Storia/Saluzzo riformata/II Le condizioni morali e religiose del Marchesato: differenze tra le versioni

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:Le condizioni morali e religiose del clero e del popolo. - Ombre e luci. - La dissidenza anteriore. - Il Sant' Offizio ed il suo funzionamento nei processi per eresia.
::''Le condizioni morali e religiose del clero e del popolo. - Ombre e luci. - La dissidenza anteriore. - Il Sant' Offizio ed il suo funzionamento nei processi per eresia''.


Scarse e talvolta incerte, per mancanza di testimonianze dirette e particolareggiate, sono le notizie riguardanti le condizioni della Chiesa nel Marchesato durante i primi decenni del secolo XVI. L'assenza prolungata dei Vescovi titolari della diocesi saluzzese ci priva di tutta quella messe di Atti, di Costituzioni, di decreti e di verbali di visite pastorali, dalla quale sarebbe stato possibile attingere notizie dirette e precise sulle condizioni della Chiesa e del clero e sulla intensità e natura del sentimento religioso popolare.
Scarse e talvolta incerte, per mancanza di testimonianze dirette e particolareggiate, sono le notizie riguardanti le condizioni della Chiesa nel Marchesato durante i primi decenni del secolo XVI. L'assenza prolungata dei Vescovi titolari della diocesi saluzzese ci priva di tutta quella messe di Atti, di Costituzioni, di decreti e di verbali di visite pastorali, dalla quale sarebbe stato possibile attingere notizie dirette e precise sulle condizioni della Chiesa e del clero e sulla intensità e natura del sentimento religioso popolare.

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Ritorno


II. Le condizioni morali e religiose del Marchesato

Le condizioni morali e religiose del clero e del popolo. - Ombre e luci. - La dissidenza anteriore. - Il Sant' Offizio ed il suo funzionamento nei processi per eresia.

Scarse e talvolta incerte, per mancanza di testimonianze dirette e particolareggiate, sono le notizie riguardanti le condizioni della Chiesa nel Marchesato durante i primi decenni del secolo XVI. L'assenza prolungata dei Vescovi titolari della diocesi saluzzese ci priva di tutta quella messe di Atti, di Costituzioni, di decreti e di verbali di visite pastorali, dalla quale sarebbe stato possibile attingere notizie dirette e precise sulle condizioni della Chiesa e del clero e sulla intensità e natura del sentimento religioso popolare.

È necessario quindi per tale periodo o ricorrere a documenti e testimonianze locali più tardive, che però riflettono condizioni anteriori, o valersi in via indiretta di quelle notizie, più copiose e precise, che concernono le terre, le quali, entro i confini regi e ducali, facevano corona al Marchesato o furono con quelle in intimo contatto.

Fino all'anno 1511 il Marchesato fu spiritualmente alle dipendenze dirette della chiesa metropolitana di Torino, che vi esercitava la giurisdizione ecclesiastica per mezzo dei suoi Arcivescovi. Ma in quest'anno (29 settembre 1511) Margherita di Foix, che reggeva il dominio in nome del figlio Michel-Antonio, ottenne dal papa Giulio II la bolla di erezione della Diocesi di Saluzzo [1]. La nuova giurisdizione vescovile fu dichiarata indipendente da ogni ingerenza di Metropolitani e di Vescovi e direttamente assoggettata alla Santa Sede.

I primi rettori [2] della diocesi furono Giovanni Antonio Grosso della Rovere, canonico di San Pietro in Vaticano, appena ventiduenne, e suo fratello Sisto, Priore dell'Ordine di San Giovanni di Gerusalemme (sett. 1512-apr. 1516). Ma essi non presero possesso personale della diocesi, lasciando il governo spirituale all'Arcidiacono Antonio Vacca, eletto Vicario Generale.

Successe a costoro Giuliano Tornabuoni [3], di famiglia fiorentina, il quale, eletto vescovo con bolla del 22 marzo 1516, fece la sua solenne entrata in Saluzzo il 13 luglio dello stesso anno. Sua prima cura fu di indire una Sinodo, i cui scopi, indicati nell'avviso di convocazione (18 luglio 1516), concernevano la riforma del clero, la libertà della chiesa, la tutela dei diritti parrocchiali e la salute delle anime dei fedeli. La Sinodo, durata dal 3 al 6 di agosto, sembra tuttavia essersi occupata assai più di questioni materiali e giurisdizionali che delle necessità spirituali. Lo deduciamo dagli «Statuti Sinodali » [4], redatti in 87 capitoli, i quali contengono per la maggior parte prescrizioni canoniche e solo raramente trattano degli abusi e dei mali, che affliggevano la società laica ed ecclesiastica del tempo.

Tranne questo Sinodo, nulla di importante compì Giuliano Tornabuoni durante la breve permanenza in Saluzzo. Dato ordine alle cose della Diocesi, affidatane la cura al Vicario Generale Filippo da Pistoia e al suo delegato Antonio Vacca, vescovo di Nicomedia, partì per Roma (1517), dove esercitò importanti cariche e donde non sembra più essere ritornato in sede [5].

Alfonso Tornabuoni, che successe allo zio Giuliano, rinunciatario (15 ottobre 1530), si accinse con maggior energia a porre rimedio ai molti mali, che inquinavano la diocesi, ed a ravvivare la fede languente [6].

Venuto a Saluzzo nel 1533, tenne l'8 marzo una Sacra Ordinazione, nella quale furono promossi agli Ordini ben 160 chierici, il che dimostra l'abbandono e la rilassatezza, in cui la diocesi era caduta a causa della lontananza dei suoi prelati. Per avere una notizia più sicura delle condizioni morali e spirituali del clero e del popolo del Marchesato, Alfonso Tornabuoni fece un giro d'ispezione nella diocesi, visitando, fra le altre terre, anche le valli della Varaita, della Macra, della Grana e del Po.

Gli Atti della Visita non contengono se non fugaci accenni al moto riformato, che era in quell'anno ancora incerto e latente, e nemmeno insistono sulle condizioni religiose del clero e del popolo: tuttavia, segnalando gravi abusi e numerose noncuranze nella custodia e nel decoro delle chiese, degli altari, delle reliquie e degli arredi sacri; lamentando profanazioni di cimiteri e di cappelle, abusi ed illegalità nell'imposizione delle tariffe per i divini uffici, nella raccolta delle elemosine o nel lucro delle indulgenze, lasciano intravedere come scarso e languente fosse lo zelo di una parte assai considerevole del clero e del popolo per tutto ciò che rivestiva carattere sacro.

Nel 1546, dopo anni di assenza, Alfonso Tornabuoni, a sua volta, rinunciò al Vescovato di Saluzzo per quello di San Sepolcro, ed al suo posto fu eletto il celebre Filippo Archinto [7], che fu il primo rettore della diocesi saluzzese sotto la dominazione francese. Come i suoi predecessori, anch'egli, salvo brevi periodi, rimase assente dalla diocesi, serbandone tuttavia il titolo fino al 1556, anno in cui fu trasferito all'Arcivescovado di Milano. A lui successero nella sede vescovile di Saluzzo, prima Gabriele Cesano, che tenne la diocesi dal dicembre 1556 fino alla morte avvenuta nel 1568; poi G. M. Tapparelli, che morì nel 1581; ed infine Antonio Pichot, di nazionalità francese, che fu vescovo di Saluzzo fino agli ultimi anni del secolo (1597) [8]. Di costoro, che posero sede stabile nella diocesi e che ebbero perciò più stretti rapporti con la Riforma, tratteremo più diffusamente nel corso del nostro studio. Qui basta l'aver rilevato come la lontananza, quasi costante, dei primi prelati dalla loro sede, sia stata una delle cause, che più fortemente contribuirono allo scadimento della fede cattolica ed ai progressi dell'eresia nel Saluzzese.

Infatti, per quasi tutto il Cinquecento, risuona incessante l'eco delle aspre lagnanze e delle fiere recriminazioni [9], che scrittori laici ed ecclesiastici, preoccupati degli incessanti progressi dell'eresia, muovono contro gli alti prelati, i quali rimangono per lo più lontani dalle loro sedi, senza neppure visitarle, contentandosi di percepirne i lauti redditi e le ricche prebende e mostrandosi custodi assai più gelosi dell'integrità e dei diritti delle Mense Vescovili ed Arcivescovili che della sanità morale del popolo e della salute delle anime. Il cattivo esempio stava purtroppo diffondendosi dalle alte gerarchie ai gradi minori, tanto che non solo Cardinali e vescovi, ma semplici abati, commendatari e vicari, lasciati come sostituti nelle sedi vacanti, a loro volta disertavano il luogo, stipendiando umili preti a tenere le loro veci [10]. Il male era anche più evidente, quando rendite e benefici cadevano nelle mani di Signori e di Principi, i quali, amministrandoli direttamente o indirettamente per mezzo di legati, non avevano altra mira che quella del lucro materiale e nessuna cura si davano del benessere spirituale e della dignità del culto.

Il malessere generale della Chiesa si rispecchiava in quello particolare delle antiche abbazie saluzzesi e di molti conventi, i quali avevano avuto nei secoli precedenti periodi di alto splendore ed irradiato intorno a sé fervore di vita, di umanità e di grande spiritualità.

Ricorderemo senza indagarne le complesse vicende [11] le quattro grandi abbazie che ancora nel secolo XVI erano comprese nel territorio del Marchesato e vi esercitavano la loro giurisdizione: quella di Staffarda, presso Saluzzo; di Casanova, presso Carmagnola; di Villar San Costanzo, presso Dronero; di Caramagna, presso Revello. Fra i monasteri di frati e di monache, numerosi ed antichi, avevano speciale fama quelli maschili di Pagno, di San Bernardino in Saluzzo, di Sant'Agostino e di S. Domenico in Savigliano: quelli femminili di Sant'Antonio di Dronero, di Rifreddo, di Revello, di Santa Chiara e dell'Annunziata in Saluzzo. Più numerosi ancora erano gli Ordini religiosi, i quali, senza avere conventi propri, avevano affidate alle proprie cure parecchie chiese situate nel territorio marchionale, come i Domenicani a Saluzzo, Savigliano, Revello; i Minori Osservanti a Saluzzo e Carmagnola; gli Agostiniani a Savigliano e a Carmagnola; i «battuti e flagellanti» in molte terre del Marchesato. Negli ultimi decenni del secolo si aggiungeranno i Gesuiti ed i Cappuccini, i quali in più luoghi finiranno col soppiantare i frati degli Ordini più antichi.

Tale pullulare di abbazie, di monasteri, di Ordini religiosi, in alcuni luoghi così fittamente distribuiti da parere sovrabbondanti per l'esiguità della popolazione, parrebbe attestare un intenso fervore di vita religiosa e spirituale, tanto più se si tengono presenti gli Statuti e le Regole, che erano alla base della loro fondazione e dovevano servire di guida alla loro disciplina morale e religiosa. Ma all'epoca in cui il Marchesato passò alla Francia (1548), Statuti e Regole erano ormai caduti in disuso e gli ideali monastici, illanguiditi o pervertiti, avevano dato luogo ad una grande rilassatezza dei costumi e della disciplina, se non addirittura a scandali aperti e clamorosi. Avevano assecondato la frivolezza e la dissolutezza dei costumi della vita monastica i vasti dominî e le laute rendite delle abbazie e dei conventi [12], ma soprattutto l' introduzione della «Commenda», l'accaparramento e l'accentramento dei beneficî ecclesiastici in una sola persona, l'ammissione nei conventi di un eccessivo elemento nobiliare ed il progressivo estinguersi della vera vocazione monastica.

La «Commenda» ed il «patronato » infatti avevano troppo spesso trasformato chiese, abbazie e monasteri in semplici benefici a favore dei fondatori o dei Signori, che avevano giurisdizione in quella terra e che, valendosi del diritto di patronato o di commenda, distribuivano i benefici, con sfacciata simonia, ai loro cadetti, ai loro figli illegittimi, a favoriti e parenti, facendo vergognoso mercato di uffici e di dignità ecclesiastiche [13]. Beneficiari e commendatari per lo più non si curavano di prendere gli Ordini Sacri né di risiedere in sede, e, paghi della vita agiata o lussuosa, che permettevano le laute rendite del beneficio, affidavano la cura spirituale a persone inadatte, senza zelo religioso e talvolta apertamente scandalose. Abbazie e monasteri costituivano ormai per le famiglie nobili e feudatarie un comodo mezzo per dare onorata posizione a quella parte esuberante della famiglia [14], che, con le eredità e le doti, avrebbe obbligato a frazionare soverchiamente l'esiguo feudo paterno.

Si entrava nei conventi senza vocazione, spesso ancora prima che la ragione stessa rendesse i novizi coscienti dell'alta missione, alla quale essi si consacravano: anzi assai spesso la vocazione non sorgeva spontanea, ma era voluta ed imposta dalla volontà paterna, che designava i figli da avviare alla vita monastica fin dalla nascita, così come dal grado maggiore o minore di nobiltà, più che dalle insite virtù intellettuali e morali, dipendevano il più rapido splendore della carriera monastica ed il raggiungimento dei più alti uffici.

Sono istruttivi a questo proposito alcuni passi del Memoriale, che Andrea Saluzzo di Castellar scrisse nella prima metà del Cinquecento, dove l'autore descrive l'ammissione e la vestizione di tre delle sue figliole: Caterina, Isabella e Francesca, entrate rispettivamente a sei, a tredici e quattordici anni nei monasteri di Revello e di Rifreddo. Ecco, ad esempio, come racconta l'ammissione della più giovane, Giovanna Caterina, alla data del 14 ottobre 1508: «Oggi ho mandato a lo monastero de Rifreddo mia figlia Chathelina a pigliare lo abito de monaca et hera de età di circha sei anni et la donai a madama l'abadessa mia qusina (cugina) giermana fata abadessa per pratica mia» [15].

Con la mancanza di una profonda vocazione si accompagnava per lo più l'assenza di ogni ideale di povertà e di umiltà. Lo stesso Castellar nelle pagine, in cui annota l'ammissione e la vestizione delle sue figliole, ha cura di farci un minuto elenco del corredo che ognuna di esse dovette portare con sé nel convento e di tutti i cospicui e svariati donativi, che ciascuna di esse era obbligata a dare al convento od alla Superiora. Era un corredo da principessa, non da umile conversa!

