Letteratura/Istituzione/1-01: differenze tra le versioni
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1. Quasi tutta la somma della nostra sapienza, quella che tutto considerato merita di essere reputata vera e completa sapienza, si compone di due elementi e consiste nel fatto che conoscendo Dio ciascuno di noi conosca anche se stesso. Del resto, benché questi punti siano vicendevolmente uniti da molti legami, non è sempre agevole discernere quale preceda e sia causa dell’altro. In primo luogo infatti nessuno può guardare a se stesso senza subito volgere il suo sentimento a Dio, da cui riceve vita e vigore. È indubbio infatti che i doni che costituiscono tutta la nostra dignità non provengono da noi; la nostra forza e la nostra fermezza consistono nel dimorare e fondarci in Dio. Anzi, i beni che scendono dal cielo su di noi goccia a goccia, ci conducono come ruscelli alla sorgente. Similmente questa piccola e scarsa porzione fa risaltare l’infinità di tutti i beni che risiedono in Dio; in particolare questa sventurata rovina in cui ci ha ridotto la rivolta del primo uomo ci costringe a levare in alto gli occhi, non solo per desiderarne i beni che ci mancano - poveri, vuoti e affamati come siamo - ma anche per essere svegliati al timore e imparare così in che consista l’umiltà. Si trova infatti nell’uomo un mondo di tale miseria, dacché siamo stati spogliati degli ornamenti celesti, e la nostra nudità mostra con vergogna una tal quantità di obbrobrio da lasciarci confusi; d’altra parte è necessario che la coscienza della nostra sventura ci pungoli perché almeno ci avviciniamo ad una qualche conoscenza di Dio. Infatti dal sentimento della nostra ignoranza, vanità, distretta, infermità e ancor più, perversità e corruzione, siamo condotti a riconoscere che in Dio solamente c’è vera luce di saggezza, forza stabile, ricchezza di ogni bene, purezza di giustizia. Solo turbati dalle nostre miserie ci volgiamo a considerare i beni di Dio, e non possiamo volgerci a lui seriamente se non dopo aver cominciato ad essere insoddisfatti di noi stessi. Qual è l’uomo infatti che non si compiace di se stesso finché non si conosca: e si gloria di quelli che sono doni di Dio come di paramenti nobili e sontuosi, ignorando e dimenticando la propria miseria? La conoscenza di noi stessi dunque non solo ci stimola a conoscere Dio, ma anzi deve guidarci, quasi per mano, a trovano. | 1. Quasi tutta la somma della nostra sapienza, quella che tutto considerato merita di essere reputata vera e completa sapienza, si compone di due elementi e consiste nel fatto che conoscendo Dio ciascuno di noi conosca anche se stesso. Del resto, benché questi punti siano vicendevolmente uniti da molti legami, non è sempre agevole discernere quale preceda e sia causa dell’altro. In primo luogo infatti nessuno può guardare a se stesso senza subito volgere il suo sentimento a Dio, da cui riceve vita e vigore. È indubbio infatti che i doni che costituiscono tutta la nostra dignità non provengono da noi; la nostra forza e la nostra fermezza consistono nel dimorare e fondarci in Dio. Anzi, i beni che scendono dal cielo su di noi goccia a goccia, ci conducono come ruscelli alla sorgente. Similmente questa piccola e scarsa porzione fa risaltare l’infinità di tutti i beni che risiedono in Dio; in particolare questa sventurata rovina in cui ci ha ridotto la rivolta del primo uomo ci costringe a levare in alto gli occhi, non solo per desiderarne i beni che ci mancano - poveri, vuoti e affamati come siamo - ma anche per essere svegliati al timore e imparare così in che consista l’umiltà. Si trova infatti nell’uomo un mondo di tale miseria, dacché siamo stati spogliati degli ornamenti celesti, e la nostra nudità mostra con vergogna una tal quantità di obbrobrio da lasciarci confusi; d’altra parte è necessario che la coscienza della nostra sventura ci pungoli perché almeno ci avviciniamo ad una qualche conoscenza di Dio. Infatti dal sentimento della nostra ignoranza, vanità, distretta, infermità e ancor più, perversità e corruzione, siamo condotti a riconoscere che in Dio solamente c’è vera luce di saggezza, forza stabile, ricchezza di ogni bene, purezza di giustizia. Solo turbati dalle nostre miserie ci volgiamo a considerare i beni di Dio, e non possiamo volgerci a lui seriamente se non dopo aver cominciato ad essere insoddisfatti di noi stessi. Qual è l’uomo infatti che non si compiace di se stesso finché non si conosca: e si gloria di quelli che sono doni di Dio come di paramenti nobili e sontuosi, ignorando e dimenticando la propria miseria? La conoscenza di noi stessi dunque non solo ci stimola a conoscere Dio, ma anzi deve guidarci, quasi per mano, a trovano. | ||
