni: il capitano P. Robert, il luogotenente Francesco Huc e lo studente in teologia Paolo Reinaudin.
L'appuntamento era stato segretamente fissato per la notte dal 15 al 16 agosto 1689, sulla'spiaggia deserta di Promentoux, al limitare del bosco dii Prangins e non lungi dalla cittadina di Nyon, situata sulla riva nord del lago Lemano [Occorre precisare che questa data (15-16 agosto, secondo il calendario giuliano ancora in uso in quell'epoca presso i protestanti, mentre secondo il calendario gregoriano, già adottato dai cattolici, la data sarebbe 25-26 agosto. La differenza fra i due calendari era infatti, nel 1689, di dieci giorni. L'introduzione del nuovo Calendario avvenne, com'è noto, per bolla di papa Gregorio nel 1582, la quale stabilì che al 4 di ottobre seguisse non il 5, ma il 15 ottobre. Gli svizzeri cattolici adottarono la riforma del calendario nel 1583; i protestanti invece l'adottarono solo nel 1700, ordinando che al 18 di febbraio seguissenon il 19, ma il 1° marzo. Nel 1689 il 15 agosto, vecchio stile (cioè 25 nuovo stile), era un giovedì].
Con le ombre della sera ecco affluire silenziosamente i reduci. Se ne attendevano oltre un migliaio, ma non tutti risposero all'appello: alcuni furono arrestati ed imprigionati mentre attraversavano i cantoni cattolici, altri non giunsero in tempo, come lo stesso capitano Bourgeois di Neuchàtel, che avrebbe dovuto as sumere il comando militare. Intanto, sono passate le nove, e cresce rapidamente la folla dei curiosi accorsi in barca chi per salutare e chi per spiare i nostri guerrieri ; se si aspetta ancora, si corre il pericolo di destare l'attenzione delle autorità svizzere —la quali in verità sembrano meno rigoroso e vigili del solito — e di compromettere ogni cosa. Allora dal bosco si avanza un uomo dalla capigliatura lunga, dal volto magro e vivamente colorato, dagli occhi grandi ed azzurri ; è Enrico Arnaud. Giunto in sulla riva, ad un suo cenno tutti piegano le ginocchia ; egli eleva ad alta voce a Dio una fervida preghiera, poi dà il segnale della partenza. I guerrieri si rialzano ed incomincia la traversata all'altra sponda mediante una quindicina di battelli, in parte preordinati ed in parte requisiti all'ultimo momento ai curiosi sopravvenuti. Sbarcati senza incidenti sulla spiaggia savoiarda, rimandano subito indietro diversi battelli per trasportare in un secondo viaggio circa duecento compagni rimasti a Prangins, ma là paura consiglia ai barcaioli di ritirarsi, nonostante l'impegno ed i denari presi, e cosi il corpo di spedizione sempre più si assottiglia. La piccola legione, composta in massima parte di Valdesi ma comprendente anche un certo numero di rifugiati francesi, ha dunque approdato fra Yvoire e Nernier. Sono circa novecento : non temono il confronto con i mille eroi dalla camicia rossa che salperanno dallo scoglio di Quarto. Non pochi vestono l'uniforme. I più l'hanno di panno grigio o biancastro; portano la corazza, la grande spada di combattimento, pistole e pesanti archibugi con baionetta, più le munizioni e viveri per dieci giorni. Il carico di ciascuno supera quindi i cinquanta chilogrammi [Secondo i calcoli del colonnello Gallet, citato dalcolonnello F. Cocito, Le Guerre Valdesi, 1891, p. 73-74. 12]. I soldati hanno ornato il caratteristico elmetto acuminato con frondi di quercia o con nastri di color arancio, in onore del protettore principe d'Orange; gli ufficiali, in elegante uniforme gallonata d'oro e d'argento, portano il cappello piumato, alla moschettiera. La mattina del 16, Arnaud li divise in venticompagnie, comandate da venti capitani, deiquali quattordici valdesi e sei francesi. V'eranotre pastori : E. Arnaud, G. Moutoux, C. Chion; quest'ultimo però fu catturato dai francesi, quel giorno stesso.