Vi sono elencati vestiti e scarpe di ogni genere e di ogni forma; berretti, tulli, veli, stoffe, posate, gioielli, oltre ad una ricchissima biancheria personale e da letto. Nuove spese, anche più forti, dovevano essere sostenute dal genitore all'atto della professione: « et chado (quando) se faranno professe, bisognerà fare lo simile et anchora davantagio». E pare che tanto sfarzo di spese fosse imposto non solo dal decoro della famiglia, dalla quale la conversa proveniva, ma anche dalla edacità delle autorità stesse preposte ai monasteri. Poiché, in un punto del suo Memoriale, il Castellar, evidentemente seccato di tante spese incontrate per la monacazione delle figliole, esce in questo sfogo: «et queli verano hapresso di me, se hanno a fare delle figlie monie (monache) per niente non faseno espesa (facciano spesa) che ho fatto io et se lo farano, sene pentirano, perché non gli è religiosi e religiose più tenaci che sono questi frati de l'osservancia ». Ciò che il Castellar scrive a proposito delle proprie figliole, può ripetersi per tutte le fanciulle della nobiltà marchionale che entravano, volenti o nolenti, nei conventi. Sicché non da stupire, se il lusso e la mancanza di vocazione, aggiungendosi alla gara di predominio, alle rivalità ereditarie delle proprie famiglie, alla rilassatezza dei costumi, all'incuria dei superiori, diretti o indiretti, avessero profondamente mondanizzata ed inquinata la vita dei monasteri e dei conventi.

Fra i monasteri femminili quello che ebbe peggior fama per tutto il secolo, fu certamente il convento di Sant'Antonio di Dronero [16] le cui monache appartenevano all'Ordine cistercense. Fin dal 1466 la disciplina vi era talmente rilassata e così gravi erano gli scandali da richiedere l'intervento del Vescovo di Torino, Ludovico Romagnano, il quale, sotto pena di scomunica, ordinò alle monache di assistere con più assiduità e compunzione agli uffici ed alle funzioni sacre, di non uscire dal monastero senza impellenti necessità, di indossare le vesti prescritte dall'Ordine e di licenziare tutti gli uomini, che sotto vari pretesti abitavano o bazzicavano entro le mura del Convento: il tutto sotto minaccia di soppressione della congregazione, se il male persistesse. Sappiamo che le monache avevano deposto i veli dal capo; che vestivano di panno rosso e vivace; che avevano sfarzosi pettorali; che coprivano leggiadramente il capo con tela aggiustata a corni e con tulli a buchi e che assistevano a pubblici spettacoli, a balli, a rappresentazioni profane e popolari, lasciando cadere assai gravi sospetti sulla loro integrità morale.

Ma poco effetto ebbero, e potevano avere, le esortazioni e le minacce del Vescovo in un convento, in cui le professe e la superiora appartenevano al fior fiore della nobiltà saluzzese. Cosicché, perdurando questo stato di cose, il Papa Giulio II con la stessa bolla, con la quale annunziava l'erezione della diocesi di Saluzzo (29 ottobre 1516), notificava, a favore della nuova Mensa vescovile, la soppressione del monastero di S. Antonio, adducendo come motivi la vita sregolata delle monache ed il fatto che il monastero era campestre e che, come tale, sfuggiva a rigorosa sorveglianza [17]. Ma le monache non si lasciarono sloggiare e per tutto il secolo seppero tener testa a chiunque papa, nunzio, visitatore apostolico o vescovo ardisse attuare il grave provvedimento. I mali crebbero negli ultimi decenni del secolo, sì da dare luogo a scandali clamorosi e disgustanti [18]. Solo dopo che il Marchesato cadde nelle mani del duca di Savoia Carlo Emanuele I, fu possibile procedere alla loro traslazione nel convento di Fossano (1592). Per il trasporto delle dodici monache, che facevano «una peggio dell'altra», e delle loro masserizie occorsero non meno di ventidue carri, «segno evidente commenta il Manuel che esse non osservavano i rigidi precetti della povertà evangelica» [19].

Il caso del convento di Sant'Antonio di Dronero, che abbiamo più minutamente ricordato, non a scopo di denigrazione, ma perché illustra, meglio di ogni altro, le tristi condizioni religiose e morali del tempo, non può e non deve essere generalizzato, coinvolgendo nella stessa immoralità tutti gli altri monasteri situati sulle terre saluzzesi. Tuttavia è pur doveroso ricordare come abusi, scandali ed atti immorali gettarono ad intervalli, collettivamente o individualmente, la loro triste ombra anche su parecchi altri conventi ed Ordini religiosi situati entro i confini del territorio marchionale. Non tutto, ad esempio, doveva correre liscio nel monastero di Rifreddo, se nel 1516 la stessa marchesa Margherita dovette intervenire dice il Castellar «per li strasordini grandi que se fasia dentro et anchora per que eschasi (quasi) non voleano più obedire a loro superiori» [20]. I mali perdurarono per tutto il secolo e si aggravarono negli ultimi anni, nonostante l'opera della Controriforma, come appare da talune frasi del Nunzio Riccardi, piene di santa indignazione (1598). Le sue relazioni dicono che quelle monache vivevano ormai più da maritate che da monache, avendo continuo e pubblico commercio con frati, preti e laici; che quasi ogni notte sotto le loro finestre si facevano delle serenate “come a meretrici” e che ogni anno qualcuna di esse era scoperta in stato di gravidanza [21].

Per quanto meno notati per quella ingiusta indulgenza che si suole concedere alle colpe maschili anche ai dì nostri abusi e scandali non erano rari neppure nelle Abbazie e nei conventi degli Ordini maschili. L'abate Enrico di Saluzzo, priore di Pagno [22], viveva più da soldato che da ecclesiastico, prendendo parte a fazioni guerresche, e, contento di godere i redditi del priorato, lasciava che la chiesa andasse in rovina materialmente e spiritualmente, finché la Comunità, facendo ricorso al Senescallo, non lo obbligò a stipendiare, a sue spese, due preti per i divini uffici, sotto minaccia di 500 lire di multa in caso di inadempienza. “Più soldato che prete” è detto anche il prevosto di Verzuolo intorno all'anno 1579 [23].

Gravi infrazioni alle regole monastiche avvenivano anche nell'Abbazia di Caramagna, dove nel 1565 quell'abbate, Giovanni Francesco de Feys dei Signori di Piossasco e Piobesi, veniva arrestato e processato dal Visitatore Scarampi sotto varie accuse: di non risiedere, se non raramente, nell'Abbazia; di maltrattare i suoi monaci; di tenere concubine in cella; di avere rapporti intimi con donne maritate e con fanciulle, dalle quali aveva avuto parecchi figli; di essere truffatore, avaro e litigioso; di imporre abusivamente somme di danaro agli sposi per concedere loro il permesso di matrimonio; di passeggiare armato in pubblico; di far saccheggi e grassazioni sulla pubblica via; di trattenersi con gente vagabonda e di mal affare [24].

Frati scandalosi e concubinari affiorano anche nell'Abbazia di San Vittore e Costanzo, presso Dronero [25]. Nel convento di S. Agostino, in Saluzzo, frate Ippolito aveva fama di trescare con le monache di Rifreddo, e nel convento dei Conventuali il Padre Guardiano era anch'egli riguardato come scandaloso [26]. Per quanto fosco e doloroso, il quadro delle immoralità e della rilassatezza religiosa nelle Abbazie e negli Ordini monastici del Marchesato, tanto maschili quanto femminili, non sembra tuttavia essere stato più tetro di quello che ci presen- tano le limitrofe terre ducali 27 e che l'anonimo autore del Memoriale del 1559 (sia esso Niccolò Balbo o Cassiano Del Pozzo 8), compendia in questo grido di orrore e di esecrazione: Et non lascierò di dire che il paese di V. A. è la propria sporcizia, infamia e brutezza, del modo con cui si fanno molte cose infami per la conversatione si tiene con queste donne monachate, dico per tutto il paese di V. A. et so quel ch' io dico».

Ancora più diffusi ed appariscenti erano gli scandali e gli abusi del clero secolare, non sottratto da muri claustrali agli occhi del pubblico ed in più intimo contatto con la corruzione e con le cattive tendenze del popolo. Lo provano le «Costituzioni e le Prescrizioni Sinodali» emanate dal vescovo G. Tornabuoni nell'anno 1516 29, dove ai divieti si accompagnano gravi sanzioni disciplinari e pecuniarie per quegli abusi che. largamente diffusi, minacciavano d'inquinare l'autorità e la santità del ministerio sacerdotale. Il vescovo vieta infatti ai preti di portare vesti aperte all'estremità superiore, troppo lunghe o troppo corte, berretti fatti ad infula, camicie a cappi o diploidi o soverchiamente scollate; ordina che la barba sia contenuta entro giusti limiti, che la sommità del capo sia rasa a guisa di spera e che i capelli non siano spioventi in modo da coprire le orecchie.

Il clero del Marchesato era generalmente povero ed aveva poche possibilità di vita lussuosa; ma forse fra gli ecclesiastici di grado più elevato non mancavano alcuni, ai quali si potessero a ragione indirizzare le sdegnose rampogne, che il P. Vivaldo, cortigiano dei marchesi, scriveva al principio del secolo, quando rinfacciava agli ecclesiastici il lusso che essi facevano a dispetto della povertà del popolo, tenendo cavalli, servi, scudieri «sericis vestibus ornatos necnon calamistratos et comatulos habentes facies eunuchinas contra intentionem ecclesiae» [30].

L'amore della mondanità e del lusso portava naturalmente con sé una vita neghittosa, illetterata, che a sua volta faceva sentire le sue tristi conseguenze nella trascuratezza o nella profanazione dei divini uffici. Lo stesso Padre Vivaldo ha parole mordaci per i sacerdoti del suo tempo, che « inertiae et otio se dantes, putant peccatum esse si scripturas legerint et eos, qui in lege Domini meditantur die ac nocte, quasi garrulos inutilesque contemmunt» [31]. Per rimediare a questi gravi inconvenienti il Tornabuoni raccomandava al clero una coscienziosa preparazione dei sermoni, lo studio diligente delle S. Scritture, affinché non capitasse più che essi si rendessero ridicoli davanti ai fedeli durante la celebrazione dei divini uffici. Che questa ignoranza delle cose sacre fosse assai diffusa nel clero del Marchesato lo attesta il fatto che ancora nella seconda metà del secolo, dopo che vescovi, missionari gesuiti e cappuccini, nunzi e visitatori apostolici si saranno consacrati a diffondere i salutari precetti del Concilio di Trento ed a risanare i mali, che affliggevano la chiesa, si dovrà purtroppo lamentare che sussistano frati e preti oziosi, illetterati o analfabeti, ignoranti delle più elementari nozioni degli uffici divini. Parecchi parroci non solo non si curavano di riporre in luogo dignitoso l'ostia sacra, le reliquie ed i paramenti sacerdotali, né di registrare le nascite, i matrimoni, i decessi, i comunicati ed i confessati, ma non sapevano talvolta né leggere il Messale né celebrare la Messa, non insegnavano la dottrina ai fanciulli, non comunicavano né confessavano i parrocchiani, né portavano il Viatico ai malati ed ai moribondi [32].

Ai mali dell' incuria e dell' ignoranza si aggiungevano quelli più gravi provenienti dalla disordinata e scandalosa vita morale. Ce li indica il medesimo vescovo Tornabuoni, quando vieta ai parroci e ai chierici di tenere in casa concubine e giovani donne ed ordina loro di allontanarle sotto pena di 25 fiorini di multa: quando proibisce che essi s'intrattengano in pubblico con meretrici, con donne malfamate o sospette di lenocinio, sotto pena di sei grossi; o quando ancora minaccia la grave multa di sei fiorini contro quelli che, dopo aver avuto figliuoli da concubine, se li tengono in casa alla vista di tutti, anzi non si vergognano di servirsi di essi in chiesa per le sacre funzioni con grave scandalo del popolo [33].

Era ormai invalsa l'abitudine che anche gli ecclesiastici prendessero parte a balli, a feste popolari, a rappresentazioni e mascherate licenziose o lascive, a giochi di azzardo sulle pubbliche piazze o nelle osterie, a cavalcate carnevalesche, a “zabre” organizzate dagli abati dei Folli, a banchetti e veglie notturne con giovani scapestrati e donne malfamate.

Erano abusi e scandali così largamente diffusi e così profondamente radicati che l'epurazione di essi fu lenta e difficile. Il Visitatore Apostolico Peruschi [34], ancora nel 1579, lamenterà che nel Marchesato «i preti comunemente hanno concubina et figlioli et le cose son publiche, che è peggio, né si vergognano che si dica: è il figliuolo dell'Archidiacono». Lo constaterà vent'anni dopo ancora il Nunzio torinese [35], denunciando alla Corte di Roma che gli ecclesiastici del Marchesato per il cattivo esempio dato dai preti francesi e per le pestifere dottrine di Lutero, sono soliti a uscire in pubblico vestiti più da laici che da chierici, per modo che è assai difficile il riconoscerli: che giocano pubblicamente in piazza alla pelotta ed alle carte: disertano i divini uffici e, quel ch'è peggio, sono soliti a tenere donne disoneste in casa».

È naturale che mondanità, dissolutezza ed ignoranza screditassero il clero davanti al popolo e lo rendessero talora perfino ridicolo e disprezzato, e che il disprezzo e lo scredito lasciassero facilmente l'adito ad una odiosità più o meno latente. Contribuiva infatti a suscitare una certa malevolenza verso gli ecclesiastici, da una parte, l'ingordigia, con la quale essi accumulavano per sé le più ricche prebende ed i più lauti benefici, si disputavano Messe ed impieghi lucrativi o insidiavano ai testamenti dei ricchi, delle vedove e dei pupilli; dal- l'altra la caparbia ostinazione con la quale sostenevano lunghe e scandalose liti fra di loro o con i Comuni per difendere ed aumentare il loro patrimonio, il quale spesso poi andava a benefizio di prelati e di commendatari residenti fuori del Marchesato [36].