2. D’altra parte è noto che l’uomo non perviene mai alla conoscenza pura di se stesso fino a quando non abbia contemplato la faccia di Dio e da essa sia sceso a guardare se stesso. Infatti, a causa dell’orgoglio radicato in noi, ci sentiamo sempre giusti e completi, savi e santi, fin quando non siamo convinti da argomenti evidenti della nostra ingiustizia, impurità, follia e immondezza. Ora non ne siamo convinti se gettiamo lo sguardo solamente sulle nostre persone e non pensiamo insieme anche a Dio, il quale è la sola regola a cui bisogna confrontare e allineare questo giudizio. Essendo infatti tutti per natura inclini all’ipocrisia, una apparenza superficiale di giustizia ci soddisferà quanto e più dell’effettiva verità. E poiché intorno a noi non c’è nulla che non sia coperto e sfigurato da molte macchie, lo spirito ci è chiuso e come limitato dalle profanazioni di questo mondo; di sorta che, quanto non è completamente brutto come il resto, ci piace come se fosse purissimo. Così un occhio che sia abituato a non veder altro che nero considera quanto è bruno o di colore scuro come di eccelso candore. Si può anche discernere con i sensi corporali quanto siamo viziati nel valutare le forze e le facoltà dell’anima. Se infatti in pieno giorno guardiamo verso il basso o qua e là intorno a noi, ci sembra di avere io sguardo più acuto che si possa immaginare; ma se leviamo in alto gli occhi per contemplare il sole, quella grande luce che si spandeva in terra è subito abbagliata e completamente confusa dallo splendore che la sopravanza, al punto che siamo costretti a confessare che la vivacità dimostrata nell’affrontare cose terrestri risulta greve e lenta quando si tratti di misurarsi col sole. Lo stesso accade nel campo dei beni spirituali: fintantoché non guardiamo oltre la terra, accontentandoci della nostra giustizia, saggezza e forza, siamo soddisfatti e ci compiacciamo fino a valutarci semidei. Ma se incominciamo a levare i nostri pensieri a Dio e a riflettere su chi egli sia e quanto eccellente sia la perfezione della sua giustizia, saggezza e forza, a cui ci dobbiamo conformare, subito quanto ci soddisfaceva pienamente sotto il falso aspetto di giustizia avrà l’odore cattivo dell’iniquità; quello che ci deliziava sotto l’etichetta di saggezza apparirà non essere che follia, e quello che aveva una apparenza di forza si rivelerà debolezza. Ecco perché quanto sembra in noi perfetto non può affatto soddisfare la giustizia di Dio. | 2. D’altra parte è noto che l’uomo non perviene mai alla conoscenza pura di se stesso fino a quando non abbia contemplato la faccia di Dio e da essa sia sceso a guardare se stesso. Infatti, a causa dell’orgoglio radicato in noi, ci sentiamo sempre giusti e completi, savi e santi, fin quando non siamo convinti da argomenti evidenti della nostra ingiustizia, impurità, follia e immondezza. Ora non ne siamo convinti se gettiamo lo sguardo solamente sulle nostre persone e non pensiamo insieme anche a Dio, il quale è la sola regola a cui bisogna confrontare e allineare questo giudizio. Essendo infatti tutti per natura inclini all’ipocrisia, una apparenza superficiale di giustizia ci soddisferà quanto e più dell’effettiva verità. E poiché intorno a noi non c’è nulla che non sia coperto e sfigurato da molte macchie, lo spirito ci è chiuso e come limitato dalle profanazioni di questo mondo; di sorta che, quanto non è completamente brutto come il resto, ci piace come se fosse purissimo. Così un occhio che sia abituato a non veder altro che nero considera quanto è bruno o di colore scuro