E partirono. In sei giorni di marcie forzate attraversarono la Savoia e giunsero al Moncenisio senza incontrare seria resistenza da parte delle popolazioni, fra cui, seguendo i consigli di Gianavello, avevano cura di scegliere via via in ogni villaggio, quali ostaggi, le persone più ragguardevoli, che avevano naturalmente vivissimo interesse a facilitare la rapida marcia della legione. Ma furono giorni faticosissimi per i nostri reduci costretti a camminare, carichi com'erano, per sentieri impossibili ed anche senza sentieri, sulle creste dei monti per evitare gli agguati, con pioggia quasi continua, attraverso nevi e ghiacciai. «Per alcuni dì — scrive il Capitano Robert — camminavamo notte e giorno, serbando per il riposo appena tre ore su ventiquattro. In special modo la traversata del Moncenisio, che trovarono coperto di neve, restò memorabile per le inaudite peripezie e sofferenze che l'accompargnarono.
La sera di venerdì 23 agosto i nostri prodi, affranti com'erano, dovettero affrontare le milizie francesi al ponte di Salbertrand. E' un episodio di tale eroismo che va narrato, sia pure succintamente. La piccola località di Salbertrand si trova sulle rive della Dora Riparia. Ivi è accampato un presidio, forte di 2500 soldati, il cui comandante, marchese di Larrey, era stato informato dell'arrivo della piccola colonna di reduci: egli ha avuto tempo di prepararsi a riceverla, facendo venire altre truppe da Pinerolo con abbondanza dii funi destinate a legare i prigionieri... Un contadino, a cui i Valdesi stanchi ed affamati hanno chiesto se più in basso avrebbero potuto procurarsi dei viveri, risponde: «Andate pure, che vi daranno quanto vorrete, e vi si prepara una buona cena!». Strane parole, ferocemente ironiche! Già insospettiti dal fatto che alcune compagnie di soldati d'Exilles li 126 hanno lasciati passare senza difficoltà, essi fiutano un pericolo imminente e serrano le file. Saranno presi fra due fuochi? Intanto continuano a scendere tra la nebbia, e già è notte fatta quando, a una mezza lega da Salbertrand, contano trentasei fuochi di bivacco al di là del ponte sulla Dora Riparia. Un quarto d'ora dopo, l'avanguardia cade in un'imboscata che le uccide due uomini. Che fare? Non v'ha più dubbio, si tratta di combattere. In quel momento supremo i Valdesì,rendendosi conto che si deve vincere o morire,si raccolgono in preghiera. Poi tengono consiglio: bisogna attaccare subito (è quasi mezzanotte) prima che sorga la luna e che giungano al nemico altri rinforzi. Si avanzano quindi verso il ponte in legno, dietro il quale i soldati del marchese di Larrey si sono trincerati in una vasta prateria; al «Chi va là?» delle sentinelle francesi segue immediatamente un terribile fuoco di fila, ma i nostri eroi, gettatisi a terra per ordine di Arnaud che aveva previsto il colpo, lasciano che le palle fischino nell'oscurità sulle loroteste. Essi poi, profittando del bagliore delle fucilate nemiche, possono mirare con cura e fare alla loro volta tre scariche micidiali.
Frattantogiungono alle spalle le tre compagnie di Exilles che li avevano seguiti da lungi: Arnaud con rapida mossa si volga indietro e, accompagnato da due o tre valorosi, riesce a fermarle, mentre l'avanguardia dei suoi si lancia con impeto formidabile sul ponte, gridando : «Il ponte le nostro!». S'impegna un combattimento accanito, a corpo a corpo, nelle tenebre; per tre volte è rinnovato l'assalto, giacche i difensori del ponte resistono con furore e si lasciano tagliare a pezzi piuttosto che cedere. Finalmente i battaglioni francesi, che s'aspettavano di trovare gente esausta e non già così travolgente gagliardia, vacillano, retrocedono ei prendono la fuga al grido di: «Si salvi chi può!». La parola d'ordine dei Valdesi: «Angrogna», mal compresa e pronunziata «Gregna» (1) da coloro che cercano di passare inosservati tra le file degli assalitori, costa la vita a più di duecento nemici. La disfatta è intera e assoluta. Il marchese de Larrey, ferito ad un braccio, esclama fuggendo: «E' mai possibile ch'io perda combattimento e onore?».