Altra causa non minore di malcontento verso gli ecclesiastici era la tenacia, che essi dimostravano nel difendere i loro antichi privilegi forensi [37] e soprattutto loro costante rifiuto a concorrere nel pagamento delle tasse, dei tributi, dei donativi e delle contribuzioni di guerra, esenzione dice il Manuel che diventava tanto più odiosa in un tempo in cui popolazioni e comunità erano state saccheggiate ed impoverite da tante invasioni e da tanti eserciti, parecchi dei quali condotti da vescovi stessi, e il governo francese stava per inasprire i contributi per la difesa della provincia. Il rifiuto diventò anche più amaro, quando nella seconda metà del secolo, calando truppe ugonotte nel Marchesato e nel Piemonte, la guerra assunse carattere ed importanza religiosa e fu facile per il duca dimostrare che essa era fatta a distruzione dell'eresia, a difesa della Chiesa e della fede cattolica, anzi alla protezione stessa delle persone degli ecclesiastici e dei loro benefici [38].

Se dagli Ordini monastici e dal clero, gettiamo ora lo sguardo sul popolo minuto del Marchesato, dobbiamo riconoscere che gli scandali e gli abusi, che abbiamo fin qui lamentati, si trovavano tristemente riflessi anche in mezzo al popolo. Ed è naturale, perché come dice l'autore del Memoriale più volte citato «dal mal esempio che toglie il popolo sopra la mala vita de' tali (cioè degli ecclesiastici), se ne fabbrica una legge di poter peccare licentiosamente» [39]. Parecchi degli abusi e dei mali, che affliggevano il popolo, affiorano nelle citate “Costituzioni” del vescovo Giuliano Tornabuoni [40]. Grave, ad esempio, e diffusissima era l'usura, a proposito della quale il vescovo minaccia l'esclusione dai Sacramenti e dalla sepoltura ecclesiastica, se i rei non restituiscano prontamente il mal tolto. Ma la piaga più grave era quella stessa che inquinava buona parte del clero, cioè il concubinaggio, del quale davano prova costante e manifesta i marchesi stessi di Saluzzo ed i più illustri membri della nobiltà marchionale [41]: contro i concubinari il vescovo commina la censura e la multa di 40 fiorini. Non mancavano neppure i casi di matrimoni clandestini con gli inevitabili disordini morali; i ratti e gli stupri di fanciulle oneste tanto del popolo quanto della nobiltà. La smania dei balli, dei giochi, delle cene e delle rappresentazioni profane e licenziose era tale che spesso si tenevano nei monasteri, nelle chiese e nei cimiteri [42]. La mondanità illanguidiva la fede e profanava feste e cerimonie sacre. Sappiamo che spesso, durante le processioni del Corpus Domini, si svolgevano mascherate e rappresentazioni buffonesche ed invereconde: che nella ricorrenza della festa di S. Chiaffredo entrava e girava nelle chiese un carro tirato da buoi e guidato da contadini ubriachi; che la mania dei dadi, delle carte da azzardo era spesso così irresistibile da far disertare i divini uffici o da turbare in chiesa le funzioni sacre; che più volte le cerimonie nuziali davanti all'altare erano profanate da «ciabre» irriverenti, da spari di mortaletti e da altri scherzi più o meno licenziosi, dei quali era fecondo lo spirito ridanciano degli abbati dei «Folli» [43]. Lo zelo religioso, sia per tutte le cause sopra riferite, sia per effetto della propaganda ereticale, era così decaduto che nel 1579 il Visitatore Peruschi nella sua Relazione [44] era costretto a segnare queste amare parole: «I pochi cattolici che ci sono, dal credere in su, par che non abbiano altro, né si vede zelo e un poco di fervore». La pra tica poi della comunione e della confessione era caduta in tale disuso e discredito che il Nunzio di Torino durante la sua ispezione nel Marchesato [45], dopo l'occupazione sabauda e dopo più di un ventennio di missioni gesuitiche e di salutari istituzioni (1598), confessava apertamente che in tutto il Marchesato non si trovavano più di 30 persone che si comunicassero più di una volta all'anno. Ed aggiungeva che durante la festa della Madonna (8 sett.) malgrado la sua presenza, nella città di Saluzzo, su tremila fochi (cioè famiglie) solo duecento persone si erano comunicate, e «parve una cosa nuova e gran meraviglia».

Concludendo, ricorderemo ancora come l'uso di portare armi, permesse o proibite, moltiplicava i ferimenti e gli omicidi, che talora insanguinarono anche le chiese ed i conventi e non risparmiarono nemmeno il palazzo dei vescovi di Saluzzo [46].

Fin qui non abbiamo enumerato che i mali di varia natura, che affliggevano la Chiesa, il clero ed il popolo del Marchesato. Ma il quadro delle condizioni morali e religiose non sarebbe né completo né obbiettivo, se alle ombre, che oscuravano lo splendore e la moralità della Chiesa e della società, non contrapponessimo le luci, che qua e là brillavano di vivo candore accanto al male e se non ricordassimo le forze e le istituzioni, che cercavano di reagire alla corruzione, all'ateismo ed alla eresia dilagante.

Certo il male sussisteva profondo e difuso in ogni ceto della società, sia laica, sia ecclesiastica; ma forse, per la natura stessa del paese e per l'indole degli abitanti, assai meno grave e clamoroso di quanto non risulti nelle limitrofe terre ducali, quando scorriamo le pagine del citato Memoriale presentato al duca E. Filiberto nel 1559 o la Relazione dell'ambasciatore veneto, Francesco Morosini, recitata al Senato Veneto nel 1570, o quando leggiamo le fiere rampogne contro la depravazione del clero e del popolo contenute nelle Costituzioni e nei Decreti Sinodali degli Arcivescovi torinesi o nelle satire mordaci del poeta astigiano Giorgio Alione.

Il male nel Marchesato era forse più nelle città che nelle campagne, più nella Corte e nei palazzi dei nobili, che nelle misere borgate e nelle valli selvagge, che costituivano gran parte del Marchesato.

Non tutto era quindi inquinato. E, sebbene « come dice il Pastor [47] “nei documenti sia di preferenza registrato il vizio e il delitto, che levan scalpore, anziché la virtù, la quale se ne va per la sua via silenziosa e segreta”», tuttavia non mancano anche per il Marchesato, tanto nella prima quanto nella seconda metà del Cinquecento, prove sicure ed evidenti della religiosità, della moralità e della spiritualità di una parte del clero e del popolo. Possono testimoniare [48] della devozione religiosa di quelle popolazioni: la erezione di numerose chiese e cappelle; la fondazione del Duomo [49] e lo slancio col quale popolo e clero sottoscrissero il danaro necessario: la cura gelosa, con la quale si conservavano molte reliquie di Santi e di Martiri; i frequenti pellegrinaggi ai santuari di Pagno e di San Chiaffredo; l'entusiasmo dimostrato in occasione di feste religiose, di processioni o nel ricevimento solenne dei vescovi; l'insistenza di parecchi Comuni nel reclamare un predicatore [50], una Missione gesuitica o cappuccinesca per diradare l'ignoranza spirituale del popolo e per arginare i progressi dell'eresia; la generosità e lo spirito di sacrificio dimostrato in parecchie contingenze per ridare splendore e vigore al culto cattolico. La provano ancora: la frequenza di testamenti e lasciti a chiese, a conventi, a santuari e a collegi monastici; la creazione di numerosi asili, ospedali per poveri e viandanti; le leggi severe imposte per porre un freno al dilagare del concubinaggio, dell'usura, del ballo [51], della bestemmia [52] e del gioco d'azzardo [53]; i tedeum e le processioni di ringraziamento a Dio ed alla Vergine per la liberazione di una città assediata o per la sventata minaccia della peste o del contagio ereticale.

Ma più che da questi fatti, i quali assai spesso attingono la loro ispirazione più da sentimenti umanitari che essenzialmente religiosi, la fede genuina del popolo saluzzese è da ricercarsi in quelle numerose corporazioni religiose fratrie e confraternite le quali pullularono e vissero fiorenti non solo in Saluzzo, in Carmagnola ed in Dronero, i tre principali centri del Marchesato, ma anche nelle più umili borgate della pianura e della montagna. Ché, se anche in queste associazioni religiose la fede può talora apparire offuscata da superstiziose deviazioni o da eccessivi martoriamenti del corpo e dello spirito, bisogna pur riconoscere che esse, ispirandosi agli ideali di umiltà e di povertà evangelica e praticando l'amore e la carità verso i poveri e gli sventurati, personificavano ed attuavano nel loro ambito le tre grandi virtù, che costituiscono l'essenza del Cristianesimo.

Le fratrie o confratrie [54] non avevano propriamente uno scopo religioso e chiesastico; tuttavia con la loro opera umanitaria contribuivano a lenire molti dei mali morali e sociali, che affliggevano il popolo del Marchesato. S' intitolavano del nome del Santo Spirito, reggevano generalmente un ospizio (freilia) od albergo, dove ospitavano i viandanti ed i pellegrini, i poveri e gli orfanelli; distribuivano viveri, indumenti e legna agli indigenti; accompagnavano le salme dei giustiziati e dei derelitti; contribuivano alle spese per feste e processioni; curavano il decoro delle chiese e facevano dir messe per i poveri. Affini alle fratrie, ma distinte da esse, erano le confraternite, i cui Statuti respirano un'alta spiritualità e religiosità. Anch'esse si proponevano scopi umanitari e spesso, come le fratrie, aprivano nelle loro case ospizi ed asili per poveri e viandanti come quella detta del Gonfalone, in Saluzzo e distribuivano viveri ed elemosine: ma avevano specialmente di mira la conservazione della fede e l'incremento delle pratiche reli- giose. I loro membri erano chiamati con vari nomi: flagellanti, disciplinati, raccomandati, crosati, battuti ecc. [55].

Quasi ogni chiesa ebbe la sua confraternita più o meno numerosa e più o meno ricca: ne sorsero a Saluzzo, a Carma- gnola, a San Damiano, a Verzuolo, a Savigliano, a Revello, a San Peyre, a Dronero, per non citare che i centri, in cui ebbero maggior potenza e splendore. Tra le più famose furono, in Saluzzo, quella della B. Vergine o del Gonfalone e, in Savigliano, quella detta dell'Assunta [56], i cui Statuti, giunti fino a noi, ci permettono di conoscere le regole e le pratiche, che erano alla base di questi sodalizi. «Nessuno poteva esservi ammesso, senza l'approvazione degli altri eletti, senza essere stato prima attentamente esaminato nella sua fede e nella sua condotta morale ed essere stato trovato immune da ogni vizio capitale, o di usura, di eresia e di disonestà; prometteva di osservare scrupolosamente gli Statuti e le regole; se trasgrediva era corretto o punito dal rettore; se poi si ostinava nel male, veniva escluso dalle confraternite della città. Erano istituiti dei visitatori degli infermi e dei poveri, i quali, avuta notizia di qualche malato o sventurato, dovevano visitarlo, esortarlo alla confessione ed alla comunione, soccorrerlo, se povero. La confraternita si adunava ordinariamente ogni domenica ed ogni festa di precetto. Ogni membro al suo entrare era salutato con le parole «sit nomen Domini benedictum»: si avvicinava all'altare e faceva la sua orazione. Alla morte era rivestito del suo camice, cinto del cingolo, composto nella bara con le mani in croce e con la disciplina nella destra. Doveva vivere piamente e castamente, non giurare, non bestemmiare né il nome di Dio né quello della Vergine; non giocare a giochi di azzardo, non portar armi, non vestiti lussuosi né piume sui berretti; non mascherarsi di carnevale né appartenere alla gioiose abbazie dei Folli; non esercitare l'usura né trattenersi con persone di cattiva fama. Aveva l'obbligo di comunicarsi quattro volte all'anno, di confessarsi almeno due volte al mese « essendo la confessione salute dell'anima, dissipatrice dei vizi e restauratrice della carità »; recitare ogni giorno 25 Pater Noster; evitare ogni lite e discordia « affinché quelli che debbono imitare il Vangelo della pace non siano principio di confusione»; infine recitare i salmi penitenziali ogni ultima domenica del mese, raccogliere danaro per le elemosine e per le Messe a favore dei confratelli defunti» [57]. Le confraternite ebbero quasi dappertutto un periodo di stasi o di rilassamento verso la metà del secolo per le lunghe guerre divampate nei primi decenni del secolo, per l'assenza o l'effimero soggiorno dei vescovi, per l'influsso dell'eresia dilagante, per la rilassatezza, che portò con sé la dominazione francese e l'applicazione dei principi e degli usi propri della chiesa gallicana. Ripresero nuovo fervore, quando, negli ultimi decenni del secolo, si introdussero nel Marchesato le Missioni dei Padri Gesuiti e Cappuccini 58 deliberatamente impegnati a combattere i progressi della Riforma e dell'apatia religiosa ed a ristabilire il culto cattolico e l'autorità della Chiesa. Essi - dice il Savio introdussero la frequenza del SS. Sacramento: raccoglievano il popolo e le confraternite e processionalmente si recavano ora all'una ora all'altra chiesa a celebrarvi la comunione.