come di eccelso candore. Si può anche discernere con i sensi corporali quanto siamo viziati nel valutare le forze e le facoltà dell’anima. Se infatti in pieno giorno guardiamo verso il basso o qua e là intorno a noi, ci sembra di avere io sguardo più acuto che si possa immaginare; ma se leviamo in alto gli occhi per contemplare il sole, quella grande luce che si spandeva in terra è subito abbagliata e completamente confusa dallo splendore che la sopravanza, al punto che siamo costretti a confessare che la vivacità dimostrata nell’affrontare cose terrestri risulta greve e lenta quando si tratti di misurarsi col sole. Lo stesso accade nel campo dei beni spirituali: fintantoché non guardiamo oltre la terra, accontentandoci della nostra giustizia, saggezza e forza, siamo soddisfatti e ci compiacciamo fino a valutarci semidei. Ma se incominciamo a levare i nostri pensieri a Dio e a riflettere su chi egli sia e quanto eccellente sia la perfezione della sua giustizia, saggezza e forza, a cui ci dobbiamo conformare, subito quanto ci soddisfaceva pienamente sotto il falso aspetto di giustizia avrà l’odore cattivo dell’iniquità; quello che ci deliziava sotto l’etichetta di saggezza apparirà non essere che follia, e quello che aveva una apparenza di forza si rivelerà debolezza. Ecco perché quanto sembra in noi perfetto non può affatto soddisfare la giustizia di Dio [vedi nota 1 in Discussioni]. | ||
3. Questa è l’origine dello stupore e del turbamento che, secondo la Scrittura, inquietò e piegò i santi ogni qualvolta avvertirono la presenza di Dio. Lontani da Dio, sicuri di se stessi, andavano a testa alta; ma non appena egli manifestò loro la sua gloria furono scossi e spaventati, fino ad essere oppressi e travolti dall’orrore della morte e quasi venir meno. Ne possiamo concludere che gli uomini non sono sufficientemente toccati e turbati dal sentimento della loro povertà fino a quando non si siano paragonati alla maestà di Dio. Di questo stupore abbiamo molti esempi, sia nei Giudici, che Dio stabilì in Giudea, che nei Profeti. Talché questa espressione risultava abituale nel popolo antico: "Moriremo perché abbiamo visto il Signore " (Gd. 13:22; Is. 6:5; Ez. 1:28 e altrove). Così la storia di Giobbe per umiliare gli uomini con una esatta percezione della loro stupidità, debolezza e impurità, trae sempre il suo principale argomento da questa sorgente: mostrare cioè quali siano la saggezza, la virtù e la purezza di Dio; e non senza ragione. Vediamo che Abramo è tanto più pronto a contemplare la maestà di Dio, quanto più si confessa terra e polvere (Ge. 28:27); come Elia nasconda, il volto non osando aspettare una tale vicinanza (2 Re 19:13); tale è lo spavento che i credenti avvertono di fronte a questa alta maestà. E che dovrebbe fare l’uomo il quale non è che verme e marciume se i cherubini e gli angeli del cielo si coprono il volto per la paura e lo stupore che essi stessi provano? È quanto dice il profeta Isaia: il sole si vergognerà e la luna sarà confusa quando il Signore degli eserciti regnerà (Is. 24:23). Vale a dire che quando dispiegherà la sua luce e la farà vedere più da vicino tutto quello che v’era prima di più luminoso ne sarà al confronto oscurato come tenebre Sebbene vi sia dunque un legame reciproco tra la conoscenza di Dio e quella di noi stessi e l’una sia in relazione con l’altra, tuttavia l’ordine di un buon insegnamento richiede che in primo luogo trattiamo della conoscenza di Dio per venire poi alla seconda. | 3. Questa è l’origine dello stupore e del turbamento che, secondo la Scrittura, inquietò e piegò i santi ogni qualvolta avvertirono la presenza di Dio. Lontani da Dio, sicuri di se stessi, andavano a testa alta; ma non appena egli manifestò loro la sua gloria furono scossi e spaventati, fino ad essere oppressi e travolti dall’orrore della morte e quasi venir meno. Ne possiamo concludere che gli uomini non sono sufficientemente toccati e turbati dal sentimento della loro povertà fino a quando non si siano paragonati alla maestà di Dio. Di questo stupore abbiamo molti esempi, sia nei Giudici, che Dio stabilì in Giudea, che nei Profeti. Talché