La battaglia ha durato due ore; la luna infine sorge e rischiara il campo abbandonato dal nemico ma coperto di morti. Si calcola che questi siano circa seicento. Le perdite dei Valdesi sommano ad una ventina, fra morti e feriti.
Però durante tutta quella lunga e terribile giornata di marcia essi avevano perso oltre a un centinaio di uomini, caduti estenuati e addormentati lungo il cammino, e poi catturati dal nemico. Ne era prudente trattenersi sul campo della vittoria; perciò, preso quanto poterono in fatto di munizioni abbandonate e distrutto il resto, con uno sforzo prodigioso di volontà lottando contro la stanchezza e il sonno, si rimisero in marcia quella stessa notte ed all'alba del 24 agosto i vincitori di Salbertrand dall'alto del colle di Coteplane salutarono la Valle del Chisone e riconobbero, fra le lagrime di gioia, le loro montagne, al di là del Pragelato. Quali ardenti azioni di grazie salirono dai cuori commossi all'Iddio dei padri, che li aveva ricondotti a contemplare il paese natio!
Poche ore dopo scesero nella Valle di Pragelato, traversarono il Chisone e poterono dormire, finalmente!
Piovigginava sempre.
L'indomani, la falange, che s'era ridotta a circa seicento uomini (1), salì il colle del Pis tra la nebbia, trovandolo custodito da ottocento soldati del Duca di Savoia, i quali però dopo breve lotta si ritirarono; e il lunedì 26 agosto, dopo dieci giornate di cammino, piene di fatiche e di pericoli, i reduci ebbero la gioia di riposare nel più alto villaggio di Val San Martino: quello della Balziglia. Il giorno seguente arrivarono a Prali, e vi ritrovarono il loro tempio non distrutto, ma ingombro d'immagini. Ripulitolo, i seicento forti guerrieri vi vollero celebrare il culto: il loro colonnello e pastore Enrico Amaud, ritto su di una tavola collocata all'ingresso, fece cantare due salmi indicatissimi per la solenne circostanza (il 74 e il 129) e predicò su queste parole: "Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno che ha fatto il cielo e la terra» (1). Fu il primo sermone del Rimpatrio. Due giorni dopo, sempre con la spada in pugno, la eroica colonna valdese valicava il colle Giuliano, dove disperse alcune compagnie del reggimento piemontese delle guardie, e giungeva a Bobbio Pellice.
A dieci minuti sopra il paesello di Bobbio v'è un bel castagneto chiamato Sibaud. Quivi il 1° di settembre, giorno di domenica, i reduci si radunarono attorno ai due soli pastori della legione, Arnaud e Moutoux, e fu pronunziato un giuramento di fedeltà e di unione, rimasto celebre negli annali dei Valdesi. Salito sopra una piattaforma improvvisata alla meglio — un uscio posto su due roccie — il pastore Moutoux spiegò queste parole di Gesù Cristo: «La legge ed i profeti hanno durato fino a Giovanni; da quel tempo è annunziata la buona novella del Regno di Dio ed ognuno v'entra a forza» (Luca 16:16).