Nuovo fervore religioso venne al popolo anche dall' istituzione delle «Quarant'ore», celebrate in memoria delle quaranta ore, nelle quali il corpo di Cristo rimase nel sepolcro. Durante questi uffici la folla del fedeli stava per quarant'ore continue in orazione davanti al SS. Sacramento per implorare da Dio la liberazione dai mali, che affliggevano il popolo e la Chiesa. Particolare importanza assunse anche la festa e la processione del «Martedì Santo» [59], istituita nel 1579, per ringraziare Dio per la cacciata degli eretici, che erano scesi col maresciallo di Bellegarde e che con il loro aperto proselitismo, rafforzato da atti di violenza, avevano recato una seria minaccia alla fede cattolica. Con le Missioni gesuitiche e cappuccinesche fu dato anche nuovo incremento alla cultura religiosa nel Marchesato, perché i Padri, durante il loro ministerio itinerante o le loro sta- bili missioni, riapersero o fecero rifiorire quasi in ogni parrocchia le scuole di dottrina e di catechismo per istruire il popolo sulle verità cattoliche e sugli errori ereticali ed obbligarono, sotto varie pene, fanciulli ed adulti a parteciparvi. Tali furono dunque nelle loro linee generali le condizioni morali e religiose del Marchesato durante il secolo XVI. Vi erano elementi favorevoli all'introduzione ed alla diffusione della Riforma, altri decisamente contrari, altri dubbi, e quasi in germe, i quali, per esplicarsi attendevano speciali avvenimenti politici e militari, come ad esempio, le guerre civili di Francia, la rivolta del Bellegarde, l'occupazione sabauda del Marchesato o l'invasione ugonotta del Lesdiguières. La mondanità, l'ignoranza e l'immoralità di una parte del clero, la sua avarizia e rapacità, la sua ricchezza e la sua brama di predominio, la sua caparbietà nel rifiutare ogni concorso nei pubblici carichi a sollievo della miseria comune; la mancanza o l'incuria delle autorità ecclesiastiche, la natura di una fede più esteriore che interiore e che amava mani- festarsi in cerimonie spesso sfarzose e invereconde: tutti questi mali, sentiti e lamentati, dovettero provocare uno stridente contrasto e suscitare un profondo turbamento nelle coscienze, quando i primi predicatori della Riforma, in genere più dotti ed austeri della massa del clero cattolico, riaprendo il libro chiuso o dimenticato dei Vangeli, contrapposero all'andazzo corrotto, lussuoso ed effeminato del secolo, la vita povera, umile ed austera di Cristo e delle chiesa apostolica ed invitarono i fedeli ad un riesame più intimo della propria fede ed ad un immediato ritorno alla semplicità ed alla carità evangelica. Quella parte del popolo, che andava errando come gregge senza pastore, e che, intimamente religiosa, cercava da sé la propria salvezza, fu scossa dal nuovo annuncio della Buona Novella ed ascoltò volentieri la voce di coloro, che appagavano le aspirazioni della coscienza, ravvivando l'antica fede e liberandola dagli abusi e dalle scorie, che la deturpavano.

Dal profondo turbamento dell'animo, creato dal confronto tra lo stato attuale della società e della Chiesa e gli ideali religiosi e morali predicati dai novatori, nacquero gli apostoli più ardenti della Riforma. Lo riconosce esplicitamente l'autore del citato Memoriale del 1559, quando, enumerati tutti i mali, che affliggevano la Chiesa, conclude: «Sicché non è maraviglia, se Iddio per tali peccati e mancamenti nostri tollera che vengano tanti heresiarchi et seguaci loro» [61].

Ma se mondanità ed immoralità del clero e del popolo, ignoranza, superstizione od apatia religiosa furono sotto certi aspetti, per virtù di reazione, un valido coefficiente della Riforma, è altrettanto vero che, sotto un altro aspetto, queste medesime colpe e manchevolezze della società e del clero furono altrettanto contrarie e nocive all'affermarsi del moto riformato.

Una società corrotta e mondana anche se la Riforma [62] deviò essa stessa assai spesso dai principi che proclamava non era atta né preparata ad accettare le nuove dottrine, che predicavano l'austerità della vita, il disprezzo delle ricchezze e degli onori, la rinuncia a se stessi e la nuova nascita interiore: così come un popolo scettico, fanatico, superstizioso ed ignorante era incapace di allontanarsi da credenze e da cerimonie fino allora seguite e praticate; di rinunziare a tante manifestazioni religiose, che appagavano più l'occhio che lo spirito e nelle quali talora trovava perfino un libero sfogo alla sua spensierata mondanità; ma era incapace soprattutto di assurgere ad una concezione più spirituale e più personale della propria fede e di sacrificare agi, beni, libertà e la vita stessa, quando la fede fosse minacciata dall'intolleranza e dalla violenza.

Così, tra gli aperti fautori della Riforma, da una parte, ed i nemici dichiarati, dall'altra, si venne formando, specialmente dopo le prime avvisaglie della persecuzione religiosa, un terzo ceto di persone, le quali, sebbene intimamente propense alla Riforma sotto molti aspetti, tuttavia esteriormente si astennero dal praticarla e dal diffonderla o per eccessivo amore della loro autorità, dei loro interessi e delle loro ricchezze, o per timore d'incorrere nelle censure della Chiesa o nelle inesorabili vendette del S. Uffizio e del braccio secolare. Costoro, protestanti in tempo di bonaccia, cattolici o indifferenti in tempo di persecuzione, furono ironicamente chiamati con il nome di «Nicodemiti» [63].

Queste tre categorie di persone appariranno a turno nel corso del nostro studio, e, dal prevalere dell'una o dell'altra corrente, dipenderanno i progressi, le fluttuazioni o il decadi- mento del moto protestante nelle terre del Marchesato.

Di una dissidenza religiosa nel Marchesato abbiamo notizie fin dal secolo XIII [64], sebbene non si possa sempre indi- care con esattezza quali dottrine praticassero e a quale setta speciale appartenessero gl'inquisiti. Rendono difficile una netta distinzione la scarsità o l'imprecisione dei documenti e degli atti inquisitoriali, l'indeterminatezza o pluralità dei nomi, con i quali furono indicati spesso indifferentemente tutti gli eretici: la contaminazione e l' interferenza delle varie forme di dissidenza riscontrate in parecchi focolari di eresia, dentro e fuori i limiti del Marchesato.

Tuttavia la vicinanza della Provenza e del Delfinato, dove il valdismo aveva avuto la sua culla e il suo centro maggiore di diffusione, e la presenza al di qua delle Alpi di un forte nucleo di Valdesi nelle valli del Pellice e del Chisone, autorizzano a supporre che la maggioranza dei dissidenti, che popolavano le parti più montuose del Marchesato, praticassero generalmente le dottrine valdesi, mentre invece varia ed eterogenea poteva essere la popolazione dissidente dei borghi della pianura, in più facile e diretto contatto con i nuclei eterodossi di Cuneo, Bernezzo, Demonte, Savigliano, Mondovì, Alba, Asti e Chieri per non citare che i più vicini i più illustri studiosi della dissidenza piemontese riscontrarono tracce di dottrine valdesi, catare, patarine sin dalla seconda metà del secolo XIII. Non crediamo necessario soffermarci sulle manifestazioni ereticali e sulle repressioni inquisitoriali [65], che dagli inizi del '300 alla metà del '400 turbarono a tratti la tranquillità del Marchesato e che furono, nelle terre del Saluzzese, la natu- rale ripercussione della dissidenza e delle persecuzioni infierite nelle vicine terre di Cuneo, Bernezzo e Demonte o nelle valli del Pellice e del Chisone o nelle province transalpine della Provenza, del Delfinato e del Venassino. Agli scopi del nostro studio basterà ricordare come la dissidenza persistesse rigogliosa sulle terre saluzzesi ancora sulla soglia del secolo XVI, per dedurre gli eventuali contatti che essa ebbe con la Riforma e l'influsso che poté esercitare sulla successiva dissidenza protestante.

Nuclei di dissidenti sono segnalati verso la fine del secolo XV in Val Macra (1475) [66], ma con più sicurezza, in Verzuolo [67] e nell'alta valle del Po. In Verzuolo nell'anno 1497, magia ed eresia pullulavano con tanta intensità e con così grave pericolo per la fede catto lica, che il Consiglio Comunale, allarmato, credette opportuno inviare una deputazione al marchese (26 maggio 1497) [68] per richiedere l'intervento del S. Uffizio, affinché vi ponesse rimedio. Il Comune prometteva di sobbarcarsi alle spese del mantenimento del P. Inquisitore e del suo collega per ben otto giorni. Gli Inquisitori vennero, ma procedettero con tanto rigore ed ingordigia di confische, che il Consiglio stesso fu obbligato a tutelare l'incolumità delle persone e dei beni dei cittadini, ordinando che quattro o cinque persone [69], deputate dal Comune, assistessero ad ogni causa e processo intentati dal S. Uffizio.

Seguì più lunga e fiera la persecuzione contro i Valdesi di Paesana [70], che già da circa due secoli si erano introdotti nella valle ed avevano occupato i villaggi alpestri di Praviglielmo, Bioletto, Bietonetto, Croesio, Oncino ed Ostana. Contro di essi già avevano inquisito Fra' Giovanni De Badis (1332) e Valeriano dei Saluzzi (1467), ma senza frutto, poiché negli ultimi decenni del secolo vennero ad ingrossare i nuclei ante- cedenti altri gruppi di dissidenti, che la persecuzione religiosa cacciava dal Delfinato e dalle valli del Pellice e del Chisone.

L'afflusso di nuove famiglie non fu senza conseguenza per la vita economica e religiosa della Valle. Infatti, non soltanto la fede valdese ricevette nuovo impulso e nuovo fervore di proselitismo a danno della fede cattolica: ma i nuovi venuti, disboscando gerbidi e selve, occupando pascoli montani e terreni demaniali, vennero necessariamente a ledere gli interessi della popolazione cattolica. La quale, per l'una e per l'altra ragione, fece sentire le sue lagnanze alla Corte marchionale ed ai Signore della valle [71].

Reggeva allora il Marchesato, in nome del minorenne Michele-Antonio, la madre Margherita di Foix. “Donna tutta del Papa ed avida di danaro” come afferma il Castellar che le fu contemporaneo la marchesa vide nella crociata un'ottima occasione per conseguire i suoi scopi: propiziarsi il papa nella vagheggiata erezione della sede vescovile di Saluzzo e sopperire alle spese di uno sfarzo immoderato con il provento delle confische dei beni tolti agli eretici [72]. La persecuzione vera e propria non scoppiò che nel giugno del 1510 [73], ma fin dall'autunno dell'anno precedente sappiamo che si recò nella valle ad inquisire Frate Angelo Ricciardino, domenicano di Saluzzo. Dopo prediche, esortazioni e minacce, l'Inquisitore intimò agli eretici di presentarsi davanti a lui per fare atto di penitenza e di abiura. Ma nessuno ubbidì. Vieppiù irritato, Frate Angelo si diede a perquisire la valle e con l'aiuto di numerose spie poté avere nelle mani alcune persone eretiche o sospette, le quali, sottoposte alla tortura, confessarono di essere Valdesi 74 e che Valdesi erano pressappoco tutti gli abitanti delle borgate di Praviglielmo, Bioletto, Bietonetto ed Oncino. La gravità dell' infezione ereticale decise la marchesa a spalleggiare l'Inquisitore con una schiera di duecento fanti, che, gettandosi sulle case dei valdesi, uccidendo, saccheggiando e bruciando, costrinsero i perseguitati a cercare scampo sull'alto delle montagne di Barge o presso i confratelli della Val Pellice. Quelli, che caddero nelle mani dei birri, furono condotti nelle carceri di Sanfront e processati: tutto ciò, che non era stato preda delle fiamme o dell'ingordigia dei soldati, venne confiscato.

La domenica delle Palme (25 marzo) fu allestito un rogo con grande solennità in un prato di Croesio: ma un'improvvisa e violenta bufera di neve fece sospendere il macabro spettacolo, che fu rinviato al domani. Nella notte i condannati, da soli o con l'aiuto di complici, riuscirono ad evadere dalle prigioni ed a riparare sull'alto dei monti. L' Inquisitore allora sfogò la sua collera, facendo salire sul rogo tre altri valdesi, che teneva in carcere, sebbene avesse loro promessa salva la vita in premio delle delazioni avute [75]. Le persecuzioni continuarono nei mesi seguenti: altri infelici salirono il rogo, o, condannati a pene più miti, pagarono il fio della loro eresia con la fustigazione, col bando o con il carcere.

Verso il giugno (1510) la violenza inquisitoriale sembrava illanguidire nella valle, quando, il 23 di quel mese, la marchesa con un nuovo editto rinnovava la crociata antivaldese, dando pieni poteri per essa a Giov. Andrea Saluzzo Castellar, condo- mino di Paesana e Castellar. A lui era ingiunto di recarsi, con l'assistenza del fiscale marchionale, in tutte le località della valle per procedere criminalmente, d'accordo con i gastaldi del luogo, contro tutti gli eretici, i loro aderenti e fautori, sia che vi fossero stabilmente domiciliati, sia che fossero stranieri o vagabondi: in conseguenza di ciò gli era conferita apposita facoltà di provvedere ed ordinare pene corporali e pecuniarie a suo piacimento. Si rinnovarono le violenze: a Bioletto il 18 luglio fu distrutta la casa, che serviva di Tempio ai Val desi e che, per avere più entrate ed uscite segrete, era chiamato «il labirinto». Altri beni furono confiscati, altri eretici con- dannati al carcere o al bando. Dopo di che la marchesa ed i cugini attesero, secondo gli accordi precedentemente stabiliti, a dividersi i proventi dei beni ed a salvaguardare ciascuno i propri diritti.

Ma nel 1512 un nuovo fatto veniva a turbare la tranquillità della valle ed a scompigliare le vendite ed i baratti di terre e di beni, che gli autori della crociata avevano fatto a spese degli eretici. Una schiera di Valdesi, banditi dalla valle e rifugiatisi sugli alti monti di Barge e della Val Pellice, fece improvvisamente irruzione in val Paesana per riprendere possesso delle case e dei beni, con le armi alla mano, sotto la guida di un energumeno, che - come dice la tradizione reggeva uno spadone a due mani. Sprovvisti di ogni mezzo di sussistenza si diedero a far scorrerie nelle alte borgate della valle, depredando, alla loro volta, grano e bestiami, bruciando ed uccidendo, dove trovavano resistenza [76].

Il terrore si diffuse a segno che i cattolici stessi supplicarono la marchesa ed i Signori della valle a voler riammettere gli esuli nelle loro case. La marchesa ottenne non sappiamo come un'assoluzione generale dal papa: dopo di che, per non perdere tutto il frutto delle sue fatiche, stipulò un accordo con i Valdesi, restituendo loro la parte di beni, che era di sua spettanza, a condizione che le pagassero quattromila quattrocento ducati, e per i beni restanti stipulassero speciali accordi con i Signori della valle.