questa espressione risultava abituale nel popolo antico: "Moriremo perché abbiamo visto il Signore " (Gd. 13:22; Is. 6:5; Ez. 1:28 e altrove). Così la storia di Giobbe per umiliare gli uomini con una esatta percezione della loro stupidità, debolezza e impurità, trae sempre il suo principale argomento da questa sorgente: mostrare cioè quali siano la saggezza, la virtù e la purezza di Dio; e non senza ragione. Vediamo che Abramo è tanto più pronto a contemplare la maestà di Dio, quanto più si confessa terra e polvere (Ge. 28:27); come Elia nasconda, il volto non osando aspettare una tale vicinanza (2 Re 19:13); tale è lo spavento che i credenti avvertono di fronte a questa alta maestà. E che dovrebbe fare l’uomo il quale non è che verme e marciume se i cherubini e gli angeli del cielo si coprono il volto per la paura e lo stupore che essi stessi provano? È quanto dice il profeta Isaia: il sole si vergognerà e la luna sarà confusa quando il Signore degli eserciti regnerà (Is. 24:23). Vale a dire che quando dispiegherà la sua luce e la farà vedere più da vicino tutto quello che v’era prima di più luminoso ne sarà al confronto oscurato come tenebre Sebbene vi sia dunque un legame reciproco tra la conoscenza di Dio e quella di noi stessi e l’una sia in relazione con l’altra, tuttavia l’ordine di un buon insegnamento richiede che in primo luogo trattiamo della conoscenza di Dio per venire poi alla seconda. | ||
=== Note === | |||
[[File:Riferimenti trascendenti - Calvino.mp3|sinistra|miniatura|Nota 1 - Commento]] | |||
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Versione attuale delle 22:50, 22 set 2024
Istituzioni della religione cristiana (Calvino) |
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CAPITOLO I - LA CONOSCENZA DI DIO E QUELLA DI NOI STESSI SONO CONGIUNTE.
MODALITÀ DI QUESTA CONNESSIONE
1. Quasi tutta la somma della nostra sapienza, quella che tutto considerato merita di essere reputata vera e completa sapienza, si compone di due elementi e consiste nel fatto che conoscendo Dio ciascuno di noi conosca anche se stesso. Del resto, benché questi punti siano vicendevolmente uniti da molti legami, non è sempre agevole discernere quale preceda e sia causa dell’altro. In primo luogo infatti nessuno può guardare a se stesso senza subito volgere il suo sentimento a Dio, da cui riceve vita e vigore. È indubbio infatti che i doni che costituiscono tutta la nostra dignità non provengono da noi; la nostra forza e la nostra fermezza consistono nel dimorare e fondarci in Dio. Anzi, i beni che scendono dal cielo su di noi goccia a goccia, ci conducono come ruscelli alla sorgente. Similmente questa piccola e scarsa porzione fa risaltare l’infinità di tutti i beni che risiedono in Dio; in particolare questa sventurata rovina in cui ci ha ridotto la rivolta del primo uomo ci costringe a levare in alto gli occhi, non solo per desiderarne i beni che ci mancano - poveri, vuoti e affamati come siamo - ma anche per essere svegliati al timore e imparare così in che consista l’umiltà. Si trova infatti nell’uomo un mondo di tale miseria, dacché siamo stati spogliati degli ornamenti celesti, e la nostra nudità mostra con vergogna una tal quantità di obbrobrio da lasciarci confusi; d’altra parte è necessario che la coscienza della nostra sventura ci pungoli perché almeno ci avviciniamo ad una qualche conoscenza di Dio. Infatti dal sentimento della nostra ignoranza, vanità, distretta, infermità e ancor più, perversità e corruzione, siamo condotti a riconoscere che in Dio solamente c’è vera luce di saggezza, forza stabile, ricchezza di ogni bene, purezza di giustizia. Solo turbati dalle nostre miserie ci volgiamo a considerare i beni di Dio, e non possiamo volgerci a lui seriamente se non dopo aver cominciato ad essere insoddisfatti di noi stessi. Qual è l’uomo infatti che non si compiace di se stesso finché non si conosca: e si gloria di quelli che sono doni di Dio come di paramenti nobili e sontuosi, ignorando e dimenticando la propria miseria? La conoscenza di noi stessi dunque non solo ci stimola a conoscere Dio, ma anzi deve guidarci, quasi per mano, a trovano.