Dopo la predica, che Arnaud chiama «bellissima», questi si fece avanti e lesse ad alta voce la formula del giuramento, di cui riportiamo il principio e la fine:
«Iddio, per la sua divina grazia avendoci felicemente ricondotti nel paese dei nostri padri, «per ristabilirvi il puro culto della nostra santa religione, continuando e compiendo la grande impresa che questo gran Dio degli eserciti diresse fin qui così divinamente a favor nostro: noi pastori, capitani ed altri ufliciali, giuriamo e promettiamo al cospetto di Dio, pena la dannazione delle anime nostre, di serbare fra noi l'unione e l'ordine, di non disunirci finché Iddio ci conserverà in vita, e quand'anche per sventura ci vedessimo ridotti a tre o quattro... E noi, soldati, promettiamo e giuriamo oggi dinanzi a Dio di ubbidire agli ordini di tutti i nostri ufficiali, e giuriamo ad essi con tutto il cuore d'esser loro fedeli fino all'ultima goccia del nostro sangue... E affinchè l'unione, che è la vita nostra, resti fra noi incrollabile, gli ufficiali giureranno fedeltà ai soldati e questi agli ufficiali, promettendo oltre a ciò, tutti insieme, al Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo di strappare, per quanto sarà possibile, il rimanente dei fratelli nostri alla crudele Babilonia, per ristabilire con essi e mantenere il suo regno fino alla morte, osservando durante tutta la nostra vita e di buona fede il presente regolamento».
Tutti giurarono alzando la mano. Quel giuramento di unione era quanto mai opportuno. Se la discordia, riuscita fatale tre anni prima, fosse rientrata nelle file valdesi, l'ultima rovina sarebbe stata inevitabile.
La lotta, durante i mesi di settembre e di ottobre, fu continua contro alle truppe ducali comandate dal marchese di Parella. Il 3 settembre la piccola falange, respinta ad un assalto del Villar (durante il quale venne fatto prigioniero il pastore Moutoux, fu spezzata in due: i più rientrarono a Bobbio e gli altri, con Arnaud, ripararono in Val d'Angrogna e in Val S. Martino. Questi due distaccamenti per un paio di mesi operarono ciascuno per conto proprio, quantunque Arnaud, rimasto solo pastore delle Valli dopo la caduta di Moutoux, passasse di frequente dall'uno all'altro, predicando ed amministrando la Comunione. La situazione intanto si faceva grave, perchiè le truppe francesi ritornavano numerose, ed il Parella, affidate loro le operazioni in Val S. Martino, si accingeva a sferrare degli assalti decisivi con tutti i suoi soldati in Val Lusema. Allora fu giocoforza abbandonare gli accampamenti fortificati della Grande Guglia [Il nemico vi trovò, il 26 ottobre, la relazione-diario scritta dal giovane Reinaudin sino alla data 17 ottobre; un uflìcìale si affrettò a mandarla a Torino e di mano in mano codesto manoscritto passò a Ginevra e potè essere letto ancora dal vecchio Gianavello con profonda emozione, pochi giorni prima della sua morte, che avvenne il 5 marzo 1690]; ma dove ritirarsi?
Alla Balziglia! Al di sopra del villaggio della Balziglia, all'estremità settentrioniale della Valle S. Martino, si erge il contrafforte dei cosiddetti Quattro Denti: sono quattro enormi rupi scaglionate. Sulle piattaforme di questi formidabili bastioni naturali, sovrapposte le une alle altre, i reduci lavorarono febbrilmente a costruire trincee, camminamenti coperti, fossi, parapetti e ottanta baracche. Era una magnifica fortezza naturale, in cui Arnaud ed i suoi trecentosettanta compagni si accinsero dunque a passare l'inverno. Fin dai primi giorni dopo il loro arrivo, i francesi avevano tentato invano di prenderla d'assalto; onde al cader della prima neve s'erano ritirati, gridando minacciosamente: «Ci rivedremo a Pasqua!". I cinque mesi invernali trascorsero lentarmente, in mezzo ad ogni sorta di privazioni. Al vettovagliamento i Valdesi provvedevano come potevano, mediante piccole scorrerie nei dintorni; ebbero anche la gioia di poter mietere dei campi di grano che, abbandonati, dai savoiardi fuggiti, erano rimasti intatti sotto il manto della neve; così il pane non mancò durante tutto il tempo dell'assedio. E non mancò neppure l'armonia, che Arnaud sì adoprava a mantenere mediante culti frequenti, sollecito sempre nel prodigare esortazioni, consigli, incoraggiamenti a quella sua famiglia di eroi, ormai interamente segregata dal mondo, nascosta in un nido d'aquila fra le nevi alpine. Alfine, con i primi sorrisi della bella stagione, nostri assediati videro scendere dal retrostante colle del Pis e salire dalla valle di Massello numerose truppe francesi; le dirigeva il famoso generale Catinat, il quale s'era promesso di ridurre prontamente i «Barbetti» in suo potere.