Ma la somma richiesta, esorbitante per gli scarsi proventi di terre montane e per giunta devastate dalla persecuzione e dalla guerriglia, non fu potuta pagare nel tempo stabilito, onde la marchesa il 14 aprile ripeté il bando contro i Valdesi, comminando la pena di morte a quelli che non fossero usciti dalle terre marchionali entro tre giorni.

Ma l'editto non poté avere intera esecuzione, perché vi si opposero alcuni consiglieri della Corte e Consignori della valle, ai quali le scorribande delle milizie marchesane recavano assai più danno che l'eresia valdese. Si venne ad un compromesso e si stabilì che la somma sarebbe stata pagata per intero, una parte subito, parte in varie rate annuali (8 aprile 1513). Più facili e meno esosi riuscirono i singoli accordi 77 con i Signori della valle. Sulla fine del 1514 la pace e la concordia ritornarono in tutta la valle Paesana e sembra che non siano più state profondamente turbate per parecchi decenni. Le due parti tennero fede al patto stipulato ed i Valdesi, resi prudenti dalla patita persecuzione, qui, come in altre parti del Piemonte, attenuarono momentaneamente il loro proselitismo, mascherandolo forse sotto un'apparente adesione alle cerimonie esteriori del culto cattolico 78. Del resto per più decenni la persecuzione religiosa non trovò condizioni favorevoli per infierire, sia perché i Vescovi di Saluzzo rimasero lontani dal Marchesato, sia perché l'autorità marchionale si svigorì e fu distratta dalle incessanti discordie intestine e dalle guerre cruente, che minarono la compagine e la sicurezza stessa dello Stato.

Ai primi annunzi della Riforma Protestante, i nuclei valdesi di Paesana si riscossero dal loro torpore e furono pronti, insieme con i confratelli Valdesi delle valli del Pellice e del Chisone, a dare la loro entusiastica adesione alle nuove dottrine nella celebre assemblea di Angrogna dell'anno 1532. Non vi fu quindi soluzione di continuità fra Valdismo e Riforma nelle terre del Marchesato; per cui si può dire che anche qui, come in molte altre località del Piemonte, la Riforma affondi le sue radici nel campo dell'eresia medioevale come in un terreno fertile e ben preparato, e che ad essa strettamente si ricolleghi [79]. Riscontreremo, infatti, una corrispondenza topografica quasi perfetta, tra quelli che furono i centri dell'eresia medioevale e quelli che saranno i focolari maggiori della Riforma. Il che dipese non solo dalla sopravvivenza di determinate condizioni ambientali, favorevoli all'uno ed al- l'altro movimento, ma anche dal patrimonio spirituale e dot- trinale, che fu in parte comune all'una ed all'altra dissidenza e che fece sì che la prima potesse trasmettere alla seconda i germi destinati a darle vita e sviluppo.

Regna qualche incertezza intorno all'attività ed al funzionamento del Tribunale del S. Uffizio nelle terre del Marchesato. Si crede dai più che non vi risiedesse un inquisitore stabile [80]. Vi esercitarono tuttavia la loro giurisdizione gli Inquisitori, che avevano sede in Savigliano, nel convento dei Domenicani, il più antico dei conventi domenicani piemontesi [81]. Il potere d' inquisire fu esercitato ora direttamente dai Padri Inquisitori e dai Vicari del S. Uffizio, ora indirettamente con delega a principi e governatori. Così avvenne nel 1417, al tempo del marchese Valeriano di Saluzzo, al quale gli Inquisitori Madea e Susa trasferirono la propria autorità per inquisire contro gli eretici del Marchesato [82].

L'opera del S. Uffizio nelle terre saluzzesi non fu però illi- mitata. Speciali cautele erano usate per preservare i cittadini dagli abusi e dall' ingordigia dell' Inquisizione. Abbiamo veduto come il Comune di Verzuolo nel 1497-98, quando volle procedere contro i cittadini sospetti di eresia e di magia, prima di permettere l'opera del S. Uffizio, richiese al marchese regolare autorizzazione, ed avutala, pensò a circoscrivere l'opera degli Inquisitori con la partecipazione, nei pro- cessi e nelle confische, di un congruo numero di cittadini delegati dal Consiglio [83].

Il Turletti [84] nomina come Inquisitori, al principio del secolo XVI, Ludovico Ferreri (1500-1504) e P. Petrino o Petronimo, saviglianese (1505-1524). A questi è però da aggiungere P. Angelo Ricciardino, che guidò nel 1509-1512 la crociata contro i Valdesi di Paesana, sorretto dalle milizie della marchesa Margherita di Foix.

Quando nel 1511 fu istituita la diocesi di Saluzzo, i vescovi ebbero cura di salvaguardare la loro indipendenza ed autorità giurisdizionale da ogni intervento di giudici forestieri. Infatti, 1'8 gennaio 1518 papa Leone X, ad istanza della marchesa e del figlio Michele-Antonio, prescrisse che tutti gli abitanti del Marchesato fossero esenti « in perpetuo » dalla giurisdizione di conservatori e di qualsivoglia giudice ecclesiastico o secolare estraneo al Marchesato, fosse pur delegato dalla Santa Sede: vietò inoltre che, per qualsiasi pretesto e per qualsiasi processo, essi fossero tratti fuori dei domini marchionali a scopo di giudizi e di sentenze, e che fossero giudicati da altri che non fossero giudici ecclesiastici o secolari del Marchesato [85]. Da allora non sembra che gl' Inquisitori saviglianesi, che successero a P. Ricciardino, cioè P. Girolamo da Mondovì (1532-1544) e P. Cristoforo Galleani di Caramagna [86] esercitò la carica per vari decenni abbiano avuto occasione d'intervenire direttamente o indirettamente nelle cose religiose del Marchesato, salvaguardato nella sua indipendenza ecclesiastica dalla bolla di Papa Leone X.

Con la stabile occupazione francese e con l'applicazione delle norme, che regolavano la chiesa gallicana [87], ai possessi francesi al di qua delle Alpi, il Tribunale della Santa Inquisizione fu escluso dalle terre del Marchesato [88], sebbene Saluzzo fosse sede vescovile, ed i processi furono pertanto rimessi al potere civile. Ad ogni tentativo subdolo d'introdurre il S. Uffizio nel Marchesato per mezzo di Visitatori Apostolici, di Nunzi e di Delegati papali, il Marchesato si oppose sempre con estremo vigore, invocando e difendendo gelosamente le prerogative e le libertà riconosciutegli dai re di Francia. E quando nel 1588 il duca di Savoia, Carlo Emanuele I, occuperà di sorpresa il Marchesato e cercherà, per istigazione del Nunzio di Torino, d'introdurre di soppiatto l' Inquisizione e trarre i riformati davanti a giudici ecclesiastici estranei al Marchesato, le Congregazioni e gli Eletti insorgeranno fieramente per far rispettare i privilegi e le libertà godute sotto il governo francese. Ostili ad ogni forma d' Inquisizione [89], in tutti i loro Memoriali e giuramenti di fedeltà, essi porranno in primo piano la richiesta dell'esclusione del S. Uffizio dalle terre del Marchesato, ed alle pretese ed agli intrighi dei Nunzi e dei duchi tenteranno opporre valide ed autorevoli testimonianze per attestare il modo seguito nei processi di eresia durante tutto il periodo della dominazione francese.

Da queste deposizioni di testimoni inoppugnabili [90], poiché furono tutti segretari o cancellieri nella Senescallia di Saluzzo o nel Parlamento francese di Torino, rimane unanimemente confermato che, sotto il dominio di Francia, i processi di eresia contro persone laiche furono sempre fatti davanti al potere civile, cioè in presenza del Senescallo, al quale spettava la sentenza, o davanti a giudici e podestà, a ciò deputati dal governatore. I deponenti adducono come prova i processi fatti a varie riprese contro i riformati di Val Macra, di Verzuolo e di Paesana, dichiarando che essi non furono mai pro- cessati, se non davanti ai loro giudici secolari e che la conferma si potrebbe trovare nei registri delle sentenze criminali della Senescallia, se le carte non fossero andate perdute durante il colpo di mano del maresciallo Roggero di Bellegarde (1579). Solo nel caso che gli eretici fossero, o fossero stati, prima della loro apostasia, persone ecclesiastiche, il processo e la sentenza erano rimessi al vescovo. Così attesta Tommaso Gambaudo, che fu per ventiquattro anni segretario della Senescallia: «Quando è occorso di procedere contra alcuno ch'era stato ecclesiastico prima e lasciato l'abito per seguitar detta nova et pretenduta religione riformata, inanti che se ne venisse alla esecutione, ho visto rimetterli alli giudici ecclesiastici per degradarli et indi erano passati alle carceri del detto Parlamento per esserne fatta la esemplare esecutione». Tipico fu il caso di un tal Giovanni Sobrero, il quale era dottore in legge e nello stesso tempo ex-frate. Come dottore in legge, egli pretendeva di essere giudicato dal Vicesenescallo: ma, scopertasi la sua qualità di ecclesiastico, fu rimesso per il giudizio al vescovo di Saluzzo. Davanti alle autorità ecclesiastiche si svolgevano normalmente i processi degli eretici, che tornavano spontaneamente in seno alla chiesa cattolica. Il modo o tenore, che in essi veniva seguito, ci è indicato dallo « Stylus observandus circa ugonotos sponte redeuntes », redatto dal vescovo G. M. Tapparelli durante gli anni, che governò la diocesi di Saluzzo (1568-1581) [91]. Gli abiurandi, che tornavano spontaneamente alla fede cattolica, dovevano anzitutto, a voce o per iscritto, far conoscere le ragioni, che li inducevano a rientrare nella chiesa romana, ed esporre i loro errori davanti al notaio; poi, sotto la santità del giuramento, dovevano essere interrogati sulla sincerità della loro supplica: se cioè la loro intenzione fosse spontanea, personale, od istigata da altri, e se facessero l'abiura per vero pentimento o per semplice paura di castighi. Seguiva l' interrogatorio particolareggiato ed assai minuto dei loro errori. Le domande essenziali erano queste: se avessero partecipato con altri eretici alla predica ed alla Santa Cena dei riformati; quando e quante volte, con quali ministri e con quali aderenti; chi li avesse indotti all'eresia; se avessero sedotti altri alle loro dottrine, specie la moglie ed i figlioli; che cosa pensassero dei Sacramenti: se essi od i loro figlioli avessero celebrato matrimonio o battesimo alla maniera degli ugonotti; se credessero che il papa avesse ricevuto da Dio la facoltà di dettar leggi e precetti; che cosa infine pensassero delle indulgenze, della confessione auricolare, delle immagini, dei Santi, della Vergine del Purgatorio, del libero arbitrio, del digiuno, del celibato dei preti ecc.

Dopo la confessione degli errori, gli abiurandi dovevano formalmente dichiarare se fossero disposti a promettere, davanti a testimoni, di credere in avvenire solo ciò che insegna la chiesa cattolica ed a sottostare alle penitenze ed alle pene, che sarebbero state loro imposte per espiazione delle colpe. Seguiva allora la sentenza o l'abiura. Nell'atto di abiura il vescovo, dopo aver ricordato al reo tutte le colpe commesse e le pene, in cui era incorso, dichiarava di essere disposto ad assolverlo, se, prostrato ai suoi piedi, promettesse di rinnegare tutti gli errori passati, di credere nell'insegnamento della chiesa cattolica romana, «fuori della quale non vi è salvezza», e di accettarne la disciplina e la correzione. Liberatolo da ogni censura e riammessolo in grembo alla chiesa, gli imponeva, come penitenza, di udire la Santa Messa tre volte la settimana, di recitare ogni giorno la corona della Madonna, di confessarsi e comunicarsi cinque volte negli intervalli delle maggiori feste e solennità cattoliche, di non praticare più con eretici e sospetti sotto pena di essere irremissibilmente condannato come relapso.

La mancanza dei registri, nei quali durante il periodo della dominazione francese furono trascritti gli atti di abiura degli eretici, ci impedisce di controllare fino a che punto « Stylus e “Formula abiurae” siano stati fedelmente osservati: tuttavia i processi, che avvennero nei primi anni del dominio sabaudo, come, ad esempio, quello di Maddalena Novellaria (21 maggio 1599) [92], attestano una sostanziale corrispondenza con il tenore dei documenti citati e ci permettono di affermare che quella fu la procedura generalmente seguita nel Marchesato nei casi di eresia confessata. Con il trattato di Lione (1601) e con la definitiva annessione al dominio sabaudo, l'Inquisizione ebbe finalmente mano libera nelle terre del Marchesato, che, spogliato delle antiche prerogative, fu, anche in questo campo, sottoposto allo stesso trattamento delle altre province e prefetture del ducato.

Note

[1] CASTELLAR, op. cit., in loc. cit., pp. 500 e segg.; MULETTI, op. cit., VI, 19-27; CHIATTONE, I primi vescovi di Saluzzo, in « Picc. Arch. del March. di Saluzzo », Saluzzo, II, 1903, pp. 278-82; SAVIO, op. cit., I, 113-119.

[2] Le notizie su questi primi rettori della diocesi di Saluzzo sono assai incerte. Cfr. MULETTI, op. cit., VI, 27 e segg.; CHIATTONE, I primi vescovi di Saluzzo, in loc. cit., pp. 279-82; SAVIO, op. cit., I, 122-125.

[3] Su Giuliano Tornabuoni e sulla sua attività come vescovo di Saluzzo, cfr. CASTELLAR, op. cit., in loc. cit., pp. 543-44; MULETTI, op. cit., VI, 40-42, 393; MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., I, 265; CHIATTONE, I primi vescovi di Saluzzo, in loc. cit., pp. 282 e segg.; SAVIO, op. cit., I, 137-149.

[4] Gli “Acta e Statuta Sinodalia Juliani Tornabuoni” conservati nell’ARCH. VESC. DI SALUZZO, sono riassunti dal Savio, op. cit. pp. 138-143 e dal CHIATTONE, op. cit. pp. 285-86.