2. D’altra parte è noto che l’uomo non perviene mai alla conoscenza pura di se stesso fino a quando non abbia contemplato la faccia di Dio e da essa sia sceso a guardare se stesso. Infatti, a causa dell’orgoglio radicato in noi, ci sentiamo sempre giusti e completi, savi e santi, fin quando non siamo convinti da argomenti evidenti della nostra ingiustizia, impurità, follia e immondezza. Ora non ne siamo convinti se gettiamo lo sguardo solamente sulle nostre persone e non pensiamo insieme anche a Dio, il quale è la sola regola a cui bisogna confrontare e allineare questo giudizio. Essendo infatti tutti per natura inclini all’ipocrisia, una apparenza superficiale di giustizia ci soddisferà quanto e più dell’effettiva verità. E poiché intorno a noi non c’è nulla che non sia coperto e sfigurato da molte macchie, lo spirito ci è chiuso e come limitato dalle profanazioni di questo mondo; di sorta che, quanto non è completamente brutto come il resto, ci piace come se fosse purissimo. Così un occhio che sia abituato a non veder altro che nero considera quanto è bruno o di colore scuro come di eccelso candore. Si può anche discernere con i sensi corporali quanto siamo viziati nel valutare le forze e le facoltà dell’anima. Se infatti in pieno giorno guardiamo verso il basso o qua e là intorno a noi, ci sembra di avere io sguardo più acuto che si possa immaginare; ma se leviamo in alto gli occhi per contemplare il sole, quella grande luce che si spandeva in terra è subito abbagliata e completamente confusa dallo splendore che la sopravanza, al punto che siamo costretti a confessare che la vivacità dimostrata nell’affrontare cose terrestri risulta greve e lenta quando si tratti di misurarsi col sole. Lo stesso accade nel campo dei beni spirituali: fintantoché non guardiamo oltre la terra, accontentandoci della nostra giustizia, saggezza e forza, siamo soddisfatti e ci compiacciamo fino a valutarci semidei. Ma se incominciamo a levare i nostri pensieri a Dio e a riflettere su chi egli sia e quanto eccellente sia la perfezione della sua giustizia, saggezza e forza, a cui ci dobbiamo conformare, subito quanto ci soddisfaceva pienamente sotto il falso aspetto di giustizia avrà l’odore cattivo dell’iniquità; quello che ci deliziava sotto l’etichetta di saggezza apparirà non essere che follia, e quello che aveva una apparenza di forza si rivelerà debolezza. Ecco perché quanto sembra in noi perfetto non può affatto soddisfare la giustizia di Dio [vedi nota 1 in Discussioni].
3. Questa è l’origine dello stupore e del turbamento che, secondo la Scrittura, inquietò e piegò i santi ogni qualvolta avvertirono la presenza di Dio. Lontani da Dio, sicuri di se stessi, andavano a testa alta; ma non appena egli manifestò loro la sua gloria furono scossi e spaventati, fino ad essere oppressi e travolti dall’orrore della morte e quasi venir meno. Ne possiamo concludere che gli uomini non sono sufficientemente toccati e turbati dal sentimento della loro povertà fino a quando non si siano paragonati alla maestà di Dio. Di questo stupore abbiamo molti esempi, sia nei Giudici, che Dio stabilì in Giudea, che nei Profeti. Talché questa espressione risultava abituale nel popolo antico: "Moriremo perché abbiamo visto il Signore " (Gd. 13:22; Is. 6:5; Ez. 1:28 e altrove). Così la storia di Giobbe per umiliare gli uomini con una esatta percezione della loro stupidità, debolezza e impurità, trae sempre il suo principale argomento da questa sorgente: mostrare cioè quali siano la saggezza, la virtù e la purezza di Dio; e non senza ragione. Vediamo che Abramo è tanto più pronto a contemplare la maestà di Dio, quanto più si confessa terra e polvere (Ge. 28:27); come Elia nasconda, il volto non osando aspettare una tale vicinanza (2 Re 19:13); tale è lo spavento che i credenti avvertono di fronte a questa alta maestà. E che dovrebbe fare l’uomo il quale non è che verme e marciume se i cherubini e gli angeli del cielo si coprono il volto per la paura e lo stupore che essi stessi provano? È quanto dice il profeta Isaia: il sole si vergognerà e la luna sarà confusa quando il Signore degli eserciti regnerà (Is. 24:23). Vale a dire che quando dispiegherà la sua luce e la farà vedere più da vicino tutto quello che v’era prima di più luminoso ne sarà al confronto oscurato come tenebre Sebbene vi sia dunque un legame reciproco tra la conoscenza di Dio e quella di noi stessi e l’una sia in relazione con l’altra, tuttavia l’ordine di un buon insegnamento richiede che in primo luogo trattiamo della conoscenza di Dio per venire poi alla seconda.