Fu questo il momento più tragico della gloriosa epopea. Il 2 di maggio, cinquecento uomini scelti salirono all'assalto. Erano dei valorosi, rotti al mestiere delle armi e decisi a snidare quel pugno di montanari; ma, presi sotto un terribile fuoco di fucileria e contrattaccati gagliardamente dagli assediati, dovettero battere in ritirata lasciando oltre duecento morti sulle pendici del monte ed anche alcuni prigionieri. E fra i prigionieri ci fu il loro stesso colonnello Parat, il quale la mattina guidandoli all'attacco aveva esclamato: «Figlioli! Stasera bisogna dormire lassù, in quelle baracche!». Egli vi dormì, infatti, ma in condizioni diverse da quelle da lui sperate.
Di lì a pochi giorni il generale Catinat, dovendosi recare in Lombardia per altre operazioni militari, affidò al marchese De Feuquières la continuazione dell'impresa. Questi dispose tosto i suoi quattromila soldati in modo da circondare da ogni lato, in un cerchio di ferro e di fuoco, i Quattro Denti; poi riusci a far trascinare da centinaia di contadini due cannoni da Perosa, issandoli a forza di braccia e piazzandoli in ottima posizione. Ma prima d'iniziare la grande offensiva intimò un'ultima volta ai Valdesi di arrendersi senza condizioni. Per quanto la situazione fosse criticissima e umanamente disperata, quei trecento eroi rifiutarono di far sventolare sulla Balziglia la bandiera bianca, ed il loro condottiero e pastore diede a nome loro questa fiera risposta: «Non siamo 134 sudditi del Re di Francia, e il vostro monarca non è signore di questo paese; perciò non ci facciamo lecito di trattare con voi. Qui siamo nel paese che i nostri avi ci han lasciato da ogni tempo in eredità., ed in esso, se ci assiste l'Iddio degli eserciti, confidiamo di vivere e morire anche se resteremo ridotti a dieci soltanto. Il vostro cannone, tirerà, voi dite. E tiri. Noi staremo a sentirlo e queste roccie non ne saranno smosse".
Allora, la mattina del 14 maggio il fuoco incominciò intenso e violentissimo. I due cannoni rovesciarono una tal tempesta di ferro contro le trincee valdesi, che prima di mezzogiorno i parapetti e gli altri lavori di difesa erano smantellati. Cessata l'azione dell'artiglieria, i francesi da tre lati si scagliarono all'assalto della parte inferiore delle fortificazioni, detta il Castello, mentre altri riuscivano a penetrare anche nelle trincee superiori. I difensori, lottando come leoni, si videro costretti a ritirarsi salendo di muro in muro e di roccia in roccia, fino alla grande rupe centrale, detta il Pan di Zucchero, a motivo della sua forma caratteristica. Quivi, protetti da una densa nebbia che improvvisamente era scesa ad avvolgerli, sostarono per deliberare sul da farsi. Non avevano perso più di una mezza dozzina d'uomini, ma ormai si vedevano accerchiati in modo tale che ogni possibilità di evasione era da escludersi, e quell'estremo loro riparo sarebbe stato indubbiamente espugnato all'alba dell'indomani; nessuna speranza, dunque, di sottrarsi all'estremo supplizio che il nemico, irritato da così ostinata resistenza, aveva loro promesso.