[5] Così opina il SAVIO, op. cit., I, 148-49, contro l'affermazione di F. A. DELLA CHIESA, Historia Chronologica, p. 117, e del CHIATTONE, op. cit., in loc. cit., p. 286, i quali dicono che il Tornabuoni nel 1517 andò a Roma, prese parte al Concilio Lateranense, poi ritornò nella diocesi, che tenne fino al 1530, anno nel quale rinunziò a favore del nipote Alfonso.

[6] Cfr.: MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 264-267; CHIATTONE, I primi vescovi di Saluzzo, in loc. cit., p. 287; SAVIO, op. cit., I, 185-196.

[7] Sull'Archinto, come vescovo di Saluzzo, cfr. CHIATTONE, I primi vescovi, in loc. cit., pp. 287-90; SAVIO, op. cit., I, 206-225; 233-234 e le opere ivi indicate. Nel primo anno della sua assunzione al vescovato tenne una Sinodo nel mese di agosto, e nell'anno seguente fece la visita pastorale della diocesi: ma gli atti dell'una e dell'altra non ci sono pervenuti.

[8] Per questi vescovi, cfr.: CHIATTONE, I primi vescovi, in loc. cit., pass.; SAVIO, op. cit., I, capp. XVIII, XX, XXII.

[9]Vedasi, ad esempio, quello che un ministro ducale sia esso Niccolò Balbo, come vuole il RICOTTI, op. cit., I, Appendice, pp. 291-340 (Memoriale del Presidente Niccolò Balbo al duca E. Filiberto, a. 1559) o Cassiano dal Pozzo, come opina il PATETTA (La Legislazione sotto E. Filiberto, nel vol. «E. Filiberto », Torino, 1928, p. 231) scriveva nel suo Memoriale al duca E. Filiberto a proposito dei vescovi del Piemonte e del contado di Nizza: «Quali hanno loro titolo e sede fuori del dominio di V. A., quali mai non fanno visite né cercano altro in servitio del Sigr. Iddio fuor che di riscotere le loro entrate, puoco curandosi dei loro populi, quali non è meraviglia se talvolta non sanno quel tanto che loro conviene credere in honore del Sigr. Iddio et sal- vatione delle anime loro ». RICOTTI, loc. cit., p. 292. La controversia sulla paternità del Memoriale, è chiaramente riassunta da F. M. MELLANO, La Controriforma nella diocesi di Mondovì (1560-1602), Torino, 1955, pp. 22-24.

[10] SAVIO, op. cit., I, 143.

[11] Per la storia più particolareggiata di queste abbazie, cfr. MENOCCHIO, op. cit., pp. 29-38, 93-100, 162-163; SAVIO, op. cit., I, cap. I e le opere ivi indicate; MANUEL DI SAN GIOVANNI, Dei marchesi del Vasto, in loc. cit., pass.

[12] A. S. T., Mat. Eccles., cat. Negoziati con Roma, m. da inv. « Memoriale al Sen. Carlo di S. Michele, mandato alla S. Sede con varie incombenze, a. 1559 ». In esso la ricchezza dei beni e dei redditi è denunciata come causa principale della decadenza e della immoralità della vita monacale: ".... Nelli stati nostri vi sono molti monasteri di donne qualle vivono disonestamente et scandalosamente, né vi si può per li loro Superiori etiandio con l'assistenza de' ministri nostri rimediare salvo con levarli li beni che causano in gran parte questi disordini e scandali ». Si chiedeva al Papa che i beni dei monasteri scandalosi fossero tolti e dati ad altri di vita esemplare. 11 MENOCCHIO, op. cit., pp. 30-38, 162-63, parlando dell'abbazia di Cara- magna, dice che quel Commendatario aveva rendite più ricche dell'ap- pannaggio di un principe.

[13] MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., I, 265-66.

[14] II CURLO, Storia della Famiglia Cavassa, in loc. cit., pp. 61-62, dice che le due abbazie di Staffarda e di Casanova, insieme con i monasteri di Rifreddo e di Revello, ebbero un ufficio capitalissimo per l'economía del Marchesato «assicurando così per 400 anni un rifugio alla sovrabbondante discendenza legittima maschile e femminile senza contare l'incredibile supplemento di espansione che i 15 Marchesi si riserbarono con una serie quasi ininterrotta di figli e di figlie illegittime.... Ricettando il superfluo della propaggine marchionale e la superproduzione non meno esuberante delle nobili famiglie saluzzesi, i 14 conventi venivano ad essere gli sfiatatoi indispensabili al funzionamento della gran macchina feudale». La piaga non era esclusiva del Marchesato, ma generale a tutta l'Italia. Scrive il P. TACCHI-VENTURI, Storia della Compagnia di Gesù, Roma, 1910, I, 150-52: « Il lusso smodato e il vizio, che rendevano difficili i maritaggi, movevano i genitori, così delle classi elevate che delle mezzane, a rinchiudere con poca dote le figlie nei conventi, quelle segnatamente, cui natura non era stata gran fatto larga di venustà ed altri pregi esteriori.... Altre entravano nei monasteri per la vita ritirata, in cui erano tenute dai genitori: questa schiavitù domestica le spingeva a staccarsi dalle famiglie e cercar rifugio e indipendenza nei conventi».

[15] CASTELLAR, op. cit., in loc. cit., pp. 499-500 (19 ott. 1511), 502-503 (11 genn. 1512), 577-79 (6 genn. 1523); CHIATTONE, op. cit., in loc. cit.. Pp. 200 e segg.

[16] MANUEL DI SAN GIOVANNI, I Marchesi del Vasto, in loc. cit., pp. 330-31; IDEM, Memorie storiche di Dronero, I, 127, 197-98; II, 127-128; M. GROSSO-M. F. MELLANO, La Controriforma nella Arcidiocesi di Torino, Roma, Poliglotta Vaticana, 1957, I, 9; III, 144.

[17] “... quia moniales in eo sub regularibus institutis et religiose prout convenit non vivunt ». 18 ARCH. VATIC., ROMA, Nunziat. di Savoia, vol. XXVI (a. 1592), fol. 547, 549, 561 e segg.

[18] ARCH. VATIC. ROMA, Nunziat. di Savoia, vol XXVI (a. 1502), fol. 547, 549, 561 e segg.

[19] MANUEL, Memor. stor. di Dronero, II, 127-28; e I Marchesi del Vasto, in loc. cit., pp. 330-31.

[20] CASTELLAR, op. cit., in loc. cit.; SAVIO, op. cit., I, 179-80.

[21] ARCH. VATIC. ROMA, Nunziature di Savoia, Vol. XXXV, fol. 497-507. M. F. MELLANO, La Controriforma nella diocesi di Mondovì, cit., p. 217; M. GROSSO-M. F. MELLANO, op. cit., III, 144.

[22] MANUEL DI SAN GIOVANNI, Notizie storiche di Pagno e della Valle di Bronda, in loc. cit., p. 21.

[23] Vedi la Relazione del Visitatore Peruschi, a. 1579, nel nostro studio: La lotta contro la Riforma in Piemonte al tempo di E. Filiberto, studiata nelle relazioni diplomatiche tra la Corte Sabauda e la Santa Sede (1559-1580), in « Bulletin de la Societé d'Histoire Vaudoise », nn. 53 e 55 (1929-30), doc. CCI. Analizzeremo questa importante relazione al cap. XII del presente lavoro.

[24] ARCH. ARCIV. TORINO, Criminali, a. 1535-1569, Prot. anno 1566; MELLANO, op. cit., pp. 143-146.

[25] Cfr. il nostro studio: La Riforma protestante nelle terre dell'Abbazia dei SS. Vittore e Costanzo, in «B. S. B. S. », a. XXXII, Torino, 1930, pp. 401-446 e XXXIII (1931), pp. 69-76.

[26] ARCH. VATIC. ROMA, Nunziature Savoia, vol. 35, fol. 507, a. 1598.

[27] Non erano meno scandalosi del monastero di S. Antonio di Dronero, per indisciplinatezza, per sfarzo, per immoralità ed amori incestuosi con laici ed ecclesiastici, i conventi di Santa Chiara, in Ca- rignano: A. S. T., Materie Ecclesiastiche: Lettere Ministri Roma, m. 5 e 8 (2 ott. e 13 nov. 1581); ARCH. VATIC, ROMA, Nuns. Savoia, m. 10, fol. 186 (23 apr. 1584); vol. 17, fol. 90 e seg. (1586), e vol. 10, fol. 43. 68-69 (a. 1587), e di Borgatto, in Mondovi. Nuns. Savoia, vol. 10, fol. 359, (a. 1591).

[28] RICOTTI, op. cit., I, 312-313. Cfr. inoltre il nostro studio; La Società e la Chiesa in Piemonte, pp. 30-38; MELLANO, op. cit., pp. 210 e segg.; GROSSO-MELLANO, op. cit., 11, capp. I e 11.

[29] MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., 1, 204-272; CHIATTONE, I primi Vescovi di Saluzzo, in loc. cit., pp. 285 e seg: SAVIO, op. cit., 1, 143-47.

[30] VIVALDO, Opus Magnum, cit. dal SAVIO, op. cit., I, 174.

[31] In SAVIO, loc. cit. Le stesse lagnanze faceva anche l'autore del Memoriale presentato ad E. Filiberto nel 1559: «Et primieramente darej ricordo a V. A. di far monire tutti gli vescovj, quali hanno dio- cesi in questo contado, che debbano far provisione di curati di anime et altre persone ecclesiastiche, dotati di scientia, buoni esempi, et buona coscientia; et che loro medemi, tutto l'anno, debbano dichiarar ai loro populi la vita et verità Christiana, come sono Vangeli et Epistole di Santo Paolo.... con avisare detti vescovi, che non diano i sacri ordini né admettano, come hora si suole, qualunque ignorante: quelli poi pigliano cura di anime, confessano e ministrano i sacramenti, et come ignoranti et criminosi, et di mal esempio, danno cagion di scandalo nei popoli a loro comessi, di onde poi nascono migliaia di inconvenienti.... Et non lascierò di dirle, che come in tutta Italia non vi è regione alcuna, qual habbia le Chiese tanto opulente di entrate; parimenti senza carico delli pochi dotti, dirò che molti Vescovi, Abbati, et altri prelati mal usano di tali entrate et beni di nostro Signor Giesù Christo, et pur sono la più gran parte, ignoranti non solo della legge Divina, ma di altre littere humane, et pur godono la terza parte delle entrate del paese ». Cfr. anche PASCAL, La società e la chiesa in Piemonte, pp. 25 e seg.;. F. RUFFINI, La politica ecclesiastica di E. Filiberto (nel vol. E. Fili- berto, pp. 393-427, Torino, 1928), pp. 403-404 e P. CAVIGLIA, La poli tica religiosa di E. Filiberto (ivi), pp. 359-393, pass.

[32] SAVIO, op. cit., I, 146-47; G. B. SEMERIA, La Chiesa Metropolitana di Torino, Torino, 1840, pp. 268-80 (Relazione della Visita Pastorale di Filippo De Mari, Vicario Generale della Diocesi di Torino sotto il Card. Innocenzo Cibo); PASCAL, La Riforma Protestante nelle terre del- l'Abbazia dei SS. Vittore e Costanzo, in loc. cit. (Relazione del Visitatore Apostolico Ferentillo, a. 1598).

[33] CHIATTONE, I primi Vescovi di Saluzzo, in loc. cit., p. 285; SAVIO, op. cit., I, 143-47. Per uguali abusi e scandali in altre parti del Piemonte, cfr. il Memoriale già cit, del 1559 e PASCAL, La società e la Chiesa in Piemonte, pp. 18-24; MELLANO e GROSSO-MELLANO, opp. citt., pass.

[34] V. la relazione, già cit., in PASCAL, La lotta contro la Riforma in Piemonte, in loc. cit., doc. CCI.

[35] ARCH. VATIC. ROMA, Nunziat. Savoia, vol. 35, fol. 495 (12 sett. 1598); vol. 36, fol. 20, 127, 274, 478 ecc. Già due anni prima il Nunzio aveva lamentato che ci fosse promiscuità di uomini e di donne nei monasteri di Saluzzo. IBIDEM, vol. 33, fol. 187 (8 apr. 1596). Perfino il P. Martinengo, che il duca di Savoia Carlo Emanuele I, dopo l'occupazione del Marchesato, avrebbe voluto sostituire al Vescovo francese Antonio Pichot, non era esente da queste colpe. Lo si accusava infatti di tenere una monaca fuori del convento ed in casa sua, di essere solito a frequentare le monache del convento di Bonloco presso Saluzzo, e di avere avuto da simili relazioni parecchi figlioli. IBIDEM, vol. 26, fol. 483, 487, 505, 582-83 (a. 1592) e A. S. T., Lett. Ministri Roma, m. XII: lett. 10, 12, 25 apr., 1, 16, 25 mag., 8, 27 giugno, I, 10 luglio 1592. Cfr.: PASCAL, La società e la Chiesa in Piemonte, pp. 22-23: E. RODOCANACHI, La Réforme en Italie, Parigi, 1920, II, 475-80.

[36] Basterà ricordare quelle durate più anni, del vescovo Filippo Archinto contro il Capitolo ed il Comune di Carmagnola e contro la Collegiata di Saluzzo, allo scopo di conservare ed aumentare le rendite della Mensa Vescovile: cfr. MENOCCHIO, op. cit., pp. 107-131; SAVIO, op. cit., I, 219-222. Altre controversie furono sostenute con il Comune e le chiese di Dronero; MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 25, 48-49, 54-56, 61.

37 II MENOCCHIO, op. cit., p. 37 dice che pontefici, imperatori, marchesi e signori, invece di «avvisare ai mezzi di sovvenire ai bisognosi ed indigenti, massime di quelli che come schiavi dovevano vieppiù sopportare le dolorose conseguenze della loro miseria e della loro abie- zione », largheggiavano coi cenobi in danaro, in privilegi, franchigie ed esenzioni, sicché «queste prodigalità oltre far crescere il pauperismo nella popolazione eccitavano l'impudenza e la prepotenza dei monaci».

[38] Non crediamo che appartenga al nostro studio seguire minuta mente le complesse vicende della lotta, che nella seconda metà del sec. XVI si accese nel Marchesato per costringere gli ecclesiastici a concorrere nei pubblici carichi. La controversia fu specialmente ingaggiata dai tre maggiori centri del Marchesato: Saluzzo, Carmagnola e Dronero, ma spesso coinvolse tutto il Marchesato ed ebbe il suo naturale dibattito nelle Congregazioni Generali, nei Collegi degli Eletti e davanti ai governatori ed al re stesso. La controversia fu quasi sempre decisa a danno degli ecclesiastici. Vedi, fra gli altri, gli editti e le ordinanze di Carlo IX, re di Francia (7 maggio 1562); di Ludovico Birago (20 set- tembre 1562); del maresciallo di Bourdillon (4 febbr. 1563); del Con- siglio dei Giureconsulti (7 ottobre 1563); di Lud. Birago (26 dic. 1563 e 18 maggio 1564), ecc. Cfr. MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 7, 20, 25, 30, 48, 49, 53-56, 61-69; MENOCCHIO op. cit., pp. 124, 130-31; BOLLATI, op. cit., I, III, 117, 126, 136-138; SAVIO, op. cit., I, 257-62.

[39] In RICOTTI, op. cit., I, 314.

[40] SAVIO, op. cit., I, 144 e seg.

[41] CHIATTONE, Matrimoniana, in loc. cit., pp. 213-215. Aver figli illegittimi e tenerli in casa accanto alla moglie era cosa così comune, che nessuno se ne scandalizzava. Margherita di Foix ospitava alla Corte i figli illegittimi di Ludovico II e di una figlia di Michele-Antonio.

[42] Cfr. le Costituzioni del vescovo Giuliano Tornabuoni, in loc. cit. Analoghi scandali e disordini avvenivano in altre parti del Piemonte: cfr. RICOTTI, op. cit., I, 291-340 (Memoriale già cit. del 1559, pass.), II, 118-19; la Relazione dell'ambasciatore Morosini, in ALBERI, Relazioni degli Ambasciatori Veneti al Senato, Firenze, 1839, Se. II, vol. II, 113-193; le Costituzioni, le Visite Pastorali e i Decretalia degli Arcivescovi Tori- nesi, riassunti nei loro passi più salienti nel nostro studio cit. La soc. e la Chiesa in Piemonte, pass.; GABOTTO, La vita in Asti al tempo di G. Giorgio Alione, Asti, 1899; MELLANO e GROSSO-MELLANO, opp. citt., passim.

[43] CHIATTONE, Vescovi di Saluzzo, in loc. cit., pp. 285-86 e Matrimoniana, in loc. cit., pp. 218-19, 252-53; SAVIO, op. cit., I, 144 e seg.

[44] Già cit.

[45] ARCH. VATIC ROMA, Nunz. Savoia, vol. 35, f. 495 (12 sett. 1598).

[46] SAVIO, op. cit., I, pp. 271-72.

[47] L. PASTOR, Storia dei Papi, trad. ital., t. III, 8.

[48] Per i documenti probativi - che sarebbe troppo lungo elencare minutamente rimandiamo alle opere già citt. del MULETTI, del MA- NUEL DI SAN GIOVANNI, del MENOCCHIO, del BOLLATI, del CHIATTONE, del SAVIO; agli Ordinati e Statuti delle Comunità; ai verbali delle Congregazioni Generali; alle Costituzioni e alle relazioni delle visite pastorali dei vescovi saluzzesi.

[49] Alle spese per l'erezione del Duomo avrebbero contribuito anche gli eretici delle alte valli del Marchesato, soprattutto di Val Paesana, sia direttamente con contribuzioni forzate, sia indirettamente col provento dei beni ad essi confiscati. Il MULETTI, op. cit., I, 19, 44 e segg. deduce la notizia da una antica iscrizione, che diceva: «Ex Piorum et Impiorum elemosinis ». Cfr. CHIATTONE, La costruzione della Cattedrale di Saluzzo, in «BSSS », vol. XV. 1902, pp. 163-257.

[50] Vedansi, ad esempio, gli Ordinati del Comune di Carmagnola sotto le date seguenti: 18 apr. 1559, 16 apr. 1560, 5 apr. 1565, 15 apr. 1566, 21 luglio 1567, 21 sett. 1567, 10 ott. e 17 ott. 1567, 4 dic. 1567, 10 apr. 1568, 17 giugno 1568, 14 apr. 1569, 15 mag. 1569, 10 giug. 1570, 12 apr., 22 luglio e 31 dic. 1571, 3 apr. 1572, 13 dic. 1575, 5 mar. 1576, 3 mag. 1578, I dic. 1590, 12 mar. 1591.

[51] Ancora per Carmagnola: Ordinati sotto le date: 4 febb. 1548, 12 genn. 1550, 9 febbr. 1550, I febbr. 1555, 7 febbr. e 7 giug. 1557, 6 febbr. 1558; 30 apr. 1559, 20 mag. 1560, 4 mag. 1561, 28 nov. 1564, 31 dic. 1572.

[52] Ordinati del Comune di Carmagnola, vol. VI, 19 apr. 1541 e vol. IX, 10 nov. 1558.

[53] Ordinati del Comune di Carmagnola, 22 ott. 1559, 4 mar. 1560, 8 e 26 genn. 1568, 3 genn. 1569, 24 febbr. 1573, 20 sett. 1576.

[54] Alcune delle fratrie e delle confraternite datavano dai secoli precedenti. Cfr. MULETTI, op. cit., III, 194; IV, 116-18; MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., I, 132-36, 188, 203 e seg.; MENOCCHIO, op. cit., p. 29; TURLETTI, op. cit., t. II. P. III, cap. VII, pp. 431 e segg.; GABOTTO, Verzuolo, in loc. cit., p. 35; SAVIO, op. cit., I, 11-12, 179.

[55] SAVIO, op. cit., I, 32-33 riassume la Tabula Visitationis Generalis e la Tabula Visitationis Specialis conservate nell'Archivio della Confraternita del Gonfalone, in Saluzzo.

[56] TURLETTI, loc. cit., e Arch. della Confraternita dell'Assunta in Savigliano.

[57] Le donne furono dapprima escluse da questi sodalizi, più tardi ammesse: ma sembra che questa concessione portasse a qualche inconveniente, poiché Antonio Vacca, vicario in Saluzzo dell' Arcivescovo di Torino, minacciò la scomunica alle confraternite che accogliessero donne. Ma il divieto fu momentaneo, perché nel 1504, per concessione pontificia, i benefici ed i privilegi delle confraternite furono estesi anche alle donne. SAVIO, op. cit., I, 33.

[58] Delle Missioni dei Gesuiti e dei Cappuccini parleremo più diffusamente nei capp. segg.

[59] Cfr. A. FERRATO, La festa del Martedì Santo a Saluzzo. Ricerche Storiche, Saluzzo, 1897; SAVIO, op. cit., I, 294-95.

[60] Scrive l'EGIDI, op. cit., II, p. 45-46: «Il confronto con i predicatori e pastori riformati era schiacciante: questi, nutriti di studi profani, e sopratutto conoscitori perfetti dei libri santi e degli scritti dei padri e dei dottori, animati da fervore entusiastico per le loro dottrine, esaltanti una libertà intellettuale e religiosa accompagnata da purezza di cuore (le eccezioni erano relativamente scarse), percorrevano instancabilmente i luoghi, predicando con eloquente passione, e apparivano anche più perfetti al confronto coi loro avversari. Le classi colte erano conquistate dagli ideali del libero esame, dalle critiche intellettuali alla dottrina e alle consuetudini cattoliche: quelle incolte sopratutto dalla predicazione morale dei riformati e dal mal esempio del clero cattolico ». Lo stesso riconoscimento della superiorità intellettuale e morale dei predicatori riformati sul clero cattolico francese si può leggere nel discorso che il Monluc tenne nell'assemblea degli Stati generali a Fontainebleau (1560), quando ai vescovi e curati « ignoranti, pigri, avari e dissoluti» contrapponeva i quattrocento ministri della nuova setta diligens et exercéz aux lettres, avec une grande modestie, gravité et apparence de saincteté, faisans profession de détester tous les vices et principalement l'avarice, sans aulcune crainte de perdre la vie pour confirmer leur foi ». Cfr. LAVISSE, op. cit., VI, 22.

[61] Cfr. RICOTTI, op. cit., I, 314.

[62] Purtroppo anche nelle file della Riforma, accanto ai puri di cuore ed ai convinti sostenitori della nuova fede, accanto agli sprezzatori delle agiatezze e degli onori del mondo, s' infiltrarono a poco a poco elementi meno puri e meno disinteressati, ai quali la nuova religione sembrava offrire un'occasione propizia per sottrarsi all'obbligo dei digiuni, delle penitenze, della confessione e della santificazione delle numerose feste cattoliche; motivo sufficiente per svincolarsi dalla rigida morsa dei dommi cattolici e per protestare contro l'avarizia e l'invadenza del clero. Contro questi elementi impuri, che avendo cambiata la fede senza cambiare il cuore, erano causa di scandalo, di discredito e di intemperanza per la nuova chiesa sorgente, si abbatté spesso minacciosa ed inesorabile la mano del riformatore Calvino.

[63] Di essi tratteremo più particolarmente al cap. IV.

[64] Per l'eresia in Piemonte anteriormente alla Riforma protestante cfr. A. RORENGO, Memorie historiche dell' introduttione dell' heresie ecc., Torino, 1649, pp. 6-26; MULETTI, op. cit., V, 6-7; RICOTTI, op. cit., II, lib. IV, cap. 3º; MANUEL DI SAN GIOVANNI, Memorie stor. di Dronero, II, 39-40 e Un episodio della storia del Piemonte nel sec. XIII, in << Mi- scell. Stor. Ital. », a. XV, (pp. 9 -84), Torino, 1874; pp. 75-84; CIBRARIO, Dell'economia politica nel M. Evo, Torino, 1854; SARACENO, Regesto dei Principi di Acaia, in « Miscell. stor. Ital., a. XX, pp. 95-237, Torino, 1881; EM. COMBA, Histoire des Vaudois du Piémont, P. I, Torino, 1887; BOFFITO, Eretici in Piemonte al tempo del Gran Scisma (1378-1417), Roma, 1897 (estr. da «Studi e doc. di storia e diritto », a. XVIII), pp. 381-431; IDEM, Eretici di Cuneo, in «B. S. B. S. », I, 324-333, a. 1887; GABOTTO, Vita in Cuneo alla fine del medio evo, nel vol. «Cuneo », Torino, 1898, pp. 227 e seg.; IDEM, Verzuolo, già cit. in loc. cit.; IDEM, Storia di Cuneo dalle origini ai giorni nostri, Cuneo, 1898, pp. 42 e seg.; IDEM, Roghi e Vendette, Pinerolo, 1898; IDEM, Val- desi, Catari e streghe in Piemonte, in «Bull. Soc. Hist. Vaud. », n.º 18, a. 1900, pp. 3-20; SAVIO, op. cit., I, cap. X; G. VINAY, Il Valdismo alla vigilia della Riforma, in «Bull. Soc. Hist. Vaud. (Studi Valdesi) », a. 1935, n.º 63, pp. 65-69. Per una più completa bibliografia, cfr. A. ARMAND HUGON-GIOV. GONNET, Bibliografia Valdese, edita sotto gli auspici della Soc. di Studi Valdesi, Boll. n.º 93, a. LXXIII.

[65] Si possono riassumere brevemente in questi fatti. Negli inizi del '300 predicò dottrine valdesi o catare il barba Martino Pastre, che, arrestato e processato, confessò agli Inquisitori di aver predicato le sue dottrine da oltre un ventennio in tutte le terre, che si stendono da Pinerolo a Saluzzo e più oltre fino alla Contea di Nizza. Alcuni anni dopo (8 luglio 1332) un Breve di Papa Giovanni XII ordinava all' Inquisitore Giovanni De Badis di predicare e d'inquisire contro i Valdesi delle Valli del Pellice e del Chisone, rei di rivolta contro gli agenti del S. Offizio, e contro gli eretici ed i sospetti delle terre sottoposte alla giurisdizione del marchese di Saluzzo. Sul principio del sec. XV, mentre altre persecuzioni infierivano nei centri eretici circonvicini di Asti, Chieri, Mondovì, Demonte e Bernezzo, anche Valeriano de' Saluzzi, che reggeva il marchesato in nome di Ludovico I, riceveva ordine dagli Inquisitori Madea e Susa di inquisire, arrestare e condannare tutti quelli che abitavano sulle terre del Marchesato e che risultavano eretici o fautori e ricettatori di eretici. E pare che essi fossero assai numerosi e disseminati in varie località. (In nonnullis partibus dicti Marchionatus Salutiarum sunt multi heretici). Nuclei di dissidenti erano anche in quel medesimo tempo in Demonte, in Savigliano e in Carmagnola. Cfr. le opp. citt. nelle note precedenti.

[66] I RICOTTI (op. cit., II, 173-74) opina che il famoso Inquisitore Alberto de Capitaneis (alias Cattaneo), arcidiacono di Cremona, incaricato della repressione dell'eresia nella zona alpina del Piemonte e del Delfinato, abbia fatto una spedizione armata anche in Val Macra e vi abbia trovata così fiera resistenza da essere obbligato a ritirarsi. Contestano questa affermazione, con valide ragioni, il MANUEL DI SAN GIO- VANNI (op. cit. II, 39 e seg.) e il JALLA, Hist. des Vaudois, Torre Pellice, 1904, pp. 76-81. Il Manuel tuttavia ammette che vi fossero eretici nelle parti più montane della Valle fin dagli ultimi decenni del sec. XV. Cfr. anche FRA ARCANGELO DA SALTO, Idea di religioso Serafico rappresentata nella vita del B. Angelo da Chivasso, Cuneo, 1664, pp. 103 e seg. [67] GABOTTO, Verzuolo, in op. cit., pp. 28-29; SAVIO, op. cit., p. 31.