Frattanto era calata la notte ed i soldati francesi avevano acceso qua e là fuochi, formando come una corona luminosa attorno alla rocca dove i combattenti valdesi s'erano rifugiati. Allora iuno di questi, il capitano Filippo Tron-Pouiat, uno dei duecento invincibili del 1686, ch'era natio della Balzigiia e conosceva quei luoghi palmo a palmo, dopo di avere attentamente osservato i fuochi dei bivacchi nemici, si volse ai suoi compagni e disse che forse ci sarebbe modo di passare, col favore delle tenebre, fra due corpi di guardia, strisciando su di una roccia fortemente inclinata, al di sopra di un orribile precipizio. Era una via pericolosissima, ma non ne vedeva altra e, con l'aiuto di Dio, poteva essere la via della salvezza. Decisero di seguire Tron-Poulat. Ad uno ad uno i trecentosessanta in fila indiana, silenziosi come ombre, uscirono dalla rocca, lasciandovi accese molte faci per trarre in inganno il nemico. Era tanta l'oscurità di quella notte, an cora accresciuta da una nebbia provvidenziale, che, per maggior sicurezza e per evitare il minimo rumore, camminavano scalzi, seguendo la loro intrepida guida.
Giunti al passo pericoloso, dove conveniva strisciare in ginocchio o seduti sulla roccia inclinata aggrappandosi con le mani alle sue asperità, uno di essi, sentendosi scivolare verso l'abisso, lasciò cadere una pentola, la quale si dié a rotolare, rimbalzando fragorosamente giù nella valle silenziosa. «Chi va là?»,gridò una sentinella dal vicinissimo posto di guardia. I disgraziati rimasero impietriti, trattenendo il fiato. E neppure la pentola — osserva scherzosamente Arnaud — rispose all'intimazione francese, perchè non era di quelle che, secondo le favole dei poeti, davano responsi nella foresta di Dodona. Onde, la sentinella pensò: «Mi sarò ingannato»; e regnò di nuovo ilsilenzio. Ripresero con mille precauzioni a strisciare nella notte fra i precipizi, finché all'alba, quando le trombe francesi squillarono il segnale dell'attacco all'ultima ridotta della Balziglia, i nostri fuggiaschi erano ormaii fuori dalla portata dei due cannoni del De Feuquières e delle imprecazioni dei suoi soldati; i quali, allorquando dalle vuote trincee in cui s'erano precipitati, li scorsero arrampicarsi lassù, sulle lontane creste nevose dei monti che separano il vallone del Ghinivert da quello di Salza, non poterono far altroche tendere i pugni verso quei barbetti sfuggiti miracolosamente alla loro stretta... Cioè, tentarono bensì di raggiungerii e l'inseguirono accanitamente tutto quel giorno; ma invano! Era il 15 maggio.
Quel giorno il comiandante di Feuquières, il quale, frettoloso quanto un moderno corrispondente di giornali, aveva precorso gli eventi annunziando la sera innanzi come già avvenuta la capitolazione dei Valdesi, dovette scrivere di nuovo al ministro Louvois per spiegargli come equalmente le cose fossero andate diversamente: «Ne sono molto dispiacente. Monsignore, ma in verità non ne ho colpa. Bisogna prendersela con queste roccie, ...con questa nebbia!». La colpa fu dunque della nebbia. Vero è che i soldati, sbalorditi, non erano alieni dal credere che Arnaud fosse un mago e che avesse trasportato su nelle nubi i trecento compagni, con armi e bagaglio... eccezion fatta d'una certa pentola, ritrovata da qualche soldato francese. Quanto ai Valdesi, pensarono una volta di più con commossa gratitudine alla protezione della divina Provvidenza. Di lì a due giorni, il manipolo d'eroi scampati, il manipolo d'eroi scampati all'assedio della Balziglia ebbe a Pramollo la prima notizia che il generale Catinat aveva trasmesso un ultimatum a Vititorio Amedeo II, affinchè si decidesse entro tre giorni fra l'alleanza con la Francia o contro la Francia, e che il Duca stava per dichiarare guerra a Luigi XIV. Era la salvezza e la pace sicura, pronta, immediata! Ed infatti, l'indomani, domenica 18 maggio, la grande notizia riceveva conferma. I nostri reduci, varcata la Vaccera, erano scesi a Pra del Torno, dove due messi del Duca li raggiunsero per annunziar loro che Vittorio Amedeo II, avendo aderito alla lega formata contro Luigi XIV dall'Inghilterra, l'Olanda, l'Austria e la Germania, si trovava in guerra con la Francia e quindi offriva pace ai Valdesi.