[68] “... qui habeat perquirere infamatos de crimine heresis vel here- ticos et maschas et similes personas, que sunt extra fidem catholicam eo quod multa mala fiunt in presenti loco et territorio eiusdem loci”.

[69] «Qui habeant adesse et semper interesse in examinationibus fiendis personis jncarceratis et carcerandis occasione mascarijs et heretice pravitatis»; GABOTTO, loc. cit.

[70] Sulla persecuzione contro i Valdesi di Paesana al tempo di Margherita di Foix, cfr. CASTELLAR, op. cit., in loc. cit., pp. 492-520, pass.; P. GILLES, Histoire Ecclésiastique des Églises réformées.... de Piémont.... appellées Vaudoises, Genève, 1644 (ediz. Pinerolo, 1881, pp. 43-44); RORENGO, op. cit., pp. 89-92; Véritable Hist. des Vaudois, in loc. cit., pp. 682-83; MULETTI, op. cit., VI, 29, 381; EM. COMBA, Hist. des Vaudois, cit., I, 458 e seg.; PASCAL, Margherita di Foix, in loc. cit.; SAVIO, op. cit., I, 132-35; PREVER, Margherita di Foix, in loc. cit., fasc. I, pp. 139-142 e II, pp. 40-41.

[71] Secondo il GILLES, op. cit., loc. cit., i Valdesi sarebbero venuti nella valle del Po fin dal principio del sec. XIV, chiamati dai Signori della valle, perché dissodassero le terre più alte ed incolte: secondo il SAVIO, op. cit., loc. cit., lo stabilimento dei Valdesi nella valle sarebbe avvenuto progressivamente. I Valdesi, abitanti della limitrofa valle del Pellice, avrebbero cominciato a condurre i loro greggi nelle parti più alte della valle saltuariamente, poi stabilmente costruendovi delle Meyres » o «miande » ed infettando della loro eresia a poco a poco tutti i villaggi più montani della valle, Perciò, secondo questo autore, più che una propaganda religiosa » lo stabilimento dei Valdesi nella valle sarebbe stata in origine «una invadenza di territorio perpetrata a danno di pacifici ed inermi montanari, indulgenti per sentimento di carità ». Contro questa recisa affermazione sta però il fatto che mai i Signori della valle molestarono i Valdesi per questa presunta usurpazio- ne; anzi durante la persecuzione ordinata da Margherita di Foix essi intervennero più volte ad attutire i rigori ed a stimmatizzare gli eccessi.

[72] Prima ancora che la persecuzione cominciasse, la marchesa si preoccupò di comperare i diritti spettanti al vescovo di Torino ed all'Inquisitore e fece speciali accordi con i cugini, consignori di Castellar e Paesana.

[73] Il PREVER, nel suo recente studio su Margherita di Foix (loc. cit.), accusa tutti gli storici, dai più antichi, come il Castellar ed il Della Chiesa, ai più recenti, come il Muletti ed il Savio (loc. cit.), di aver di molto esagerata l'importanza e la crudeltà della crociata contro i Valdesi di Paesana, giudicando la marchesa con « eccessiva severità », e colpevole di « inaudite crudeltà » e dando alla sua inquisizione « un'importanza che non ebbe affatto ». Secondo il Prever tutto si sarebbe ridotto a poche esecuzioni capitali (4, 05), giustificate per giunta dalla rivolta armata dei dissidenti, e a qualche distruzione di case e di templi. Ammettiamo pure con lui che le esecuzioni capitali, comprovate dai documenti del tempo (v. CASTELLAR, in loc. cit.), siano relativamente esigue ed insignificanti rispetto ad altre persecuzioni del tempo: rimane tuttavia il fatto che la persecuzione infierì quasi ininterrotta per tre anni; che oltre ai giustiziati ci furono numerosi uccisi, fustigati, imprigionati e multati e che tutta una popolazione montana fu costretta ad abbandonare le proprie case ed a cercare scampo nella fuga. I massacri documentati compiuti contro i Valdesi del Pellice e del Chisone possono inse- gnare al Prever a quali «crudeltà inaudite » si abbandonassero soldati e birri ed erano in Paesana più di duecento quando venivano lan- ciati alla caccia dell'eretico. Per noi, il giudizio del Prever pecca per lo meno, in senso deprimente, della stessa esagerazione che egli rim- provera agli storici, che lo precedettero. Se il Prever avesse avuto la bontà di esaminare i documenti inediti inseriti nel nostro studio sui Valdesi di Paesana, forse, io credo, si sarebbe indotto ad attenuare alcune delle affermazioni troppo assolute, che tendono a minimizzare la persecuzione o a giustificare la marchesa, la quale iniziò la sua inquisizione non già contro dei « ribelli aperti ed armati » come vuole il Prever ma contro pacifici dissidenti, che solo più tardi si ribelleranno e si difenderanno con le armi, quando cioè vedranno conculcata la loro libertà di coscienza e di culto e minacciata la loro esistenza stessa.

[74] Dai loro interrogatori furono desunti gli « Errores Valdensium in Paesana commorantium», che in 63 articoli riassumono le dottrine di quei Valdesi. Cfr. PASCAL, Margherita di Foix, in loc. cit., pp. 22 e seg.; G. VINAY, op. cit., in loc.cit.

[75] I CASTELLAR (loc. cit., p. 495) deplora apertamente il fatto: « A iorni II majo ne fu brussato (bruciato) tre in Paisana in le gravere (nel greto) del Po; a li quali hera stato perdonato la vita dicendo la verità, chomo disono (come si dice); ma perché li altri fusiteno (fug- girono) volseno (vollero) pura fare qualche iusticia e gli fu rota per lo inquisitore la fede et per Francesco Arnaudo, che se disia (diceva) procurore de la fede, et fu mal fatto a manchargli a la promessa da poi che aviano (avevano) chonfessato liberamente».

[76] Parecchi storici cattolici, segnatamente il RORENGO e il SAVIO (opp. citt.) affermano che i Valdesi, irrompendo nella valle, << passarono tutto, uomini e bestie, a fil di spada, che uccisero le donne, i fanciulli, i vecchi e gli infermi; che, in una parola commisero una « vera carneficina». La loro affermazione, che tende a dimostrare che dappertutto la Riforma s'impiantò solo con la violenza, urta però contro l'esplicita testimonianza del CASTELLAR, il quale scrive: « Si feseno (fecero) a Oncino asai chorerie (scorrerie) et qussi (così) in Paisana et amasareno (ammazzarono) cinche homini et più de cento bestie. Questo in più volte et brusareno (bruciarono) asai chase et tecti et feneri (fienili) per la campagna ». In altre parole molti danni alle cose, cinque soli omicidi ! Se noi usassimo lo stesso ragionamento fatto dal Prever a giustificazione della marchesa, dovremmo anche noi concludere che le crudeltà imputate ai Valdesi, dopo tante sofferenze e rovine patite, furono eccezionalmente miti. Ma le parole del Castellar, anche in questo punto, lasciano intendere qualche cosa di più grave, che trascende le nude cifre. Certo anche i cattolici, come i Valdesi, poterono ridurre al minimo le perdite umane, sottraendosi tempestivamente alla furia degli invasori con la fuga, ma videro distrutti molti dei loro beni.

[77] I Valdesi si obbligavano a pagare subito, all'atto della stipulazione dell'accordo, 600 ducati alla marchesa e 40 ducati all'anno, in perpetuo. I signori della valle si contentarono di prestazioni e di tributi in natura.

[78] Già prima della persecuzione alcuni valdesi della valle solevano intervenire alla Messa, per evitare le pene comminate contro coloro, che disertavano gli atti pubblici del culto cattolico. In chiesa cattolica furono, infatti, arrestati parecchi degli indiziati. Cfr. CASTELLAR, loc. cit., p. 494.

[79] Ci piace qui ricordare le parole di uno dei più autorevoli studiosi dell'eresia piemontese, FERD. GABOTTO: « Anche se fra gli ultimi accenni alla eresia cataro-valdese e le prime notizie della espansione luterana in Piemonte intercorra spesso un intervallo di parecchi decenni, non si può dire che ogni germe ed ogni reliquia delle precedenti dissidenze andasse perduta per ripullulare su terreno vergine affatto », Storia di Cuneo, cit., pp. 58-59.

[80] Dalla deposizione fatta dall'Auditore Cullet (9 dic. 1707) risulterebbe che l' Inquisizione funzionava nel Saluzzese durante l'anno 1424, poiché in quell'anno il marchese Ludovico I inviava una lettera all' Inquisitore per pregarlo di soprassedere alla cattura di un Regolare fino al suo ritorno da Carmagnola. Da un altro Memoriale, dato alla Infanta Caterina nel 1625 (art. 25), si ricaverebbe pure che l' Inquisizione vi fosse nel 1504, al tempo di Margherita di Foix (A. S. T. Mat. Eccles. categ. Inquisizione, m. II, fasc. 21). Secondo il DELLA CHIESA (Elenco degli Inquisitori, IBIDEM, mazzo I), nei processi contro i Valdesi di Pae- sana, insieme col P. Angelo Ricciardino, avrebbe funzionato anche il Frate Agostino da Pavia, intitolandosi «inquisitor heretice pravitatis in Lombardia, in Marchia Januensi et Marchionatu Saluciarum ». Un Inquisitore sappiamo che operò contro gli eretici di Verzuolo nell'anno 1497 ed un altro, Fra' Vincenzo di Aosta, contro le streghe di Brondello. Cfr. GABOTTO, Verzuolo, loc. cit., pp. 28-34; SAVIO, op. cit., I, 31; II, 49.

[81] Cfr. TURLETTI, op. cit., II, 211-309; SAVIO, op. cit., I, 130 e seg.; II, 49-50. Questo Tribunale estendeva la sua giurisdizione a tutto il Piemonte, al Marchesato di Saluzzo, alle Valli di Luserna e di Susa, alla Lombardia Superiore ed alla Liguria.

[82] MULETTI, op. cit., V, 6; SAVIO, op. cit., I, 130.

[83] GABOTTO, Verzuolo, in loc. cit., pp. 28-29. Anche durante la crociata contro i Valdesi di Paesana vediamo i consignori della valle tutelare i loro diritti contro gli abusi degli Inquisitori.

[84] TURLETTI, op. cit., II, 330.

[85] SAVIO, op. cit., I, 73-76, 148. 86 P. Galleani fu l'ultimo vero Inquisitore di Savigliano. Infatti, avendo il Papa Pio V limitato il S. Offizio alle sole città vescovili, il Tribunale di Savigliano fu soppresso ed incorporato con quello di Torino. Rimase tuttavia a Savigliano un Vicario del S. Uffizio, il quale spesso continuò a portare il nome di Inquisitore. Cfr. TURLETTI, op. cit., II, 312, 330.

[86] P. Galliani fu l'ultimo vero inquisitore di Savigliano. Infatti, avendo il papa Pio V limitato il Sant'Ufficio alle sole città vescovili, il tribunale di Savigliano fu soppresso ed incorporato con quello di Torino. Rimase tuttavia a Savigliano un Vicario deòl S. Ufficio, il quale spesso continò a portare il nome di Inquisitore. Cfr. TURLETTI, op. cit. II, 312-330.

[87] II RUFFINI (vol. E. Filiberto, Torino, 1928: Politica Ecclesiastica, pp. 41-42) dice che « les libertés de l'église gallicane » costituiscono il più completo sistema di intromissione della politica laica nelle faccende ecclesiastiche ed insieme di indipendenza della chiesa locale dalla romana. I francesi si affrettarono ad estendere il sistema gallicano ai dominî francesi in Piemonte. Francesco I, con ordinanza del 24 agosto 1539, diretta al Parlamento di Torino, aveva prescritto di « observer en notre pays de Piémont » lo stesso stile usato «en notre pays de France » anche nelle cose ecclesiastiche. Delle istituzioni gallicane fu strenuo difensore il Parlamento di Torino. Cfr. L. ROMIER, Les insti- tutions françaises en Piémont, in «Revue Historique », CLXVI, a. 36 (genn.-apr. 1911), pp. 1-26 e Les origines politiques des guerres de religion, Parigi, 1913, I, 531-549.

[88] II SAVIO, op. cit., II, 49, opina che in seguito alla Bolla di Pio V, che stabiliva che gli Inquisitori prendessero sede nelle città vescovili, anche in Saluzzo sia stato eretto un tribunale del S. Offizio; ma riconosce tuttavia che esso non ebbe mai carattere di pubblico istituto forense. Non può infirmare questa affermazione il fatto narrato da G. MASSA, Diario dei Santi, Beati, Venerabili servi di Dio, ecc. Torino, 1815, T. I. (3 dic. 1577), secondo cui un certo Raimondo Travilla o Tiravilla, domenicano ed Inquisitore, sarebbe stato ucciso il 3 dic. 1577, insieme con due altri frati domenicani, dagli eretici di Revello. Infatti lo storico domenicano Giov. Piò ha dimostrato con buone testimonianze che il fatto non avvenne a Revello, presso Saluzzo, ma a Revel, in Linguadoca. Cfr. SAVIO, op. cit. I, 297.

[89] Cfr. MANUEL DI SAN GIOVANNI, op. cit., II, 117; CHIAPUSSO, Carlo Emanuele I e l'impresa sul Marchesato di Saluzzo, Torino, 1891, pass.; A SAVIO, op. cit., I, 320-322.

[90] A. S. T., Mat.Eccles., categ. 9: Inquisizione, m. I, fasc. 21 (Deposizioni fatte davanti al Senescallo Allardo da Ludovico della Chiesa, Tommaso Gambaudo e Felice Leone) e fasc. 28 (Sommario delle prove giustificanti lo stile che dagli Inquisitori mai si procedesse senza l'assistenza dell' Ordinario). Al cap. 12 si legge: «Nel Marchesato di Saluzzo tant'al tempo di Francia che inanti e dopoi sempre gl' inquisiti d'eresia sono stati processati dagli Vicesenescalli et altri giudici laici e lo provano benissimo li registri di questa Corte».

[91] SAVIO, op. cit., I, 296-97; II, 49-50.

[92] SAVIO, op. cit., I, 331.