E non se nepotè dubitare quando alle parole tennero dietro i fatti, cioè viveri e munizioni, e si videro ritornare coloro ch'erano stati fatti prigionieri, dal 1686 in poi. Il 4 giugno 1690 il Duca emanava un editto, ordinando' che i Valdesi fossero lasciati rientrare liberi nelle loro Valli e che liberamente vi fossero del pari ospitati tutti i riformati francesi che vi cercassero rifugio. Evidente era il motivo, non certo disinteressato, che in duceva Vittorio Amedeo a far pace con i suoi sudditi Valdesi: ma intanto l'allegrezza dei nostri reduci raggiunse quasi il delirio e, soliti com'essa erano a riconoscere, al disopra degli umani rivolgimenti, la volontà di Dio che regge i destini dei popoli, a Lui davano gloria.
Volonterosi più chemai, attesero a giustificare coi fatti la fiducia che il Duca poneva in essi per la difesa dei confini, e questi, da parte sua, non aspettava che una buona occasione per assicurarli della sua ritconciliazione. L'occasione si presentò ai primi di luglio, quando Arnaud andò a Moncalieri con alcuni suoi commilitoni a porgergli omaggio. Il Duca li ricevette con tutti gli onori e proferì paróle memorabili: «Avete un solo Dio ed un solo principe da servire: servite l'uno e l'altro fedelmente. Finora siamo stati nemici, ma d'ora innanzi dobbiiamo essere buoni amici. Altri furono cagione dei vostri guaì. Ma se, come è vostro dovere, esporrete la vita al mio servizio, io esporrò la mia per voi e finché avrò un pezzo di pane ne avrete la vostra parte". Belle parole, che ricordano altre pairole, non meno belle, pronunziate da Carlo Emanuele I al Villar, ma che furono troppo presto dimenticate dal Duca: non dai Valdesi.
Arnaud era giubilante e pieno d'entusiasmo per il giovane sovrano; e poi, volgendo indietro lo sguardo ed ammirando la grandiosa successione degli avvenimenti, esclamava: «Sono stato creduto un temerario e un imprudente, ma i fatti hanno ormai dimostrato che Iddio diresse le cose nostre, e il povero Arnaud se ne sta ora coi generali, festeggiato da quanti, tempo fa, l'avrebbero mangiato vivo. Questa è opera di Dio. A Lui solo ne sia la gloria!».
E nell'autunno 1690 Io vediamo in Svizzera intento ad organizzare insieme col conte Solare di Covone — quegli stesso che un anno prima era stato dal Duca incaricato di farlo assassinare! — il rimpatrio di tutti gli esuli. Ritornarono in massima parte prima della fine dell'anno. Non è possibile precisare quanti furono i rimpatriati ; sappiamo però che nove anni dopo le Valli contavano sei mila abitanti, ben pochi ancora in confronto dei tredici mila che vi dimoravano al principio del 1686. Il fatto della reintegrazione dei Valdesi nelle loro Valli, riconosciuto nel 1690, fu poi legalizzato con un editto prowisorio nel 1692 e con un editto definitivo il 23 maggio 1694, che provocò le ire di papa Innocenzo XII. Il Santo Padre nella sua protesta giunse sino a denunziare l'editto in parola al Sant'Uffizio dell'Inquisizione e ad intimare al clero di tenerlo per nullo. Punto sul vivo e vincolato dai patti, il Duca di Savoia si risentì ed alla sua volta incaricò il Senato di Torino di annullare il decreto pontificale, vietandone la pubblicazione nei suoi Stati.
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